Dall’idillio degli anni Sessanta, ai rancori post ‘89. Più di mezzo secolo di storia nei rapporti tra il Líder Máximo e le Terre ceche
La storia dei rapporti fra L’Avana e Praga – da quando Fidel Castro ha assunto il potere, sino alla sua morte – ha l’aspetto stereotipato del grande amore finito male. Non poteva d’altronde che essere così, visti i cambiamenti sulle rive della Moldava dopo il 1989 e la Rivoluzione di velluto.
È vero che in questi ultimi anni – un po’ perché, morto Václav Havel, la tutela dei diritti umani nel mondo non è più un elemento prioritario della politica estera ceca, un po’ per le recenti aperture del regime cubano – i rapporti fra i due stati hanno registrato dei timidi miglioramenti. L’idillio di un tempo è però ormai un ricordo. Se ne è avuta una prova lo scorso novembre, quando la Repubblica Ceca si è distinta per essere uno dei paesi del mondo dove sono state versate meno lacrime per la morte del Líder Máximo.
Molto freddo il necrologio del ministro degli Esteri, Lubomír Zaorálek, socialdemocratico, il quale ha commentato: “Forse una volta Castro combatté per la libertà, ma non posso dimenticare che quando noi nel 1968 ci battemmo per la nostra libertà, egli fu fra quelli che sostennero l’Urss e l’invasione della Cecoslovacchia”. Sulla stessa linea il premier Bohuslav Sobotka: “Il rivoluzionario della prima ora, capace di incarnare le grandi speranze del suo popolo, si trasformò progressivamente in un dittatore”.
La morte di Castro è stata anche la causa dell’ennesima lite fra Praga e la Ue: il vicepremier Andrej Babiš si è scagliato contro l’addolorato messaggio di condoglianze espresso dal presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, che ha definito “vergognoso”. Oppure quando un gruppo trasversale di eurodeputati cechi ha chiesto alla Ue scuse ufficiali, dopo che il portavoce di Juncker aveva classificato le opinioni ceche su Castro come “una visione ristretta della storia”.
Facciamo però un salto indietro di quasi sessant’anni, a quando scoppiò l’amore fra Cuba e l’allora Cecoslovacchia, uno dei primissimi paesi a riconoscere il nuovo regime dei Barbudos e ad aprire la propria rappresentanza diplomatica a L’Avana. Lo fece nel marzo del 1960, qualche mese dopo la presa di potere da parte di Fidel Castro e sette mesi prima che a Cuba venisse aperta l’ambasciata dell’Urss.
A questo proposito, vale la pena ricordare che nel 1960 – nonostante mancassero appena due anni alla storica crisi dei missili sovietici a Cuba – l’atteggiamento delle autorità cubane nei confronti dell’Urss rimaneva ancora di grande cautela. Castro in quel periodo non programmava di diventare uno stato satellite di Mosca, consapevole forse anche di quanto il suo popolofosse permeato di anticomunismo. Da questo punto di vista è del tutto verosimile pensare che in quei primi mesi dopo la rivoluzione castrista, l’ambasciata della piccola e meno invadente Cecoslovacchia, operasse a Cuba come una longa manus di Mosca.
Fatto sta che i rapporti fra El Comandante e i cechi si strinsero, complice a quanto pare anche il debole particolare che Fidel aveva per la birra e le specialità della Boemia. A raccontare questa curiosità è stato Vladimír Pavlíček, che in quel periodo agì come ambasciatore a L’Avana, conservando tanti ricordi anche di carattere personale. “Allora a Cuba c’eravamo praticamente solo noi e con Castro avevo un rapporto di grande consuetudine, ci vedevamo praticamente tutte le settimane, così come con Che Guevara. Non di rado la sua segretaria chiamava mia moglie chiedendole se El Comandante poteva fermarsi da noi a cena in residenza. Amava in particolare i nostri tipici hot dog e chiaramente la Pilsner”. Chi l’avrebbe mai detto che il párek v rohlíku, il salsicciotto nel panino, avesse un tale estimatore anche nei Caraibi, ma a quanto pare è davvero così.
Un’altra passione di Fidel, com’è noto, era quella per il gentil sesso, le bionde in particolare, e le donne ceche non facevano ovviamente eccezione. “Quando arrivava a Cuba una delegazione cinematografica cecoslovacca – ha raccontato ancora l’ambasciatore Pavlíček – l’attenzione di Fidel era tutta rivolta alle nostre attrici e non potevamo far nulla per distoglierlo”.
Bionde a parte, i rapporti fra Cuba e la Cecoslovacchia cominciarono allora ad essere veramente strettissimi. Per il nuovo regime caraibico e per la sua sopravvivenza si rivelarono fondamentali gli aiuti che giungevano da Praga, in particolare le forniture di armi, di macchinari, mezzi agricoli e prestiti finanziari. La Cecoslovacchia, chiaramente su ispirazione sovietica, diede un forte contributo anche in altre forme, collaborando per esempio alla organizzazione delle forze armate e dei servizi di sicurezza, con l’invio di centinaia di istruttori militari ed esperti di altro tipo. A Cuba negli anni ‘60 arrivò ad esserci una comunità di alcune migliaia di cechi e slovacchi. Contemporaneamente, furono numerosissimi gli studenti cubani che vennero ospitati in Cecoslovacchia, grazie alle borse di studio concesse dal governo di Praga.
Quando nell’autunno del 1960 Fidel inviò il luogotenente Che Guevara in Europa dell’Est, il primo paese a essere visitato fu proprio la Cecoslovacchia, dove venne firmato un accordo per la realizzazione a Cuba di una fabbrica di trattori Zetor, con una capacità produttiva di duemila mezzi all’anno.
