Il Ponte Carlo
È da lì che devi cominciare se vuoi capirci qualcosa a Praga e di Praga. Devi cercare il Ponte Carlo e attraversarlo tutto. Lentamente, perdendoti tra le sue statue, lugubri e notturne, la maggior parte, che ne costellano le sponde. Oltre cinquecento metri di lunghezza per circa dieci di larghezza a scavalcare la Moldava, il fiume di Praga, e ad unire Staré Město, la Città Vecchia, con Malá Strana, la Città Piccola. Insomma, il Ponte Carlo è il cuore e la sintesi di Praga.
La mia Praga (di Antonio Corvino*)
Un fiume di gente, turisti per lo più, ma anche autoctoni abbarbicati alle loro vecchie origini, alla Cattedrale di San Vito, al Castello, alla piazza dell’Orologio, al Ghetto ebraico con il cimitero e le quattro sinagoghe; insomma, a tutto quanto ha a che fare con il cuore antico di Praga. La sua vocazione di capitale dell’impero degli Asburgo, centro della cultura e dell’arte rinascimentale, specchio dei desideri impossibili e della magia incantatrice, luogo segreto degli alchimisti in cerca della pietra filosofale, borgo attraversato dal notturno Golem, l’essere impastato di fango sfuggito al controllo del suo creatore, rabbi Jehuda Loew, e capace di seminare terrore nelle notti di luna ed anche in quelle senza luna… State attenti… ci si può perdere da queste parti. Perdersi nelle fantasie, nelle superstizioni, nei desideri e nei sogni ad occhi aperti che ti spingono a fermarti su questo Ponte, a camminarci sopra, magari accarezzando la fantasia di tornarci a notte fonda, avvertendo un fremito nella schiena, o all’alba per vedere la strana espressione che si disegna sul volto delle statue intrise di mistero, predicanti o imploranti, espianti o estasianti, man mano che avanza il biancore denso e lattiginoso della luce mattutina, mentre il cielo diventa bianco e il buio della notte si va dileguando. La grandezza di Dio, o della sua Chiesa, incombe sul Ponte Carlo e l’oppressione del peccato si accompagna alla speranza del perdono; squarci paradisiaci ti appaiono mentre intravedi strani bagliori infernali e tu devi fare un grande sforzo per liberare i tuoi piedi e i tuoi pensieri dalla melassa che tutto cosparge quel Ponte e che ti avvolge come una camicia di Nesso, mentre fai professione di libertà laica e di pensiero indipendente. Puoi perderti al di là del Ponte, nella Città Vecchia, dove resterai incantato dalla piazza antica con la Torre dell’Orologio, con tutte quelle statue che escono ed entrano come per miracolo o per magia, a segnare un tempo infinito, sempre uguale a se stesso, e che ti spinge dentro i vicoli medievali, rinascimentali, gotici e barocchi, con l’idea che dietro un angolo il Golem ti si parerà davanti e per te sarà la fine o l’inizio; e magari avverti lo strascichio dei piedi vecchi e pesanti del Rabbi Loew che lo insegue per catturarlo, ucciderlo magari perché è diventato più potente di lui e spaventa l’imperatore, l’imperatore Rodolfo, Rodolfo II, che ha voluto Praga capitale dell’Impero, l’ha riempita di artisti e di musei, di scienziati brillanti come Keplero, e di folli sognatori, alchimisti e imbroglioni, e che per primo ha creduto nei poteri della fantasia e della magia, spingendo il saggio rabbi a infondere il soffio vitale alla sua creatura impastata di fango, divenuta così il dissacrante Golem capace di sfidare Dio oltre che gli uomini. Oppure potresti perderti nei vicoli di Malá Strana, la Città Piccola, che fa da corona al Castello e alla Cattedrale di San Vito, l’uno e l’altra epicentro del potere e della grandezza imperiale ed ecclesiastica, ma anche epicentro del potere dell’immaginazione. Qui tutto è possibile e quel che ti sembra finalmente vero, nell’istante in cui lo vedi nitido nelle forme e brillante nei colori, vivo nell’anima, boom scompare… non esiste… è stata solo illusione della fantasia, un inganno ottico, una specie di fata morgana, ma dall’effetto ancora più terribile, perché qui non c’è il deserto e non ci sono le dune di sabbia dorata e incandescente. Qui c’è solo la tua immaginazione e questa luce sfuggente, questi orizzonti persi dietro le guglie gotiche del Castello e della Cattedrale, dietro le cupole dorate, dietro le croci splendenti, che si perdono, scompaiono inghiottite dalla notte, dopo averti illuso… Kafka conosceva questi misteri e nei suoi romanzi, il Castello per esempio, puoi trovare il modo per non cedere alle vertigini e non rischiare di perderti o magari per precipitare irrimediabilmente nell’inganno dell’immaginazione e nella magia della fata morgana praghese. Ecco perché devi andare sul Ponte Carlo e fermarti. Percorrerlo su e giù, più e più volte, fino a coglierne il mistero, impadronirti della malia che lo possiede, scoprire il tempo che lo percorre e lo anima. Solo allora potrai decidere dove andare ed iniziare la tua esplorazione di Praga. Dopo aver guardato gli artisti di strada con i loro acquerelli, le caricature, i ritratti, ed aver immaginato frotte di pittori che, nella sera e sul far del giorno, catturano la luce di questo posto nel tentativo di disvelarlo, sapendo che è impossibile e che, proprio per questo, bisognerà provare e riprovare finché il miracolo non si compirà per incanto e l’opera prenderà vita, proprio come il Golem. Perché questo è il regno della magia. E allora lasciati pure alle spalle, per il momento, la Praga d’oro, tutta guglie, pinnacoli, cupole, statue e croci luccicanti, e attraversa la prima torre gotica che ti introduce sul Ponte Carlo. Quel ponte è il trait d’union di Praga, o, se volete, l’ombelico. Praga non potrebbe esistere senza. Quel ponte addomestica la Moldava, un fiume grande, enorme che tutta la attraversa. Più volte li aveva spazzati via con le sue piene i vecchi ponti. Poi arrivò Carlo, Carlo IV, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Boemia, che non volle più andarsene da Praga e fece ricostruire il suo Ponte perché resistesse, possente, per sempre. Ponte di pietra lo chiamò perché, con la sua solidità, avrebbe ridotto alla ragione la Moldava e così fu. E lo fece incastonare tra due superbe torri, espressione del notturno algido gotico mitteleuropeo e nordico, quello che fissa l’infinita potenza di Dio e la piccolezza dell’uomo, insieme alla grandezza dell’imperatore e alla potenza ecclesiastica cui tutti, uomini e donne, potenti e plebei, devono cieca obbedienza. E Carlo diede il suo nome a quel Ponte che divenne simbolo e sintesi di Praga. Era nudo ed essenziale il Ponte Carlo, a impreziosirlo le due eccentriche, straordinarie torri. E intorno, il cielo azzurro o lugubre, lattiginoso o trasparente, con la Città Vecchia a far da cornice. Poi, dopo Carlo, giunsero un paio di secoli di lotte di potere, eresie, riforme e controriforme, decadenza e abbandono. Come oggi, anche allora il potere si spostò in riva all’Atlantico. Il nuovo mondo strabuzzava lo sguardo. Praga prese a languire, a decadere. Fino a che non arrivò Rodolfo. Rodolfo II, imperatore di tutto quanto esisteva in Europa, ma soprattutto re di Boemia, che tornò a Praga e la trasformò nella eterna capitale della fantasia, della scienza e conoscenza, della cultura e della magia, prima che dell’impero. Rodolfo piegò il potere all’immaginifico. Il Castello e la sua corte si riempirono di artisti e scienziati e le religioni cessarono di essere causa di violenza e discriminazione. Gli ebrei divennero parte integrante del popolo praghese e della nazione boema. Le sinagoghe splendevano nella vecchia città e addirittura il capo dei rabbini diede vita al miracolo del Golem, reinventando la creazione finché, come già Adamo con Dio, la sua creatura non si ribellò e si rese indipendente dal suo creatore. Se vi capiterà di andare in giro di notte, in inverno, quando le condizioni sono estreme e la vostra fantasia è disponibile a penetrare il buio fitto dei vicoli praghesi, potrete ancora sentire nei crocicchi l’ansimante respiro del Golem che continua a sottrarsi alla cattura del suo padrone e creatore, il rabbi Loew, condannato prima da Rodolfo a catturare la sua creatura che terrorizzava la città e quindi da Dio stesso, che non approvò l’azzardo di ripetere il miracolo della creazione. Adesso tornate indietro e ripercorrete ancora una volta il Ponte Carlo. I gruppi marmorei che costellano le sponde sono del 1600, qualcuno addirittura del 1700. Essi furono realizzati per dare testimonianza della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa cattolica, per sostenere i fedeli nell’espiazione dei propri peccati e mantenere i sudditi lontani da ogni tentazione di libertà o di liberazione, che dir si voglia.
