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Da Kiev e Mosca tira un vento gelido, ma la Repubblica Ceca teme meno del passato una crisi del gas. La Slovacchia è più in difficoltà

Si cercano soluzioni europee per risolvere possibili black-out se la Russia chiuderà i rubinetti come nel 2006 e nel 2009

La stagione fredda si avvicina e in Europa centrale aleggia lo spettro di possibili black-out energetici alla stregua di quelli che i precedenti conflitti russo-ucraini, nel 2006 e nel 2009, hanno creato nella regione. Alcuni piccoli segnali si sono già avvertiti, con la riduzione dal 10 al 40% del flusso di gas verso alcuni Paesi come Polonia e Slovacchia, ma c’è chi dorme sonni tranquilli. È la Repubblica Ceca che, negli anni e soprattutto memore delle ultime vicissitudini legate al gas e al greggio russo, ha puntato sulla diversificazione energetica in casa e su vari fronti di approvvigionamento di gas e greggio.

Se, quindi, Polonia, Bulgaria, Ungheria e in parte anche la Slovacchia, temono possibili conseguenze dal conflitto russo-ucraino, Praga ha annunciato che “non accadrà nulla, non ci saranno problemi di limitazioni per i consumatori cechi e per le industrie sul territorio. Potremo garantire le forniture di gas delle nostre riserve e da fonti alternative come i gasdotti Nord Stream e Gazelle”, ha assicurato il ministro dell’Industria ceco Jan Mládek. Il ministro ha ammesso, d’altra parte, che “non si può escludere del tutto uno scenario come quello del 2009. Dobbiamo essere pronti per l’inverno, perché la situazione in Ucraina è drammatica”. Le riserve ceche sono piene al 92% dei 3,2 miliardi di metri cubi di gas. Il ministro dell’Industria ha, però, chiesto in via precauzionale che siano inviati in Ucraina ispettori Ue per verificare le riserve di gas di cui il paese dispone. La mancanza di questo combustibile potrebbe creare nei prossimi mesi una catastrofe umanitaria in Ucraina, con il rischio che siano trascinati in questa situazione altri nove paesi europei a sud della Slovacchia, ha spiegato Mládek.
08 Praga al caldo Wikipedia
Mosca ha chiuso i rubinetti a Kiev a giugno, chiedendo di pagare 385 dollari per 1.000 metri cubi di gas, e molti Paesi dell’area temono che l’Ucraina possa attingere alle forniture verso Occidente che attraversano il suo territorio per rifornirsi, come ha fatto in precedenza in situazioni analoghe. Per evitare che la crisi diventi realtà l’Unione europea e i governi dell’area hanno cercato una soluzione che anticipi e risolva almeno in parte il problema: fornire il gas delle proprie riserve all’Ucraina. Il via è stato dato il 2 settembre dalla Slovacchia, che ha iniziato a fornire gas a Kiev attraverso una conduttura secondaria del gasdotto Eustream. La decisione è stata “sofferta” soprattutto perché Bratislava teme di avere delle ritorsioni da parte della Russia sia sulle forniture che sul suo contratto. Di fatto l’Ucraina riceverà circa 10 miliardi di metri cubi di gas russo prima acquistato dalla Slovacchia, in questo caso, che diventeranno circa 17 con l’apporto della Polonia. Anche Praga si è dichiarata disponibile a partecipare. La soluzione, caldeggiata dall’Ue, non risolve totalmente i problemi ucraini. Kiev otterrebbe tramite queste forniture “di seconda mano” da un terzo a metà del suo fabbisogno invernale. Resta, quindi, l’ipotesi che attinga direttamente dalle forniture russe verso l’Europa occidentale per colmare il gap e affrontare l’inverno.

Le sorelle dell’ex Cecoslovacchia affrontano l’inverno con due stati d’animo nettamente diversi. Da una parte Bratislava, tra i Paesi più colpiti dalla crisi russo-ucraina negli ultimi anni, sta cercando di riempire fino all’orlo le sue riserve di gas e sta giocando la sua partita sul fronte nucleare con Enel, che ha deciso di vendere la sua quota di maggioranza in Slovenské Elektrárne. Un colpo duro a un settore strategico che, con gli investimenti stranieri, la Slovacchia pensava di vedere rinnovato e incrementato e che ora ha subito un brusco stop. L’ultima soluzione prospettata è un riacquisto insieme al partner ceco Čez delle azioni Enel.

Dall’altra Praga, che invece dagli anni Novanta – quando ancora Mosca non aveva imparato a usare la strategia del ricatto energetico – ha attuato una crescente diversificazione di fonti e approvvigionamenti che le garantisce una certa tranquillità. Negli ultimi anni, tranne la crisi del greggio russo del 2008, quando nell’oleodotto Družba il petrolio diminuì notevolmente, per Mosca per ragioni tecniche, ma di certo legate al progetto dell’allora scudo Usa, la Repubblica Ceca è passata quasi indenne dalle altre crisi del gas che hanno lasciato al freddo mezza Europa.

Il mix che mette al sicuro Praga è costituito dal nucleare (Temelín e Dukovany), che garantisce il 30% del fabbisogno nazionale di energia, dagli investimenti nelle condutture alternative a quelle del gas russo, prima tra tutti il Nord Stream, l’Opal e poi l’oleodotto Ikl, esattamente alternativo al Družba. In particolare sul fronte del nucleare, Praga ha deciso di aumentare la produzione energetica dall’atomo con due nuovi blocchi nelle centrali esistenti. Pensa inoltre alla possibilità di realizzare uno stabilimento per la produzione di barre di combustibile nucleare, allo scopo di rafforzare la propria indipendenza energetica dalla Russia anche in questo settore. Infine, nell’emancipazione ceca, hanno giocato un ruolo fondamentale in questo scacchiere il controllo statale dei principali attori energetici del Paese, Čez in testa, che ha consentito di attuare progetti anche costosi e la privatizzazione della rete Transgas, adesso della tedesca Rwe.

di Daniela Mogavero