Vivere all’estero non significa solo adattarsi a nuove culture, ma anche diventare ambasciatori della propria. È questo il credo di Claudio Pocci, toscano della Maremma, da metà della sua vita residente a Praga.
Ingegnere e imprenditore nel settore immobiliare, insignito di recente del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana, Pocci dal 2023 è il Delegato locale dell’Accademia Italiana della Cucina e, in fatto di gastronomia, non ammette compromessi e accomodamenti. La sua missione? Difendere l’autenticità della cucina italiana e farne conoscere i valori e le eccellenze in Repubblica Ceca.
“Da trent’anni a Praga, ma la mia cucina italiana non si tocca. La carpa per Natale accanto al panettone? No, grazie” - Intervista con Claudio Pocci, Delegato a Praga dell’Accademia Italiana della Cucina
Ci racconti quando e come ha capito che la cucina sarebbe diventata una parte così importante della sua vita, tanto da aderire all’Accademia e a diventarne poi il Delegato?
Personalmente, ho sempre avuto un grande interesse per la cucina. Quando poi mi sono trasferito in Repubblica Ceca, mi sono reso conto che a noi italiani, all’estero, spetta anche il compito di far conoscere e far apprezzare il vero patrimonio gastronomico del nostro Paese, comprese le sue materie prime più genuine. Così nel 2016 sono entrato a far parte dell’Accademia Italiana della Cucina, un’esperienza che ha consolidato il mio interesse per la valorizzazione della nostra cultura gastronomica. Nel 2023, poi, sono stato nominato delegato dell’Accademia qui a Praga. Lo considero un modo concreto per contribuire alla diffusione e alla valorizzazione della nostra tradizione gastronomica da queste parti.
In qualche modo ha anche ereditato il lavoro dei suoi predecessori a Praga
Sì, certamente. Io ho preso il testimone da Giancarlo Bertacchini, il quale ha fatto moltissimo e col suo lavoro ha dato una svolta significativa allo sviluppo e alla conoscenza della Delegazione in ambito italiano e ceco. Lui, a sua volta, ricevette l’incarico da Lorenzo Bembina, il primo delegato dell’AIC in questo Paese.
Lei vive a Praga da trent’anni. Come ha visto cambiare la percezione della cucina italiana in Repubblica Ceca nel corso del tempo?
Quando mi sono trasferito qui, negli anni ‘90, la cucina italiana era vista come qualcosa di molto semplice, spesso ridotta ai piatti base che si potevano trovare nei pochi ristoranti italiani presenti all’epoca. Si trattava di un’offerta limitata, quasi da “trattoria”. Con il tempo, però, ho visto crescere la curiosità e la sensibilità dei cechi verso la nostra tradizione gastronomica. Oggi molti conoscono bene la cucina italiana e apprezzano le sue varie espressioni, dalla pizza napoletana alle ricette regionali più complesse. Questa evoluzione è stata notevole ed è diventata parte integrante del panorama culinario locale.
Ci racconti un episodio divertente o magari anche imbarazzante a tavola, vissuto qui a Praga in un contesto legato al nostro tema.
Ricordo un episodio che ancora mi fa sorridere. Durante gli anni ‘90, un amico ceco, il quale aveva appena seguito un corso di cucina italiana da un cuoco croato, ci invitò a casa per mangiare la pasta al forno. Voleva ovviamente lusingarmi, forse anche impressionarmi, ma gli ingredienti non erano propriamente quelli giusti: salsa impresentabile e un taleggio del tutto inappropriato al posto del parmigiano. Un tentativo goffo ma affettuoso di avvicinarsi alla nostra cultura culinaria. Questo episodio rappresenta bene l’approccio iniziale dei cechi alla cucina italiana: apprezzamento ma anche qualche incomprensione.
Parliamo anche del suo rapporto con la cucina locale. Qual è il piatto ceco che ha conquistato il suo palato? E qual è quello che proprio non riesce a mandare giù?
Uno dei piatti cechi che preferisco è la svíčková, uno stufato di carne con una salsa cremosa a base di verdure e panna, accompagnato da knedlíky. È un piatto ricco, saporito, che mi ha conquistato con il suo sapore intenso e il suo legame con le tradizioni locali. Al contrario, non riesco proprio a farmi piacere il guláš. Nonostante sia molto apprezzato qui, trovo il suo sapore troppo pesante e speziato per i miei gusti. È una questione personale, ma è un piatto che non sceglierei mai volentieri.
Secondo lei, la cucina italiana e quella ceca hanno qualcosa in comune, o sono due mondi completamente diversi? C’è qualcosa che le avvicina?