Staré Mesto, la Città Vecchia
Carlo IV fece grande Praga. Durante il suo regno nel quattordicesimo secolo, fece costruire il Ponte che da lui prese il nome. Con il Ponte fece costruire anche Staré Mesto, la Città Vecchia. Incastonato tra le prodigiose torri gotiche, il Ponte divenne nel tempo il depositario delle suggestioni, terribili ed affascinanti, che Praga prese ad evocare prepotentemente tra il 1300 ed il 1600, insieme alle magie che, pure esse, si produssero senza soluzione di continuità, alimentate da leggende o storie vere che presero vita tra i vicoli, le piazze, i palazzi, le chiese e le sinagoghe della città. Alcuni affermano che quelle magie, lungi dall’essersi dissolte nei tempi attuali come nebbia al sole, permangono allo stato latente, come la coscienza profonda degli uomini, pronte a tornare da un momento all’altro. Qualcuno sostiene che, nottetempo, si aggiri ancora il Golem e che sia possibile ascoltarne il respiro nel pieno della notte, ad uscire soli e sicuri di non lasciarsi sopraffare dal terrore. È una sfida che mi intriga molto e non è detto che non mi disponga a raccoglierla, più o meno spavaldamente, prima della mia partenza. Se succederà, ve ne informerò. Intanto, mi lascio il Ponte Carlo alle spalle e mi dirigo verso Staré Mesto, la Praga Magica o, se volete, la Praga d’oro. Il cielo è piuttosto grigio oggi, a tratti plumbeo e addirittura nero. Arriva anche qualche goccia. Fa freddo. Sono uscito con il cappotto e la sciarpa. All’una ho appuntamento davanti alla Torre dell’Orologio con Eva, la mia amica praghese, che mi condurrà attraverso i misteri irrisolti di questa città perché possa avere contezza della loro consistenza, anche in vista delle necessarie precauzioni che dovrò adottare per la mia eventuale escursione notturna. Sono molteplici le questioni aperte. Da quelle antiche legate alla convivenza tra cattolici e protestanti che si combattevano tra loro, intanto che gli ebrei provavano a esistere e resistere tra mille trappole e trabocchetti, a quelle più attuali che hanno a che fare con la riconquistata indipendenza dal dominio sovietico, sino alle dispute letterarie tra Milan Kundera e Bohumil Hrabal, senza dimenticare la faccenda dell’appartenenza di Kafka alla cultura boema o ceca, che dir si voglia. Bisognerà camminare molto e molto osservare per cogliere i giusti segnali, se ve ne saranno, ed intanto aggrapparsi alle suggestioni, quelle sì, infinite e dall’interpretazione complessa, se non impossibile. D’altra parte, siamo nella città dove è nata la magia o, se volete, nella città nata per magia e dove questa la faceva e la fa ancora da padrona. Re e sudditi si muovevano avvolti in essa, mentre Dio distribuiva, per il tramite dei suoi pastori cattolici o luterani, continue occasioni per sistemare conti sospesi, e gli ebrei pure si industriavano per resistere alle persecuzioni più o meno latenti o evidenti, magari mettendo a punto la loro arma letale: il Golem, il figlio dell’uomo creato questa volta dall’uomo e non da Dio. E tuttavia, nonostante il tempo nero e l’impellenza di affrontare la faccenda del Golem nel quartiere ebraico, nonostante la tristezza che mi provoca l’esilio di Kundera, la determinazione senza speranza di Hrabal, l’equivoco di Kafka e la malinconia con cui evoco la memoria di Jan Palach, proprio non riesco a staccarmi dal pensiero positivo che l’infinita bellezza di questa città infonde nella mia anima. Alla fine, mi vado convincendo che magie e superstizioni, leggende e misteri, altro non erano che il contrappasso della impareggiabile grandezza di questa città. Attraversando il Ponte Carlo per raggiungere Staré Mesto, osservavo le sciabolate di luce che attraversavano i cupi gruppi marmorei, annullando il lugubre alito che li riveste. Lo stesso Cristo Crocifisso risplendeva immerso nei riflessi luminosi delle lamine d’oro incastonate nella croce, piuttosto che nella corona di spine o nel perizoma che copre le sue nudità. E chiese e palazzi mostravano, tra le guglie e i pinnacoli, meravigliosi bagliori prodotti dalle scaglie auree ovunque disseminate. Praga d’oro, dunque, che si mischia e si sovrappone alla Praga magica, che affascina e conquista con i suoi segreti, i suoi misteri e ti invoglia a cercarli e risolverli e, in caso contrario, a conviverci nella certezza che essi aumentano il fascino di questa città, rendendola unica. Irripetibile. Prendete la Piazza della Città Vecchia, circondata da chiese gotiche che si innalzano al cielo e palazzi leggiadramente disposti intorno ad essa.
