Ricorre il settantesimo anniversario dell’Akce K, l’operazione tesa alla liquidazione di massa, illegale e violenta, di monasteri e ordini cristiani nel Paese appena caduto nell’abisso del totalitarismo
Concepita un anno prima dell’esecuzione – nell’aprile 1949 –, l’Operazione K ebbe il suo culmine tra il 13 e il 14 aprile 1950, ribattezzata la “notte di San Bartolomeo”, due anni dopo la presa del potere da parte di Klement Gottwald. In gennaio, il Comitato Centrale del Ksč – il Partito Comunista Cecoslovacco, emanazione diretta di Mosca – aveva affinato un piano a più fasi, contro la Chiesa, non disposta a prestare giuramento e fedeltà al regime, con l’obiettivo finale di impedire ai membri degli ordini di sfuggire alla morsa della dittatura.
Il Ksč decise di agire in fretta e l’operazione venne affidata all’uomo-macchina, nonché segretario generale del partito, Rudolf Slánský, numero due di Gottwald, architetto delle grandi purghe per togliere di mezzo gli oppositori politici e civili (prima di finire a sua volta appeso per il collo nel 1952 dopo accuse di spionaggio).
L’Operazione K (“K” sta per klášter, “monastero” in ceco) fu un evento di portata storica nella Cecoslovacchia del tempo: presenti in Boemia e Moravia da oltre mille anni, gli istituti religiosi e gli ordini monastici subirono un saccheggio che mai si era verificato sotto alcun altro impero che avesse governato il territorio. Un inedito assoluto. Akce K rappresentò un segnale potente a chi si definiva cristiano; perpetrato giusto pochi anni dopo la feroce occupazione nazista, che pure ebbe una mano molto pesante nei confronti delle comunità religiose.
La liquidazione fu duplice: da una parte un vero e proprio esproprio, una confisca arbitraria, in ossequio alla tradizione comunista dell’incameramento dei beni altrui; dall’altra, la soppressione de facto degli ordini religiosi, che ostacolavano l’omogeneizzazione del pensiero marxista nel popolo cecoslovacco. Le persecuzioni nei confronti degli esponenti religiosi più in vista erano iniziate sin dall’inizio del regime; solo in seguito Akce K scese in campo con l’esplicito intento di risolvere la “questione cristiana”. Un vero e proprio stupro culturale per la Cecoslovacchia, tra demolizioni e danneggiamenti.
Più di duecento istituti ecclesiastici vennero liquidati, i beni confiscati vennero incamerati dal partito; 2.376 furono invece i monaci internati, decine di ordini soppressi. Il patrimonio culturale degli edifici monastici venne depredato e saccheggiato spietatamente. La “distruzione culturale” atta a cancellare l’identità cattolica fu sistematica: reliquiari svaniti, scritture originali distrutte, mobili danneggiati, opere d’arte rovinate, biblioteche bruciate. Molte opere di valore andarono perdute, altre vennero rilevate dai gerarchi del Ksč. Ancora oggi, il mostruoso danno provocato dall’aggressione statale alle congregazioni ecclesiastiche è inestimabile.
In ottica comunista, la liquidazione degli ordini monastici e dei suoi membri doveva essere totale: non c’era spazio per il dissenso dalla linea del partito. Anima e corpo dei cecoslovacchi erano collettivamente di proprietà dello Stato e le confische proletarie erano una coerente necessità programmatica del Ksč. L’Azione K era dunque atta a piantare ancora più a fondo nella società il seme del totalitarismo. Tuttavia, ironia della sorte – ma che rivela fino in fondo la perfida pianificazione di matrice stalinista – gli ordini ecclesiastici non vennero mai formalmente aboliti, anche se organizzazioni giovanili, centri di formazione e cultura, nonché case editrici vicine alla Chiesa chiusero i battenti.
Il popolo cecoslovacco rimase sconcertato dalle azioni del regime, che d’altra parte gettò discredito sugli istituti coinvolti nell’Azione K, colpevoli di essere “sovversivi” e “contro” la Repubblica. Accusate di crimini gravissimi – dopo torture e somministrazioni di droghe – le vittime del regime furono esposte, come del resto avveniva in Urss, ai processi-farsa ad opera del partito. In particolare, i procuratori di Praga, imbevuti di ideologia più che di giurisprudenza, temevano che il Vaticano potesse manipolare le masse attraverso il messaggio (per altro molto sommesso) di sacerdoti e monaci.
