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Questo è ancora un Paese che va a carbone. La materia prima simbolo della Rivoluzione industriale rimane fondamentale nel mix energetico ceco

Erano circa trecento, un numero canonico come gli Spartani alle Termopili, gli ambientalisti che hanno dato vita all’inizio dell’estate scorsa alla manifestazione Limity jsme my (I limiti siamo noi). Il luogo: Bílina, la maxi miniera di lignite situata nella Boemia del nord e di proprietà della Čez, la compagnia energetica a partecipazione statale. Alcuni degli attivisti, con le loro tute bianche, sono riusciti perfino a incatenarsi alla scavatrice, impedendole quel giorno di entrare in funzione.

Fin dove scavare

“I cambiamenti climatici iniziano qui – dichiara il movimento composto soprattutto da giovani militanti. – I baroni del carbone guadagnano milioni di corone (in realtà sono miliardi, ndr.), mentre i danni delle mutazioni del clima ricadono sui più deboli, vale a dire fra i Paesi del Sud del mondo”.

L’obiettivo degli attivisti è assai concreto: difendere i tratti di terreno che le grandi scavatrici vorrebbero mangiarsi, allargando l’estensione delle miniere a cielo aperto.
A oggi esistono dei limiti all’estensione delle miniere di lignite fissati da un decreto governativo dell’ottobre del 1991 emesso dall’esecutivo di Petr Pithart, quando il primo governo post comunista decise di porre un limite alla estrazione del carbone. All’epoca ad agire furono soprattutto esigenze di carattere ambientale, che da queste parti raggiunge vette da record europeo. L’estrazione di massa della lignite era vista come una delle malefatte del deposto potere del Partito Comunista, la forza dei gruppi sociali legati al carbone, sindacati e aziende in primis, era in caduta libera e i limiti fissati erano sufficientemente generosi per non suscitare levate di scudi immediate. Ma negli ultimi anni le pressioni a cancellare i limiti sono cresciute, sia da parte degli attori economici che della politica regionale. I governi fin qui non hanno ceduto. L’unica eccezione è proprio la miniera di Bilína, i cui confini sono stati ritoccati a due riprese, nel 2008 e nel 2015. In quel caso il governo ha giocato pro domo sua, in quanto la miniera fa parte del gruppo energetico Čez, il cui 70% è di proprietà dello Stato.

Sono invece rimasti a bocca asciutta i privati. Tra questi il più attivo nella battaglia contro i limiti è sicuramente il miliardario Pavel Tykač, patron del gruppo Severní energetická, il cui principale sito estrattivo, Lom Čsa, sorge non lontano da Most e Litvínov, nei monti Metalliferi.

Il Lom Čsa dovrebbe esaurirsi entro il 2024, se non fosse che oltre i limiti c’è una riserva stimata di circa 750 milioni di tonnellate di carbone corrispondente a circa 20 annualità di estrazione in tutta la Repubblica Ceca. Se i limiti venissero infranti, a sparire dalla faccia della terra dovrebbe essere proprio Horní Jiřetín, il paesino diventato nel frattempo uno dei simboli della battaglia. Ma, cosa forse ancora più grave, la grande buca arriverebbe solo a 500 metri dalla città di Litvínov. A repentaglio anche Záluží, il più grande polo chimico del Paese.

Le voci della popolazione locale non sono univoche. Mentre per alcuni gli attivisti, che vogliono mantenere i limiti, sono semplicemente “ecoterroristi”, altri hanno un approccio più critico rispetto a quanto affermano i grandi gruppi di estrazione. Avvicinandosi le attività estrattive a un centro importante come Litvínov (24.000 abitanti), le conseguenze cominciano a farsi sentire. Ad esempio, i valori immobiliari precipitano man mano che la distanza dalla miniera si riduce. Dal punto di vista economico si tratta di un circolo vizioso molto vantaggioso per chi estrae. Anche solo la menzione dell’espansione della cava fa perdere di valore le case, che a questo punto sono più facili da comprare in cambio di un immobile in una zona appena più sicura e prestigiosa.