Al centro si staglia, come una visione sorprendente, la Torre dell’orologio, anzi degli orologi. Uno conta il tempo lunare e l’altro il tempo solare. Il suono discreto della campana, a sua volta, ne scandisce il procedere, mentre ad ogni ora la processione dei dodici apostoli si mostra, lassù, dalle feritoie, alla folla dei turisti, ai fedeli, ai curiosi, a tutti gli astanti, in un tripudio di colori e di luce abbacinante. Quella Piazza è sempre piena. Non c’è verso di aspettare che si svuoti. Il mondo intero converge verso quel miracolo di grazia e di arte, di fede e di estetica, di architettura e di storia, di tecnica impareggiabile anche. Ci provarono i nazisti, al termine dell’ultima guerra, a distruggere quel miracolo, bombardando la torre e la piazza nel tentativo di spezzare la resistenza ceca, ma nulla poterono contro la determinazione e il coraggio dei ragazzi e delle ragazze, degli uomini e delle donne praghesi, tutti raccolti a difendere la loro storia e ad affermare la loro identità; roba che avrebbero dovuto fare anche in seguito, pagando assai cara la loro resistenza. Anch’io, per una volta, mi sono mischiato nella folla. Non mi sono chiesto che cosa ci facesse lì tutta quella gente con il naso all’insù o, io stesso, che cosa ci facessi. Mi bastava partecipare a quel rito collettivo, tenere gli occhi fissi sulla torre e lasciarmi cullare dal suono della campana, invadere dallo scorrere del tempo, affascinato dagli sguardi benevoli degli apostoli, sentendomi parte di quell’armonia che scaturiva direttamente dall’ordine universale, rivestita della bellezza e grazia che solo gli uomini, quando smettono di combattersi ed ammazzarsi, sanno produrre.
Anche questo monito fa parte del miracolo della Praga Magica, della sua capacità di rammentare agli uomini la loro grandezza e invitarli a cessare guerre e violenze che insozzano il mondo con il rischio di distruggerlo. Certo, il miracolo che davvero gli uomini, e segnatamente quanti tra essi si arrogano il diritto di uccidere, possano smettere, beh, quello non dipende da Praga e dalla sua magia. La paura per una possibile invasione del grande Orso Russo o della grande Madre Russia è già stata sperimentata dai praghesi ed è un monito per loro e dovrebbe esserlo per tutti. Piazza San Venceslao è lì a ricordarlo al mondo intero, insieme al sacrificio di Jan Palach. Eva mi dice che i praghesi sostengono come possono i vicini ucraini, invasi dal vicino russo che incute loro profondo timore. Sono preoccupati che la minaccia arrivi a loro, riproponendo tragedie già vissute. Come dar loro torto? Hanno dovuto attendere mezzo secolo per riappropriarsi della loro libertà e lo hanno fatto sempre a mani nude; ed anche quando la Cechia e la Slovacchia decisero di riprendersi ciascuno la propria identità, lo fecero pacificamente. Davvero una gran lezione in un mondo che sembra non conoscere che la violenza gratuita. Ci siamo lasciati alle spalle piazza San Venceslao e abbiamo puntato dritto al Quartiere ebraico. È bello il quartiere. I palazzi mi sembrano espressione di un grande benessere che contrasta con le mie idee del ghetto, composto di povere case ed abitanti dalle condizioni prevalentemente modeste. In realtà, il quartiere era così. Nel 1900 ha subito un profondo risanamento. Anche il palazzo con la casa di Kafka è stato demolito e ricostruito. Di Kafka è rimasto un busto che si sporge all’angolo nella confluenza delle due vie che da quello si dipartono. D’altronde, non sono molti gli ebrei sopravvissuti alla Shoà e molti di essi, dopo la guerra, se ne partirono per Israele o gli Stati Uniti. Oggi il quartiere sopravvive più come un fatto storico che come realtà antropologica e religiosa. Rimangono le sinagoghe, il cimitero, il piccolo museo con i disegni dei bambini di Terezín, il campo di concentramento appena fuori Praga. Entro con profonda commozione nella vecchia sinagoga, quella storica, la cui umile facciata mi rimanda alla dignità di un popolo coerente con la propria storia e certo non ricco. Mi sorprende la dimessa ricchezza delle suppellettili ed il sacro recinto dove è custodito il libro sacro del Talmud. Il candeliere a sette bracci rimanda al tempio costruito da Salomone. La struttura architettonica mi sembra essenziale e per nulla pretenziosa. Si apre in due navate con poderose lesene di marmo a segnarne limiti e spazi. È l’atmosfera l’aspetto che più mi colpisce. Raccolta e priva di ogni esibizione, mi sembra satura di attesa. Leggo un pannello didascalico. Racconta la storia non conclusa del Messia. Inanella un rosario di pretendenti. La diaspora è conseguenza di un’attesa senza esito, mi vien da pensare, e credo che anche gli estensori del pannello lo pensino o lo provino, magari inconsapevolmente. Provo molta tristezza. Non si può vivere facendo dell’attesa il surrogato della propria fede o, peggio, il concentrato della propria vita individuale e collettiva. È forse per questo che il popolo di Israele non trova pace? Forse è anche per questo che l’agnosticismo, se non l’ateismo, caratterizza sempre più l’evoluzione dell’atteggiamento religioso degli ebrei giovani e meno giovani, pur rimanendo integro il senso dell’appartenenza e dell’identità? O è anche questo un segno del degrado che ha investito l’umanità intera, che non si riconosce più in Dio, pur cercando nell’omologazione e nel conformismo delle scorciatoie per il proprio benessere, avendo smarrito la dimensione primordiale ed i valori ancestrali? E mi viene il sospetto che noi non siamo più capaci di credere nei miracoli, nella magia e nei misteri che pure hanno caratterizzato da sempre l’Umanità in cammino. Così mi sorprendo a pensare che il fascino di Praga, intriso appunto di magia e di mistero, è l’ultimo miracolo di questa Città, un miracolo a cui anelano, più o meno consciamente, tutti gli uomini e donne, ragazze e ragazzi, e sicuramente quanti vengono qui. Perché non si può vivere senza sogni, senza speranza, senza un’attesa pregna di risposte. In una parola, senza il mistero, il miracolo, la magia dei valori ancestrali che ti fanno sentire parte di un’Umanità ovunque riconoscibile. Lungo gli scranni che girano la Sinagoga sono depositate le foto di quanti hanno perso la vita nell’attacco del sette ottobre 2023 in Israele: oltre ottocento, forse mille, esseri umani falciati dalle armi di altri esseri umani… e immagino che il giorno in cui fossimo capaci di mettere accanto ai nostri morti i morti degli altri, forse si produrrà finalmente il miracolo della pace e della ritrovata compassione umana. Sino a quel tempo vivremo con il terrore. Lo stesso terrore che spinse il rabbi Loew a sfidare, suo malgrado, Dio, alitando la vita sul Golem impastato di fango, nella presunzione di difendersi da sé, dismettendo la fede negli altri e in Dio stesso. Il rabbi Loew, una notte dei primi anni del 1600, diede la vita alla sua creatura. Lo fece perché doveva difendere il suo popolo da violenze gratuite quanto assurde che si ripetevano puntualmente anche di fronte a editti di tolleranza. La storia delle sopraffazioni del suo popolo era lunga e il rabbi Loew lo sapeva. Non voleva sfidare Dio, ma spaventare i nemici del suo popolo. Ed il Golem prese a presidiare le strade del ghetto e si diffuse la notizia di tanto portento; e con la notizia si sparse anche la voce di attacchi che il Golem, dissero, istigato dal suo creatore, portava contro quanti la notte si trovassero per strada, anche fuori dal ghetto. Rodolfo II, l’imperatore, convocò il rabbi Loew a corte e gli ingiunse di tenere in catene il Golem che aveva preso a terrorizzare il popolo. E il rabbi Loew fece di sì con la testa. Avrebbe cercato il Golem e lo avrebbe tenuto in catene e, se necessario, gli avrebbe tolto la vita che pure gli aveva dato, disse. L’imperatore anelava la pace tra i suoi sudditi e, con la promessa di Loew, lo congedò ingiungendo che cessassero contestualmente le violenze contro gli ebrei. Così il rabbi Loew inseguì la sua creatura e la relegò in una stanzetta in cima alla vecchia sinagoga. Si pose egli stesso a guardia del Golem. Aveva dato la sua parola a Rodolfo. E da allora nessuno più incontrò il rabbi Loew, né vide il Golem. Nel cimitero degli ebrei, sulla lapide del rabbi Loew, vi è solo la data di nascita. Il custode della vecchia Sinagoga mi ha detto che qualcuno asserisce che il rabbi è rimasto con il Golem. Forse il rabbi è il Golem ed egli vive in cima alla Sinagoga. Uscendo, ho guardato in su. Vi è una finestrella in alto, inaccessibile, chiusa ermeticamente con una solida porta di legno. È lì sopra che il Golem-Rabbi attende.