Prima di rispondere a questa domanda, mi permetto di fare una riflessione: di quale cucina italiana stiamo parlando? La cucina italiana non è un’entità unica, ma la somma di tante cucine regionali, ognuna con le sue tradizioni, ingredienti e preparazioni. Questa diversità è ciò che rende la nostra gastronomia così ricca e affascinante. Detto questo, trovo che la cucina ceca possa avvicinarsi a quella di alcune regioni del Nord Italia, e questo per ragioni storiche. Ad esempio, ci sono somiglianze con il Trentino-Alto Adige o del Friuli-Venezia Giulia, regioni che, come la Repubblica Ceca, hanno subito influenze austro-ungariche. Piatti sostanziosi, l’uso di salse ricche e la predilezione per la carne sono elementi che possono creare una certa affinità. Oppure i tipici knedlíky cechi che ricordano i canederli del Trentino Alto Adige, così come il gulasch triestino. Insomma, esistono alcuni punti di contatto che derivano dalle influenze storiche e culturali condivise.
Talvolta succede, quando si esporta una tradizione, che si deve accettare qualche compromesso. Lei crede che sia possibile qualche accomodamento per “adattare” la cucina italiana al gusto locale, o è fondamentale preservarne la fedeltà a ogni costo?
Questo è un tema importante. Io credo fermamente che, quando si esporta la cucina italiana, non si debbano accettare compromessi sull’autenticità. La cucina italiana deve essere proposta nella sua forma originale, con ingredienti tracciabili e nel rispetto delle ricette tradizionali. Spesso si pensa che il pubblico internazionale non possa apprezzare la nostra cucina così com’è, ma la mia esperienza dimostra il contrario. Proporre le nostre pietanze vere, senza compromessi, può portare a risultati straordinari. Un esempio significativo è il successo di ristoranti italiani all’estero che rimangono fedeli alla loro tradizione regionale.
Mi faccia un esempio concreto.
Penso al caso di un ristorante sardo di Praga che serve la fregola, una pasta particolare, con chicchi di diverse dimensioni e consistenze. Nonostante possa sembrare difficile per un pubblico straniero capire un piatto così specifico, ho visto che viene apprezzato e compreso, specialmente dai clienti cechi e internazionali. Questo dimostra che l’autenticità non è un ostacolo, ma un valore aggiunto. La semplicità, l’onestà nella scelta delle materie prime, e il rispetto delle tecniche originali sono ciò che rende la cucina italiana così speciale. Credo che chi propone la cucina italiana all’estero debba essere un “difensore” della sua originalità, senza compromessi. È un modo per trasmettere la nostra cultura e fare onore al nostro patrimonio culinario.
Arrigo Cipriani di recente ha però dichiarato che la cucina italiana si sta “francesizzando” e sta perdendo la sua anima semplice e conviviale.
Cipriani ha ragione nel parlare di “francesizzazione” e nel sottolineare il rischio di questa deriva. La cucina francese, pur eccellente, si caratterizza spesso per un’elevata complessità, con ricette composte da tanti ingredienti e realizzate con tecniche molto elaborate. Questo approccio, sebbene affascinante, si discosta dalla nostra tradizione. La nostra è infatti una cucina basata su pochi ingredienti, dei quali però bisogna assicurare la autenticità e la qualità. A questo si aggiunge la capacità di non rovinare le materie prime durante la preparazione dei piatti. La semplicità che caratterizza la tradizione italiana non è affatto facile da realizzare: richiede conoscenze, abilità e rispetto assoluto per i prodotti, senza mai stravolgerne sapori e caratteristiche.
Sempre Cipriani ha criticato la tendenza a piatti sempre più minuscoli e scenografici (da Instagram), prendendosela anche con gli chef che diventano star televisive. “Farebbero meglio a stare in cucina”, ha detto.
Per quanto riguarda gli chef che vanno in Tv, credo che anche la televisione abbia contribuito a promuovere una maggiore consapevolezza e attenzione verso la cucina autentica. Non c’è quindi solo l’aspetto della spettacolarizzazione. Quanto poi ai piatti minuscoli e scenografici, io non critico il fatto che nei ristoranti vengano fatte delle esperienze particolari, con piccoli assaggi e preparazioni particolari, ma non si tratta certo della cucina classica e di tutti i giorni, quella che a noi interessa maggiormente. E in ogni caso bisogna sempre mantenere un equilibrio tra innovazione e tradizione, ricordando – ripeto – che l’anima della cucina italiana risiede nella sua semplicità: pochi ingredienti, scelti e trattati con cura.
Si parla spesso della cucina italiana come espressione della nostra cultura. Crede che sia veramente un veicolo di identità o sta diventando solo un marchio per attirare clienti?