Lo stesso Slánský s’inventò che i monasteri fossero centri sovversivi dediti all’attività antistatale. False accuse e confessioni indotte – ma anche ricatti, minacce, torture fisiche e psicologiche – divennero la pratica del sistema giudiziario dell’epoca, sotto il vigilissimo occhio del Ksč, che nella violenta opera di esproprio ecclesiastico aveva ottenuto nuovi spazi per la sua smisurata burocrazia. Ad esempio, il monastero di Břevnov, a Praga, divenne l’archivio di Stato del Ministero degli Interni.
L’Azione K venne divisa in due macro-segmenti: la prima fu nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950 (oltre novecento monaci cechi vennero internati, quasi altrettanti in Slovacchia). La seconda fase operò con le medesime modalità tra il 27 e il 28 aprile. Nottate buie, oscure, barbare. Akce K fu sistematica e ben pianificata: ogni monastero cecoslovacco venne identificato e perquisito scientificamente dagli agenti della temutissima polizia segreta Státní bezpečnost (StB).
Dopo le confische, ci fu poi la deportazione in massa. I giovani monaci vennero separati dai colleghi più anziani e mandati in campi di “rieducazione”; altri prigionieri vennero invece persuasi con la forza ad abbandonare la loro vocazione, altri ancora vennero mandati ai lavori forzati. Akce K operò una vera e propria liquidazione: francescani, salesiani, domenicani, benedettini, cappuccini e gesuiti vennero arrestati sin dal febbraio-marzo 1950. In un primo periodo, la follia distruttrice dell’operazione si concentrò sugli ordini maschili, ma tra il luglio e l’agosto 1950, un destino analogo toccò anche alle congregazioni femminili (Akce Ř, da “řeholnice”, cioè monaca).
Tra i nomi più noti delle comunità religiose aggredite dal regime ci sono František Mikulášek, gesuita, direttore del mensile Dorost, direttore spirituale di associazioni giovanili, Augustin Machalka, abate premonstratese di Nová Říše nella Vysočina, e Adolf Kajpr, gesuita, direttore del Katolik, il quale aveva già trascorso quattro anni nei lager nazisti, ma a svettare su tutti, due figure in particolare. Il primo è Josef Beran (dal 1945 arcivescovo di Praga e che prima aveva denunciato i crimini dei nazisti dall’alto della cattedrale di San Vito e per cui finì a Dachau), che sotto il regime comunista venne trattenuto ai domiciliari per quattordici anni.
Il secondo, il martire Josef Toufar, vittima antecedente di poche settimane ad Akce K. Prete attivo nel villaggio di Zahrádka, nel 1948 i comunisti lo obbligarono a spostarsi a Číhošť, dove – durante la terza domenica di avvento del 1949 – nella chiesa del paesello si sarebbe verificato miracolosamente lo spostamento della grande croce dell’altare. Číhošť divenne dunque un luogo di pellegrinaggio da parte di numerosi fedeli, cosa che spaventò i capetti locali del Ksč. Arrestato con l’accusa di aver inscenato il “miracolo” con un meccanismo in grado di spostare la croce e di aver quindi perpetrato “un atto sovversivo contro la Democrazia popolare cecoslovacca”, Toufar venne tradotto nella prigione di Valdice. Torturato, picchiato, accusato di omosessualità e pedofilia tra le altre cose, morì a Praga il 25 febbraio 1950 nella clinica statale Borůvka, sulla Legerova, lo stesso luogo dove nel 1969 sarebbe morto, vittima delle ustioni, il giovane Jan Palach. Toufar venne sepolto in una fossa comune nel cimitero di Ďáblice: la sua storia iniziò a circolare specialmente durante la primavera di Praga.
Ci vollero anni prima che la Chiesa e gli istituti monastici cechi si riprendessero dallo shock dell’Azione K: il colpo del 1950 rimase un inedito assoluto nella Storia della Cecoslovacchia. Neppure dopo la “normalizzazione” del 1968 ci furono repressioni e torture così dure come quelle dell’esproprio di sette decadi fa, perpetrato sistematicamente e simbolicamente contro la Cristianità nella sua interezza, in quanto potenziale minaccia al regime e rivale politico.
Per consolidare al meglio il proprio potere, i comunisti non solo dovevano eliminare il dissenso, ma le potenziali figure e forme che ostacolassero la proletarizzazione della società. La verità è che il Ksč aveva paura della Chiesa e delle sue articolazioni monastiche: decise dunque di lapidarla e umiliarla tramite un’operazione violenta ed efferata. Ma quasi quarant’anni dopo, nel novembre 1989, la resa dei conti sarebbe giunta: e le pietre, questa volta, erano quelle che dal Muro della vergogna cadevano in testa a un mondo seppellito dai calcinacci della Storia.
di Amedeo Gasparini