Malá Strana: l’isola di Kampa e il Muro di John Lennon
Malá Strana è la Città Piccola, quella che si stende ai lati del Castello e della Cattedrale di San Vito. Essa è collegata con la Città Vecchia, Staré Mesto, attraverso il Ponte Carlo. Di Malá Strana fa parte anche l’isola di Kampa, cui si accede attraverso una scala in pietra che si diparte proprio dal Ponte Carlo, più o meno a metà del percorso che conduce alla Città Vecchia. Anche la Collina di Petřín, che si innalza al di là dell’isola di Kampa, fa parte di Malá Strana. Dalle sue stradine, che si dipanano in un tripudio primaverile di prati, boschi e radure fiorite, si può salire in cima al Castello e alla Cattedrale di San Vito. È esattamente l’itinerario che abbiamo fatto oggi e la strada che abbiamo percorso. Dal Ponte Carlo, Marisa, la mia guida esperta d’arte e di bellezza e ormai radicata a Praga da molti anni, mi ha condotto sull’isola di Kampa. La Moldava è un fiume che non ti aspetti. Un grande fiume, disseminato di isole; anche Kampa è una di esse, distesa tra Staré Mesto (la Città Vecchia) e Malá Strana (la Città Piccola).
Kampa è un’isola piuttosto grande. Tuttavia, essa non è un prodotto del fiume; è stata creata artificialmente, non si sa quando, e le prime notizie circa la sua esistenza risalgono al dodicesimo secolo. Fu scavato un canale sul versante occidentale della Moldava, forse per favorire l’afflusso di acqua da quella parte; infatti, vi nacquero molti mulini. La sua conformazione la fece assomigliare vagamente a Venezia e la gente del posto cominciò a chiamarla Piccola Venezia. Poi sopraggiunse la magia e il fascino, mischiato alla paura del soprannaturale. Una donna, che dissero fosse indemoniata e che abitava sul canale, prese a seminare prodigi, vento e tempesta sull’isola, innescando la leggenda della magia che, da allora, prese a serpeggiare tra le strade di Praga per non spegnersi più. I contadini dell’isola presero a chiamarlo il Canale del Diavolo, quel canale, e tuttora esso porta quel nome. Oggi Kampa è un grande parco, disseminato di prati, contrappuntato di alberi imponenti e scandito dalla presenza di molte sculture di artisti contemporanei che a Kampa hanno trovato i loro spazi. Oltre che da sculture, Kampa è segnata, in prossimità delle rive della Moldava e dei canali che da essa si dipartono, dalla presenza dei vecchi mulini, alcuni dei quali risalgono al 1400. Mulini con enormi ruote di legno arano la massa d’acqua dei canali, la sollevano con le loro escrescenze dentate e la lasciano cadere: una volta producevano energia necessaria a far funzionare gli ingranaggi; oggi sono diventati musei, centri culturali, ristoranti e caffè, tutti a servizio dei cittadini di Praga e di quanti, cechi o stranieri, vogliano goderne. È piacevole camminare nel parco dell’Isola di Kampa. Mi direte: va bene, più o meno è il piacere che regalano tutti i parchi del mondo, ed è vero. Infatti, quel che mi ha rapito, irrimediabilmente rapito, e tenuto inchiodato lì, senza lasciarmi il tempo di rendermi conto del tempo che passava, non era l’armonia del parco e nemmeno le provocazioni o la leggiadria delle sculture. No, a tenermi inchiodato è stato un muro. Un muro che delimita uno spazio nel parco tra alberi, prati e radure. Si tratta di un muro di cinque metri di altezza, più o meno, e lungo un centinaio di metri, sempre più o meno. Lo chiamano il Muro di Lennon. John Lennon. Quello dei Beatles. Quello di “Imagine”. Perché si chiama “Lennon Wall”, visto che, precisa Marisa, John Lennon qui a Praga e tanto meno a Kampa, non ci è mai arrivato? Beh, perché John Lennon, con quella preghiera intessuta di musica e poesia, parla al cuore della gente. Ed i giovani di Praga, al tempo di John Lennon e di quella canzone, sognavano pace, libertà e giustizia per sé e per tutto quanto il popolo di cui erano parte. Erano prigionieri di una dittatura ottusa e priva di pietà che li teneva assurdamente bloccati con le catene di una schiavitù che li uccideva e quella canzone li faceva sentire liberi, a dispetto di ogni catena e di ogni schiavitù. Nel 1968 a Praga vi era stata una grande rivoluzione. L’enorme, bellissima piazza San Venceslao si ritrovò gremita di gente. Dubček, il profeta di quella rivoluzione, parlava di primavera e di fine del freddo invernale che era durato per troppo tempo. Ed i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini, sembravano impazziti per la felicità. Poi arrivarono i carri armati sovietici del Patto di Varsavia e stroncarono quel sogno. Jan Palach si immolò, dandosi fuoco e ardendo come una torcia su piazza San Venceslao, piombata nuovamente nel freddo del terrore e nel silenzio. Dubček fu annientato, di fatto defenestrato e privato di ogni potere; i cittadini si rassegnarono e molti intellettuali pure si arresero. Milan Kundera resistette qualche anno, poi nel 1975 se ne andò pure lui. Riparò in Francia e non tornò più. Lasciò la città più bella del mondo inseguendo la sua libertà e dimenticando la libertà del popolo cui apparteneva. I ragazzi e le ragazze di Praga si sentirono traditi, lasciati tra l’alternativa di rassegnarsi, morire come Jan Palach o continuare da soli, ciascuno per proprio conto, a sognare. Molti continuarono a sognare. Bohumil Hrabal restò al suo posto. Scelse di non andarsene. Avrebbe potuto farlo. Era uno scrittore famoso come Kundera, agli antipodi rispetto a Kundera, ma come lui famoso. E restò. Perché il posto