La cucina italiana è indubbiamente un’espressione della nostra cultura ed è anche un mezzo per trasmettere la nostra identità e i nostri valori, al pari della musica, della letteratura e dell’arte. È vero che questo porta con sé anche una valenza economica, perché l’export agroalimentare è importante, ma la cucina italiana rimane innanzitutto un veicolo di identità e valori, non soltanto un richiamo per clienti. Quindi non credo rischi di ridursi a una semplice bandiera commerciale.
E l’Accademia che ruolo gioca in tutto questo?
Vorrei ricordare a questo proposito, per chi non lo sapesse, che l’Accademia Italiana della Cucina, fondata nel 1953 da Orio Vergani, ha ottenuto nel 2003 il prestigioso status di Istituzione culturale della Repubblica Italiana, a conferma dell’importanza del suo ruolo e della sua missione nella salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culinario italiano. Nella nostra cena ecumenica dello scorso anno, per esempio, abbiamo avuto come ospite il professor Rossano Pazzagli, docente universitario e membro dell’Accademia dei Georgofili, il quale è venuto a parlarci della interazione tra cucina regionale e territorio. È stato un momento di alto livello culturale, secondo l’opinione di tutti i commensali. Ricordo con molto piacere anche una recente conviviale, durante la quale è venuta a trovarci la signora Anna Moroni, giornalista televisiva e nota esperta di cucina, autrice di numerose pubblicazioni, la quale, grazie anche alla sua verve, ha dato un contributo fondamentale alla riuscita della serata.
Tutto molto interessante, ma non è un po’ pretenzioso affermare, come si sente dire, che la Delegazione di Praga della AIC intende porsi come un ponte culturale tra Italia e Repubblica Ceca.
Assolutamente no. Per noi, che siamo una delegazione all’estero dell’Accademia, è naturale porci come un ponte culturale fra il Paese che ci ospita e l’Italia. Ecco perché stiamo cercando di avvicinarci a contesti significativi della società ceca. Un esempio importante è stata la cena organizzata quest’anno presso il Parlamento della Repubblica Ceca, un evento che ha consentito di presentare la nostra tradizione culinaria in un luogo istituzionale di alto rilievo. Attraverso queste iniziative vogliamo far conoscere non solo i piatti, ma anche i valori, la storia e la convivialità tipiche dell’Italia.
Cosa bolle in pentola per il futuro? Ha qualche evento o progetto già in mente?
Il prossimo anno vorrei anche realizzare, in collaborazione con la Prague International Marathon, un progetto di carattere culturale-divulgativo riguardante il nesso fra la cucina italiana e lo sport. Le gare podistiche hanno una grande popolarità e quindi credo che con questa iniziativa l’Accademia avvicinerebbe il pubblico ceco e internazionale al tema di cui stiamo parlando. Io sono un appassionato podista, ho corso diverse maratone e mezze maratone e so bene che l’alimentazione suggerita a chi pratica questo tipo di sport ha a che fare senza dubbio con la cucina italiana.
C’è chi dice che l’Accademia tenda a essere un po’ “elitaria”. Come risponde a questa impressione?
È un’impressione forse comprensibile, ma che non corrisponde alla realtà. È vero, abbiamo fra i nostri membri persone molto conosciute e di alto rilievo, come l’Ambasciatore, ma la Delegazione è composta da individui di varia estrazione sociale ed economica. Ad unirci è la passione per la cucina italiana e se un elemento di “elitismo” esiste, è solo in senso culturale: ci accomuna l’interesse per la qualità e la tradizione della nostra arte culinaria, non certo lo status sociale o economico delle persone.
Quali sono i suoi obiettivi per il futuro della Delegazione di Praga dell’AIC?
Il mio obiettivo principale è difendere la vera anima della cucina italiana. Intendo perseguirlo sviluppando progetti che avvicinino sempre più persone alla nostra cultura culinaria, partendo da un’educazione sugli ingredienti e sulla loro tracciabilità. Uno dei nemici più insidiosi che dobbiamo affrontare è l’Italian Sounding, un’ombra che confonde spesso il consumatore e danneggia le produzioni italiane e la nostra tradizione a tavola.
Una curiosità per concludere: dopo tanti anni a Praga e con una moglie ceca, quali piatti non possono mancare nel vostro Natale in famiglia?
Intanto, inizio col dire ciò che manca con certezza: la carpa, il piatto natalizio tradizionale della Repubblica Ceca! Per me, che vengo dal mare della Maremma toscana, è una pietanza che non rientra proprio nei miei gusti. Per quanto riguarda il resto, non abbiamo ogni anno lo stesso menù, ci piace variare. Apprezzo molto però i vánoční cukroví, i dolcetti natalizi cechi. Mia moglie Milena li prepara con un’attenzione quasi artistica. Quelli sì, per Natale da noi non possono proprio mancare!
di Giovanni Usai