Gli aiuti in quel periodo erano anche di altro tipo. La Cecoslovacchia rappresentava Cuba negli Stati Uniti, paese con il quale il regime castrista non aveva allora rapporti diplomatici. L’ambasciata cecoslovacca a Washington disponeva di una speciale “sezione cubana”, a capo della quale c’era il diplomatico František Telička, vale a dire il padre di Pavel Telička, il futuro eurocommissario ceco, oggi europarlamentare.
Solo la Primavera di Praga e i primi segnali di allontanamento dal dogma sovietico ebbero l’effetto di minare l’idillio fra Fidel e Cecoslovacchia. I rapporti si raffreddarono a tutti i livelli e già agli inizi del 1968 Cuba cominciò a far rimpatriare i propri studenti dalle università ceche. Dai 268 del 1966 il loro numero scese due anni dopo ad appena 31.
Il 23 agosto del 1968, all’indomani della invasione da parte delle forze del Patto di Varsavia, Castro seppellì il socialismo dal volto umano di Alexander Dubček con queste parole: “Praga stava marciando verso una situazione controrivoluzionaria, verso il capitalismo e nelle braccia dell’imperialismo. Noi accettiamo l’amara soluzione dell’invio di truppe in Cecoslovacchia e non condanniamo i paesi socialisti che hanno preso questa decisione”. Parole per le quali forse la Storia lo assolverà, ma certamente molti cittadini cechi non lo faranno mai.
Passarono pochi mesi perché arrivasse per Praga il tempo della normalizzazione, anche sul piano dei rapporti con la Repubblica socialista del Mar dei Caraibi. Castro, rassicurato, giunse in visita in Cecoslovacchia per ben tre volte, accolto sempre in modo trionfale dalle autorità del tempo. Il viaggio più significativo, che durò ben sei giorni, fu quello del giugno 1972, quando El Comandante fu insignito dell’Ordine del Leone bianco di I classe, la più alta onorificenza del paese, e gli venne conferita la laurea honoris causa da parte della Università Carolina. Più brevi furono le visite che compì nel 1973 e nel 1986.
Tutto questo prima che la Rivoluzione di velluto, nel 1989, decretasse una svolta radicale nei rapporti fra i due paesi. Non poteva d’altronde che essere così, dopo l’avvento al Castello di Praga di un dissidente, anticomunista doc, come Václav Havel, una figura di rivoluzionario agli antipodi rispetto a quella del Líder Máximo. E inevitabili furono le situazioni nelle quali Praga e L’Avana entrarono in rotta di collisione. Per esempio nel 2000, quando una folla immensa di decine di migliaia di cubani sfilò minacciosa per protesta davanti alla ambasciata ceca. L’Onu aveva appena approvato una risoluzione di condanna per la violazione dei diritti umani da parte del regime castrista e il testo del documento era stato proposto proprio dalla Repubblica Ceca, insieme alla Polonia.
La grana più clamorosa scoppiò però nel 2001, per una classica storia di spioni o presunti tali. A Cuba finirono in manette due cittadini cechi molto in vista ed entrambi vicini ad Havel: Ivan Pilip, un ex ministro delle Finanze, e Jan Bubeník, un ex studente, attivista anti comunista. L’accusa che venne loro rivolta fu di aver incontrato dei dissidenti anti Castro, di essere degli agenti dello spionaggio statunitense giunti a Cuba per finanziare attività sovversive e di destabilizzazione.
I due – il viaggio dei quali a L’Avana era stato ispirato e coordinato dalla organizzazione americana Freedom House – si trovarono a rischiare una condanna a venti anni di galera. Per giorni e giorni non ci fu verso di convincere le autorità cubane a liberarli, mentre Fidel in persona lanciava le proprie infuocate invettive e i giornali cubani parlavano della Repubblica Ceca come di un lacchè degli Usa. Havel sulle prime reagì polemicamente, parlando di “arresto in palese violazione dei diritti umani”. Solo in un secondo tempo, preferì assumere una posizione defilata, per evitare – come egli stesso ebbe a dire – di far fallire la trattativa per la liberazione.
Il negoziato andò avanti per alcune settimane e il governo ceco cercò tutti i possibili canali di dialogo. L’allora premier Miloš Zeman chiese la mediazione dei partiti aderenti alla Internazionale Socialista. Il ministro della Cultura Pavel Dostál, inviò uno lettera dai toni accorati allo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez, di cui era noto il rapporto di amicizia con Fidel Castro, perché intercedesse presso il leader cubano. Per Cuba partirono una delegazione della Camera dei deputati ceca e il presidente del Senato, Petr Pithart. Quest’ultimo venne fatto attendere in sala d’attesa per alcuni giorni, prima di essere ricevuto da Castro, per un colloquio fiume, dai toni accesi, durato sette ore. Alla fine Pilip e Bubeník poterono rientrare in patria, non prima però di essersi scusati con il popolo cubano per il loro viaggio non gradito da Fidel.
L’ultima significativa puntata dello scontro a distanza fra Castro e Havel, risale al 2004, quando l’eroe della Rivoluzione di velluto, ormai non più presidente, organizzò a Praga una riunione del Comitato internazionale per la democrazia a Cuba. Havel in quella occasione aprì la conferenza con queste parole: “Cuba è una grande prigione, circondata da un mare meraviglioso. Lo scopo di questo nostro incontro e della nostra azione non è di abbattere con la violenza le mura di questo carcere, ma di bussare con energia a tutti i campanelli dei suoi portoni perché si aprano”.
Irriducibile e furibonda anche in quella occasione la reazione del vecchio rivoluzionario: “A Praga il solito show, organizzato dalla Cia, per manipolare l’opinione pubblica europea contro Cuba”.
di Giovanni Usai