dello scrittore, dell’artista, dell’intellettuale è quello dove rimangono tutti coloro che non possono andarsene, scrisse nel suo monumentale “L’uragano di novembre”. E Praga, dal canto suo, riprese a costruire di nuovo i suoi sogni. Anonimi artisti si impossessarono di quel muro desolato sull’isola di Kampa e lo riempirono di colore. Ogni tipo di colore. E di parole. Ogni tipo di parole. Altri anonimi artisti si unirono ai primi e moltiplicarono quell’esplosione di sogni sulla superficie di quel muro fino a riempirlo. E tutti i ragazzi e le ragazze di Praga presero a scendere a Kampa e ad andare presso quel muro e ci aggiunsero ciascuno un grafito, un pezzo di colore, una frase, una preghiera, un disegno e via via quel muro si riempiva di messaggi stratificati gli uni sugli altri. E poi altre ragazze ed altri ragazzi presero a colorare ciò che era già colorato e a scrivere sopra altre scritte, aggiungendo nuovi sogni ai vecchi. Così nacque il muro di Praga. Il muro di John Lennon. Il muro di “Imagine”. Il muro della speranza rinata. Il muro del sogno destinato ad avverarsi. E finalmente arrivò la liberazione; le catene furono spezzate e Praga tornò ad essere nuovamente la città più bella del mondo. E adesso quel muro è lì a imperituro monito. Perché i sogni non devono mai finire e, se di nuovo dovessero essere spezzati, quel muro è lì a ricordare che no, i sogni non devono finire e che la libertà, come la pace, è un bene che si costruisce, un traguardo che si conquista giorno dopo giorno, perché la libertà e la pace, come la ribellione, non sono mai per sempre. Sono per oggi. E domani bisognerà ricominciare, sino alla fine dei tempi. Sono rimasto a contemplare quel muro per un tempo che poteva somigliare all’infinito, tanto era intenso.
L’azzurro profondo e luminoso, come quello dei lapislazzuli, il giallo accecante come l’oro delle guglie delle chiese di Praga, il rosso palpitante come il sangue dei giovani martiri, il verde cupo e tenero come i boschi e i prati di Kampa, erano lì a risplendere tutti come un arcobaleno insperato, dando vita ai graffiti, alle parole, alle figure, ai disegni. Immaginate una carrellata infinita di sogni che per miracolo prendono forma e che si susseguono e si inseguono. Anche questo è Praga. La più bella città del mondo, pronta a sfilare sulla melodia di “Imagine” ed a sognare sulle sue parole. Alla fine, sono andato via ed ho ripreso il cammino verso la Collina di Petřín, da cui sarei salito al Castello e alla Cattedrale di San Vito.
La collina di Petřín
Ed eccoci sulla collina di Petřín. Dai suoi tornanti, Praga si avvicina o si allontana a seconda che tu parta o arrivi. E ti prende un senso di grande gioia se arrivi o, al contrario, di grande malinconia se parti. Tereze, la protagonista de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la guardava mentre si allontanava, si allontanava irrimediabilmente, forse definitivamente, da quella città, Praga, che era stata la sua città, la città più bella del mondo. La distesa dei meravigliosi tetti rossi spioventi che si arrampicavano creando una specie di pagoda, una selva di pagode, si allontanava, compariva e scompariva tra gli alberi e la vegetazione. Le guglie della Cattedrale di San Vito e la massa possente del Castello dominavano quella città, contrappuntata da infinite altre guglie di infinite altre chiese. E l’oro che le illuminava le trasformava in altrettanti coltelli che laceravano l’anima… poi Praga era scomparsa. Tereze non si voltò più indietro e Praga cessò di essere la sua città, come cessò di essere la città di Kundera, che a Tereze aveva affidato i suoi sguardi, la sua nostalgia, la sua decisione. Era il 1975. La primavera di Praga era ormai un ricordo sbiadito e, per il grande scrittore, non c’era posto; egli se ne era convinto, a differenza di Bohumil Hrabal, in quella città ingrigita dai carri armati e dal potere sovietico. La più bella città del mondo non era più la sua città. Per me, invece, era diverso. Io mi addentravo tra i viottoli della collina Petřín per scoprire quella città, osservarla, capirla, amarla se possibile, sicuramente vezzeggiarla e farmi avvolgere dalla sua visione, dalla sua magia, dalla sua luce saettante d’oro, anche quando il cielo è scuro. Su quella collina, la mia guida mi indica “il muro della fame”, un muro di pietra alto e a sbalzi, a seguire il ritmo della collina, fatto costruire da Carlo per dare una speranza ai suoi concittadini falcidiati dalla peste e dalla fame. Egli fece un proclama e invitò tutti i cittadini indigenti a recarsi sulla collina Petřín e costruire un grande muro che non serviva proprio a niente, se non a garantire ai praghesi dignità e quel minimo di benessere necessario a scacciare via la fame e la miseria… A qualche distanza da quel muro, un’installazione di sculture in bronzo scandisce il declivio di Petřín. Rappresentano un uomo che via via viene divorato dalla dittatura e dalla schiavitù, sino a farlo sparire. Il popolo ceco pose quel monumento a celebrare la ritrovata libertà all’indomani della caduta del Muro di Berlino nel 1989 e all’indomani della Rivoluzione di Velluto, che portò il poeta e drammaturgo Václav Havel alla presidenza della nuova e libera Repubblica. Quella Repubblica restituì il Castello al popolo ed anche la Cattedrale di San Vito. Mi lascio alle spalle il Muro della fame e l’installazione in memoria delle aberrazioni della dittatura e prendo a salire.