Una locomotiva a carbone

Anche se ha la tendenza a scordarselo, la Repubblica Ceca è ancora un paese che va a carbone. La materia prima simbolo della Rivoluzione industriale rimane fondamentale nel mix energetico ceco. Secondo le statistiche ufficiali dell’Autorità per l’Energia, le centrali a carbone rappresentano circa il 48 per cento dell’intera produzione dell’elettricità nel Paese. Seguono con significativa distanza le fonti nucleari. Ancora maggiore, intorno al 70 per cento, la quota per quanto riguarda la produzione di calore. Lo share del carbone è in lento declino negli ultimi anni ma, per quanto riguarda l’energia elettrica, rimane il doppio della media Ue. Lo stesso discorso vale anche per le quantità estratte. Oggi siamo ben lontani dai 95 milioni di tonnellate di lignite all’anno della metà degli anni Ottanta. Ma dopo il crollo a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, la produzione ristagna poco sotto i 40 milioni di tonnellate di carbone all’anno, registrando nel 2017 addirittura un leggero aumento.

L’estrazione della lignite è fortemente collegata con la produzione di energia elettrica tant’è che diverse compagnie del settore, a partire dalle più grandi – la Čez e la Severní energetická – possiedono sia le miniere che le centrali a carbone.

Nella Strategia energetica nazionale si prevede un forte declino della produzione da fonti di carbone dell’energia elettrica da circa 41.000 GWh attuali a poco meno di 15.500 GWh nel 2040. A prendere il posto del carbone dovrebbe essere soprattutto il nucleare e solo in seconda battuta il gas naturale e le fonti rinnovabili. Tuttavia, con i ritardi che stanno contrassegnando il nucleare ceco a causa di problemi di progettazione e finanziamento e un certo distacco del settore energetico locale nel confronto del gas naturale, è possibile che il carbone abbia in futuro un ruolo maggiore di quello prospettato dai documenti ufficiali.

Su questo d’altronde contano apertamente anche i baroni del carbone cechi che ormai stanno guardando all’estero. Molti gruppi energetici internazionali sono in procinto di disfarsi delle loro fonti a carbone, che godono di pessima stampa, a prezzi stracciati. L’esempio più lampante è l’acquisizione del ramo tedesco del gruppo svedese Vattenfall (miniere di lignite e centrali in Sassonia) alla cordata dei miliardari cechi Daniel Křetinský e Petr Kellner. Di fronte a una spesa stimata in pochi euro, i due miliardari boemi hanno messo mani su un patrimonio di circa 3,4 miliardi di euro, metà dei quali formati da un conto vincolato per il risanamento ambientale post-estrazione. La società svedese ha dovuto invece iscrivere al suo bilancio una massiccia perdita ma ha potuto sbandierare il risultato di aver alleggerito le sue emissioni.

“La società Eph è convinta che il carbone continuerà a giocare un ruolo importante di tecnologia di transito garantendo una produzione sicura e senza interruzioni dell’energia elettrica” ha spiegato il suo modo di vedere il gruppo di Křetinský. Quest’ultimo ha ripetuto operazione simili, sebbene a condizioni non così spettacolarmente convenienti, anche in altri paesi europei. Tra questi anche l’Italia, dove l’Eph ha comprato cinque centrali a carbone dal gruppo tedesco E.ON.

La logica di queste operazioni, realizzate spesso grazie a prestiti bancari, è di tipo speculativo. Gli investitori cechi puntano su un rialzo dei prezzi dell’energia in futuro, su un progressivo disinnamoramento degli investitori per le fonti rinnovabili (e il recupero di immagine delle fonti sporche) e soprattutto sull’irraggiungibilità degli ambiziosi obiettivi dei piani di conversione energetica, come il tedesco EnergieWende. Dalle parti di Praga si pensa che alla fine i governi europei dovranno continuare a rivolgersi alla lignite per garantire l’erogazione dell’energia elettrica con gli standard di continuità a cui è abituato il capitalismo del XXI secolo. Il concorrente più temibile in questa partita è il gas naturale, che gode di un’immagine più pulita e accettabile in Europa. Che il gas non possa sostituire completamente il carbone, rappresenta una delle principali scommesse dei grandi investitori energetici cechi.

di Jakub Horňáček