Il Castello e la Cattedrale di San Vito
La collina di Petřín si innalza in maniera dolce su Praga, sino a distendersi sul pianoro dove si trovano il Castello, la Cattedrale e la Città Piccola (Malá Strana), disposta tutta intorno con i suoi palazzi ormai sede di enti ed istituti pubblici o di alberghi. Qui il fenomeno della overgentrification turistica ed istituzionale è piuttosto evidente. È difficile trovare gente che ci viva a Malá Strana. Quanti vengono fin quassù lo fanno per un servizio, un’attività o per recarsi in un ufficio pubblico. Le visite di piacere sono ormai prerogativa pressoché esclusiva dei turisti, oltre che delle delegazioni ufficiali che salgono al Castello, divenuto sede della Presidenza della Repubblica. In Malá Strana vi sono anche le sedi del Parlamento. Ahimè, anche Praga va sperimentando i processi di svuotamento dei centri storici, sconosciuti sino a qualche decennio addietro. Anche Staré Mesto, la Vecchia Città, sta sperimentando un analogo fenomeno. Insomma, Praga sta scivolando verso il destino delle altre grandi metropoli europee, con i centri storici che si svuotano e le periferie più o meno anonime e/o degradate che si allargano. Sino agli anni ‘50, era un vero borgo pieno di vita, con le case abitate e pullulanti di gente, Malá Strana. Nelle pertinenze del Castello si srotolava quello che oggi viene denominato “Vicolo d’oro”. Il riferimento è agli alchimisti che qui vivevano a stretto contatto di gomito con Rodolfo, l’imperatore, che, tra le altre cose, era ossessionato dalle magie degli alchimisti e dalle loro promesse di trasformare il piombo in oro. Il vicolo mette in fila le casupole occupate dagli alchimisti tra il 1500 e il 1600. Sono davvero spazi striminziti che stridono con l’imponenza dei palazzi e degli altri edifici del Castello. Una stanzucola faceva da laboratorio e un pagliericcio sul lato estremo del muro serviva per dormire. Nell’angolo opposto, un camino per riscaldarsi e magari cuocere qualcosa. Lì dentro, alchimisti, maghi e fattucchieri alimentavano le ossessioni di Rodolfo, che viveva nel Castello. D’altronde, quella di considerare la casa come una sorta di rifugio è una consuetudine rimasta radicata a Praga. Difficilmente i praghesi vi inviteranno a casa. Vi diranno comunque di incontrarvi al caffè, piuttosto che al ristorante, o al teatro, al cinema anche, ma non a casa. La casa è spesso solo un rifugio, addirittura un ripostiglio talora. Quelle casupole del Vicolo d’oro mi hanno fatto davvero una grande impressione. Qui, al n. 22, si dice che abbia soggiornato per qualche tempo anche Kafka e sicuramente artisti e cineasti vi abitarono sino agli anni ‘50 e ‘60. Anche il rabbi Loew pare che vivesse qui. Per rispondere immediatamente alle chiamate di Rodolfo, che era fortemente impressionato, oltre che curioso, di vedere come finiva la storia del Golem. L’idea che nel suo regno qualcuno potesse creare dalla creta impastata con acqua un essere vivente e che addirittura questo qualcuno lo potesse dotare di un’anima lo esaltava fino a fargli pensare davvero che stesse per verificarsi un miracolo pari a quello della creazione divina e egli non voleva mancare l’appuntamento.
Abbiamo attraversato per intero la collina. Superbe distese di ciliegi dagli enormi tronchi punteggiavano le pendici che salivano con noi. Ciliegi e peri, meli e alberi da frutto i più vari riempivano completamente la collina nella parte che si innalzava, mentre nella parte bassa abbondavano i boschi con gli alberi ad alto fusto. Sulla collina tutto è di proprietà pubblica. E tutti i cittadini possono venire e farsi la provvista di frutta ogni qualvolta lo vogliano. E non pensate che la collina, i boschi, i prati, i frutteti siano abbandonati a sé stessi. Sono curati come il giardino di casa. D’altra parte, la collina Petřín è il giardino di Malá Strana. Arriviamo in vista del Castello, dove è in corso il cambio della guardia. Un momento solenne che blocca visite e visitatori, tanto è intensa e partecipata la cerimonia. Il Castello è imponente. Un enorme parallelepipedo dagli angoli sporgenti, con un ingresso custodito da un portale assai ricco su cui trovano posto gli stemmi imperiali, mentre eleganti e possenti gruppi marmorei lo incorniciano. Non è la tipologia del Castello così come lo conosciamo noi: mura attrezzate per la difesa, merli, torri inespugnabili, fossato tutto intorno e ponte levatoio. No. Qui il Castello è una cittadella dalla razionale impostazione che ospita le guarnigioni militari, contiene il Palazzo dell’imperatore, mette in fila gli edifici del potere o comunque dello Stato, e tutto intorno lascia crescere pertinenze e abitazioni. Insomma, è una vera città nobile e fortificata, con tanto di giardini, parchi e preziosi aranceti. Niente fortificazioni e torri di guardia. Appena all’esterno del Palazzo imperiale, ma sempre entro i confini del Castello-cittadella, appare, maestosa ed imponente, la fabbrica della Cattedrale. Mi sovrasta quando la scorgo e ammutolisco. È immensa, davvero enorme. Incute rispetto e dispensa meraviglia a piene mani. Le sue guglie ardite sono lance che trafiggono il cielo tutto intorno. Sono altissime. La facciata laterale con la torre dell’orologio e il portale d’ingresso nell’area riservata ai reali, anticipata da uno ardito trittico di archi a sesto acuto, è tempestata d’oro. I mosaici che si spandono intorno alla “porta d’oro” sono immersi in una luce abbacinante, mentre il porticato al di là del triplice ordine di archi mostra lesene e nervature ardite di straordinario intrico architettonico. Insomma, come il Castello, anche la Cattedrale ostenta potenza che in essa arrivava dal potere spirituale e da quello temporale che reciprocamente si sostenevano. Perché in Boemia, come nell’Impero austro-ungarico di cui era parte, la questione religiosa si è da sempre fusa e confusa con la questione del potere. A Praga, il trono del Re di Boemia non era ereditario, ma veniva assegnato dai grandi del Regno, in numero di sette, i quali si dividevano in cattolici e protestanti e giocavano a dominarsi gli uni gli altri. Da qui le continue dispute e l’irrequietezza della parte che non aveva espresso il monarca. Vi erano stati anche gli Ussiti, all’inizio della contesa nel 1400. Essi, movimenti cristiani riformatori rivoluzionari, già allora presero a imbastire lotte e a scatenare guerre contro i cattolici sostenuti da Vienna, prima che si consolidasse la diatriba tra cattolici e protestanti. Le lotte potevano protrarsi a lungo e, allora, in assenza di un accordo, finivano con la defenestrazione dei capi di una delle fazioni in lotta. Si prendevano più o meno a tradimento i capi della parte che non voleva cedere il potere e li si faceva volare dalla finestra. La più famosa defenestrazione, satura di conseguenze disastrose, fu quella del 1618 nel Castello di Praga, a seguito delle turbolenze esplose alla morte di Rodolfo, cui seguì la Guerra dei Trent’anni. Ma la pratica delle defenestrazioni non si è mai interrotta da queste parti. Anzi, essa è proseguita, sotto altre forme, sino ai giorni nostri. Nel 1948 toccò a Jan Masaryk. Il ministro degli esteri della rinata Repubblica cecoslovacca, in procinto di partire nel luglio del 1947 per Parigi onde partecipare alla conferenza internazionale per il varo del Piano Marshall americano per lo sviluppo e la ricostruzione europea, venne convocato a Mosca e lì venne “invitato” a starsene a casa. Per precauzione e perché non si fidavano, lo trattennero comunque per il tempo necessario. Il malcapitato Masaryk commentò il fatto dicendo che era entrato al Cremlino da Ministro degli Esteri di una Repubblica libera e ne uscì come un lacchè dell’URSS. Nel 1948, con la defenestrazione di Masaryk, finisce la breve stagione della libera Repubblica cecoslovacca. Il resto, da allora, appartenne alla dura cronaca oltre che alla storia. La Cecoslovacchia finì sotto il dominio sovietico e, per ultimo, Dubček, che aveva evocato la primavera praghese nel 1968, subì l’ennesima defenestrazione, questa volta ad opera dei carri armati sovietici. La Cattedrale di San Vito è esattamente la risposta del Sacro Romano Impero e della cattolica casata asburgica alle nascenti velleità degli ussiti boemi, poi confluiti nella riforma protestante. È bella, tuttavia, quella Cattedrale. Al di là di ogni presupposto che l’ha resa possibile. Bella come può esserlo una cattedrale gotica del Centro-Nord Europa. Le altezze sono vertiginose e arditi, oltre che intricati, gli intrecci di lesene e nervature sui soffitti e all’incrocio delle arcate. Gli spazi sono immensi. La navata centrale è addirittura sconfinata. Non credo di aver visto nulla di simile prima d’ora. Forse la Cattedrale di Gand in terra fiamminga. Ma lì il chiarore della pietra rendeva meno ottundente quella magnificenza, allo stesso modo della dolcezza delle linee del duomo di Milano. Qui, invece, il colore bruno della pietra ne aumentava l’imponenza, fino a far immaginare che essa volesse schiacciare inesorabilmente la natura umana. Nelle navate laterali, che si stringevano come una specie di sudario sui fedeli, la verticalità diventava ancora più ardita e sconfinata la piccolezza degli uomini. Lo spazio prezioso del presbiterio, la ricchezza delle cappelle laterali, la fantasmagoria delle vetrate, la grandiosa monumentalità del tabernacolo d’oro e argento esaltavano, a loro volta, le dimensioni dello spazio che, per un arcano miracolo architettonico, si disponeva armoniosamente, nonostante la debordante imponenza dei complementi interni, che sembra organizzata per reprimere e schiacciare ogni orgoglio, e ricordare a tutti, cattolici e protestanti, che la potenza di Dio, resa manifesta dalla potenza della sua Chiesa, è inarrivabile e quindi da accettare, venerare e servire con totale umiltà e sottomissione. Rodolfo, che era buono nell’anima ed incline alla concordia, forse suggestionato dall’irraggiungibile bellezza della Cattedrale, emise un editto imperiale per consentire libertà e parità di diritti ai suoi sudditi, cattolici, protestanti, ebrei, dando a tutti la possibilità di costruire le loro chiese o luoghi di culto. Mai nessuno avrebbe potuto pensare di eguagliare la Cattedrale cattolica. E invece ripresero le contese. Quell’editto fu causa, nel 1618, della defenestrazione degli esponenti cattolici che intendevano vanificare l’editto di Rodolfo, ormai morto da qualche anno, e per questo furono defenestrati. Ne seguì la Guerra dei Trent’anni. Oggi resta la grandiosità del Castello e la meravigliosa potenza della Cattedrale di San Vito. I cechi, inclini all’agnosticismo, se non proprio all’ateismo, non farebbero mai a meno di quelle guglie che si stagliano dentro al cielo, scandendo il profilo della città più bella del mondo.
Malá Strana. L’Ospedale italiano
Se salite al Castello e alla Cattedrale provenendo da Staré Mesto, la Città Vecchia, invece che dalla Collina di Petřín, avendo lasciato alle vostre spalle il Ponte Carlo e la Chiesa di San Nicola, dalle cupole splendenti d’oro, sbucherete, dopo aver attraversato un piccolo portico in fondo alla piazza, sulla strada che vi conduce in cima a Malá Strana. Prima di imboccare la salita, incontrerete alla vostra sinistra un palazzo imponente, massiccio e sovraccarico di cornicioni e fregi barocchi, con una teoria di statue che scandiscono in alto tutta intera la facciata. È il Palazzo Lobkowicz, oggi sede dell’Ambasciata tedesca, un colpo d’occhio che sorprende per l’ostentata grandiosità. Sul lato opposto della stessa strada noterete un palazzo aristocratico, dallo sviluppo architettonico lineare, anzi essenziale, elegante e puro, in stile rinascimentale. Esso corre in alto, ben oltre l’Ambasciata tedesca, per almeno duecento metri e in basso piega ad angolo, incuneandosi in una viuzza laterale. Accanto al portone prospiciente l’Ambasciata tedesca, un grande affresco tardo rinascimentale impreziosisce la parete, per il resto priva di ogni sovrastruttura. È l’Ospedale della Congregazione Italiana di Praga, oggi sede dell’Istituto Italiano di Cultura, il più antico Istituto Italiano di Cultura al mondo.
Il portone conduce nella Cappella dell’Ospedale, dedicata alla Madre di Dio Assunta in cielo e ai santi Ambrogio e Carlo Borromeo, che rimandano a Milano. Ho avuto una guida d’eccezione, lo ammetto. Lo stesso Direttore dell’Istituto mi ha condotto a visitare questo gioiello dell’arte rinascimentale italiana a Praga. La Cappella, con il soffitto interamente affrescato con monocromi azzurri, è un gioiello raro, soprattutto considerato il predominio a Praga dell’architettura gotica da un lato e di quella barocca e liberty dall’altro. All’interno, un grande chiostro, chiuso su tutti i lati da eleganti porticati e impreziosito al centro da una fontana esagonale di pregevolissima fattura, rivela un’intimità che non ti aspetti, mentre un secondo giardino, un tempo usato come cimitero dell’ospedale, ti accoglie con la vista superba del Castello e delle guglie della Cattedrale di San Vito. In fondo, un tempietto con due teschi, incastonati dentro due ghirlande d’alloro e affrescati sui lati del vano d’ingresso con delle scritte difficili da interpretare, per la lingua in cui sono rese ma anche per il degrado del tempo, sollecita la curiosità. Insomma, spunta la magia di Praga anche in casa Italia. Sopra, nella zona di rappresentanza dove sono anche gli uffici, in un bel salone quadrato dall’alto soffitto che dà sul retro della cappella della Madonna Assunta in cielo, una serie di ritratti seicenteschi si susseguono tranquilli sulla parete laterale, ma sulla parete di fronte, entrando, domina, isolato, il dipinto di una dama bianca. È grande e non ha nulla a che fare con i barbuti signori dei ritratti esposti sull’altra parete. È bella la dama bianca. Giovane e bella. Il bianco vestito le scivola ampio e leggiadro sui fianchi, si direbbe, accarezzandole il corpo snello, mollemente appoggiato a una poltrona e a un tavolo che si perdono inghiottiti da un interno che esalta l’incarnato del viso. I capelli biondi sono raccolti dietro la nuca, le braccia lasciate appena cadere lungo la figura, a significare distacco ma anche attenzione, e il viso concentrato quel tanto che basta ad esaltarne lo sguardo penetrante. Gli occhi languidi lasciano intuire dei riflessi saettanti che ti seguono ovunque. Danno l’impressione che la dama bianca stia tutto controllando, attendendo il momento giusto per levarsi in piedi, uscire dalla cornice e passeggiare leggiadramente per l’intero palazzo. Mi viene in mente che possa essere qualcuna che ci ha vissuto là dentro, magari essendone stata padrona o signora. Ma la tecnica pittorica mi dice che siamo nell’Ottocento. Mi spingo a riconoscere la pennellata dei macchiaioli. E tuttavia percepisco, dagli sguardi e dalle frasi smozzicate di qualcuno dietro le mie spalle, che, se doveste trovarvi da soli e di notte, quando il palazzo è vuoto, potreste trovarvi di fronte a questa donna affascinante. Non so se quel qualcuno fosse reale o me lo sono immaginato. Può essere, tutto può accadere nella Praga satura di magia, che lo spirito di qualche dama antica si sia riconosciuto in quel dipinto e ne abbia preso possesso, così da poter vagare nottetempo nel rinascimentale palazzo dell’Ospedale degli Italiani ed abbia anche alitato il suo segreto nella mia mente, parlandomi all’orecchio mentre la ammiravo. Forse intende imporre ammenda a chi non la ritrasse come avrebbe voluto e desiderato…
A Praga la magia corre per aria, si appiccica agli sguardi delle statue del Ponte Carlo, si nasconde nelle stanzucole degli alchimisti nel Vicolo d’Oro, aleggia nella Cattedrale e nel Castello, sfila tra le figure degli apostoli che si mostrano in processione ogni ora dietro al duplice orologio della torre sulla Piazza di Staré Mesto o attende nella soffitta della vecchia sinagoga nel quartiere ebraico. Qui ogni storia può rivelarsi vera, basta liberarsi dei paraventi confortevoli dietro i quali ci nascondiamo per non attraversare il muro della paura o delle sorprese incredibili. La presenza degli Italiani a Praga risale al ‘500 ed è probabile che lo stesso imperatore Carlo, che realizzò il Ponte e Staré Mesto, li avesse già chiamati nel quattordicesimo secolo. A quel tempo l’Italia era una fucina di ingegni, artisti, architetti, costruttori, scalpellini e scultori, oltre che affrescatori. I Comuni italiani crescevano e diventavano potenti grazie alle arti. A Firenze, le corporazioni degli Artieri avevano realizzato con Orsanmichele un gioiello insuperabile di architettura rinascimentale ed in essa avevano celebrato la loro potenza. Insomma, li chiamavano da tutte le parti in Europa. E li chiamarono anche a Praga. E arrivarono piuttosto numerosi ad innalzare palazzi, monumenti e chiese di ogni genere. L’arrivo di Rodolfo segnò una forte accelerazione nella crescita della comunità italiana. Rodolfo era ossessionato dalla magia e dagli alambicchi fumanti degli alchimisti, ma amava soprattutto il bello. Egli si circondava di opere d’arte e gli artisti pullulavano a corte, e Praga risplendeva per il suo oro, ma anche per il pregio delle sue sculture, dei suoi affreschi, dei suoi argenti e dei suoi fregi preziosi. E gli italiani erano il meglio in proposito. Arrivavano da molte parti, ma essenzialmente dal Lombardo-Veneto che ricadeva sotto la giurisdizione austroungarica. Gli Italiani a Praga divennero una colonia numerosa e potente, importante anche, e pensarono di ricambiare la protezione dei reali di Boemia e dello stesso imperatore Rodolfo, che, intanto, aveva trasferito la capitale dell’impero proprio a Praga, non solo con le opere del loro ingegno, ma anche con un ospedale per il popolo indigente. Un ospedale che funzionava molto bene e svolgeva opera misericordiosa soprattutto verso il popolo misero e diseredato. La colonia italiana divenne un punto fermo della Chiesa cattolica nella contrapposizione con i protestanti. La Boemia era un vulcano sempre in ebollizione sul piano religioso, con cattolici e protestanti impegnati a contendersi il potere e a imporre il loro re. Nel 1618, dopo la morte di Rodolfo, i protestanti defenestrarono dal Castello i rappresentanti cattolici e si presero il potere ed il re, ma scatenarono la Guerra dei Trent’anni, dando l’avvio a un periodo difficile e ricco di sommovimenti che ovviamente toccarono gli italiani. Ne fecero le spese i Gesuiti, che vennero espulsi, ma la corporazione degli Italiani restò al suo posto. Il loro ospedale curava gli indigenti e non si preoccupava dell’appartenenza religiosa dei malati, e questo premiava il loro impegno, che, con la perizia nelle arti e nelle professioni, diventava un sicuro salvacondotto nelle burrascose vicende dell’impero. Si spiega anche con la consistenza dei trascorsi storici la simpatia che tuttora lega l’Italia a Praga, commenta il Direttore dell’Istituto, che mi racconta degli intensi e proficui rapporti che legano l’Istituto alla città di Praga, tanto da essere divenuto, quello, un punto fermo nel panorama culturale della capitale ceca. È vero, penso. Nella presentazione del mio libro, che parla di Sud, della memoria e dei sentieri, tratturi, leggende, storie di genti e popoli lì insediatisi dalla notte dei tempi, siamo andati avanti per oltre due ore. Chissà perché Kundera, lasciando Praga, se ne andò a Parigi e non pensò di raggiungere Roma. Per la verità, la risposta è facile, mi dico. L’Italia attuale non è quella del Rinascimento. E nemmeno la Francia. A differenza dell’Italia, che non ha mai fatto una rivoluzione, la Francia la fece e come, se la fece. Tanto da cambiare la storia del mondo, a differenza dell’Italia, che dopo averla cambiata ripetutamente nei secoli trascorsi, quando era la terra dei comuni e delle signorie, in quelli recenti ha preferito le facili e rassicuranti scorciatoie rispetto alle impervie strade maestre. E mi consolo affermando tra me e me che aveva avuto ragione Hrabal a non lasciare Praga, se è vero che lo stesso Kundera, nel suo ultimo libro francese, “La festa dell’insignificanza”, ha confessato a sé stesso che a ragionare con la conoscenza acquisita lungo l’arco dell’esistenza di ciascuno, molte delle scelte compiute in passato non le si sarebbe fatte. Credo che sia vero per tutti e mi dico che è una gran fortuna non trovarsi davanti a simile dilemma.
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*Antonio Corvino, di origini pugliesi e napoletano di formazione, è scrittore, poeta, saggista ed economista con un solido background in cultura classica.
Nel corso della sua carriera ha ricoperto numerosi incarichi dirigenziali nel sistema confindustriale e ha svolto un ruolo di rilievo come Direttore Generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, dove ha organizzato il “Sorrento Meeting” dal 2011 al 2015. Questo evento ha riunito intellettuali, economisti e politici provenienti dal Mediterraneo, Asia e Americhe per discutere, con visioni innovative e controcorrente, temi di grande attualità come il sottosviluppo, le migrazioni e il destino economico del Mediterraneo.
Corvino è noto anche per la sua passione per le antiche vie del Mezzogiorno italiano. Nel settembre 2023, ha pubblicato il suo primo romanzo di viaggio, Cammini a Sud. Sentieri, tratturi, storie, leggende, genti e popoli del Mezzogiorno (Giannini Editore), presentato quest’anno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga.
Ancora quest’anno, a novembre, è seguito il suo secondo romanzo, L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni (Rubbettino Editore).