“L’ho sempre chiamato signor presidente, ma non era certo lui a esigere questo titolo. Lui voleva essere considerato un normale cittadino, coi suoi diritti e i suoi doveri: il cittadino Václav Havel”.
Sono trascorsi ormai cinque anni dalla sua morte, avvenuta in una gelida domenica di dicembre, nella sua casa di campagna, a Hrádeček, sette km da Trutnov, nella Boemia nord orientale. A tracciarne un ricordo è suor Veritas, dell’ordine di San Carlo – infermiera e psicologa – che ha assistito l’ex Presidente ceco, eroe della Rivoluzione di Velluto, negli ultimi sei mesi di vita. L’abbiamo incontrata nel suo monastero, nella Šporkova, una viuzza del quartiere di Malá Strana, a Praga.
“Di persona l’ho visto per la prima volta il 20 luglio del 2011, a Hrádeček, dove io e altre due mie consorelle fummo chiamate ad assisterlo. Sì era fatto promettere dal suo medico che non sarebbe finito in un ospedale o in un pensionato. Non gli interessavano cure sofisticate, soprattutto non voleva essere manipolato. Aveva il desiderio di morire in un ambiente domestico, in mezzo alle persone di sua fiducia. Poi lui era molto attaccato a quella dimora di campagna, la considerava la sua casa. Forse influiva anche il ricordo degli anni della dissidenza, quando a Hrádeček organizzava i suoi incontri clandestini, i concerti e gli incontri con altri oppositori del regime”.
Suor Veritas era con lui anche quel 18 dicembre, quando l’ha visto “spegnersi come una candela”.
Com’è che furono proprio le Suore di San Carlo ad assisterlo negli ultimi mesi di vita?
Conosceva il nostro Ospedale di Malá Strana perché vi era stato ricoverato alcune volte negli anni della dissidenza, quando era detenuto nel carcere di Praga Ruzyne. Già allora aveva un legame con questo ospedale, che sapeva era stato delle suore di San Carlo Borromeo, anche se noi nel periodo del regime non eravamo lì. Poi, dopo la Rivoluzione, la sua prima moglie Olga collaborava con il nostro ordine per delle attività caritatevoli che svolgeva. Ecco perché pensò a noi, perché lo assistessimo. Contò anche l’amicizia con il cardinale Dominik Duka, con il quale il Presidente era amico dagli anni della prigionia nelle prigioni comuniste. Lo chiamò chiedendogli di fare da intermediario con noi.
Che persona era Havel visto da vicino?
In quel periodo era ormai molto invecchiato e provato, ma continuava sempre ad avere una scintilla negli occhi, qualcosa di molto vivace e acuto. Era un vero filosofo, lo si capiva anche dalle domande che faceva, dal modo di rivolgersi. Ma era anche una persona con un forte senso dello humor. In generale posso dire che gli interessava molto che tutti attorno a lui stessero bene e che fossero a proprio agio. Si comportava così anche con noi, con gli uomini della scorta, che erano con lui ormai da anni. Aveva un modo tutto suo di esercitare l’autorità, direi quasi con grande piacevolezza, con dolcezza.
Uno dei particolari che mi colpirono di più, sin dal primo giorno che l’ho conosciuto, era la sua grande sistematicità, della quale persino si scusava. Probabilmente era anche una conseguenza della malattia, delle raccomandazioni dei medici. Fatto sta che la mattina, appena sveglio, la prima cosa che gli interessava era il programma della giornata, in ogni minimo particolare. Nonostante questo non era un tipo rigido, era molto simpatico anche in questa sua sistematicità. In fondo era sempre stato un uomo abituato ad affrontare la vita in maniera liberale, senza alcuna rigidità, con molta tolleranza.
Come trascorreva le sue giornate?
Si dedicava alle cose normali della quotidianità. Con la scorta andava anche a fare la spesa a Trutnov, oppure per le sue passeggiate fra i boschi. A tavola aveva una particolare predilezione per i piatti semplici e amava moltissimo cucinare. Gli piaceva preparare la cena per il suo medico personale, che lo veniva a trovare ogni settimana.
La sera seguiva i notiziari televisivi ed era sempre molto informato. A proposito del suo rapporto con l’Italia, poche settimane prima di morire, si rallegrò per l’avvento al governo di Mario Monti, un uomo per il quale aveva una forte stima.
La maggior parte del tempo lo trascorreva però nel suo studio. Era consapevole di essere vicino alla morte e gli interessava moltissimo scrivere le sue memorie. Questo è un ulteriore motivo della sua scelta di vivere quel suo ultimo periodo a Hradecek, dove trovava la tranquillità ideale per potersi dedicare alle sue memorie.
Che rapporto aveva con la religione e con la vita spirituale?
Credo che lui avesse un forte senso religioso. Gli capitava spesso di discutere di questioni riguardanti la fede, amava parlare di argomenti di carattere metafisico. Accanto a sé aveva anche tanti amici cattolici. Ho già detto del cardinale Domink Duka, ma posso citare anche il gesuita František Lízna, il vescovo ausiliare di Praga Václav Malý , il monsignor Tomáš Halík. Quando il presidente Havel organizzava i suoi simposi clandestini a Hrádeček, una buona metà erano esponenti del mondo cristiano.
Però non dava l’impressione di essere un praticante, un uomo di Chiesa
Forse tutti non lo sanno, ma da ragazzo lui ebbe una educazione cattolica, e ricevette tutti i sacramenti. Un giorno mi raccontò di non essere poi riuscito, da adulto, per le vicissitudini della vita, a raggiungere una vera forma di certezza della fede e per questo motivo smise di ricevere i sacramenti. Non voleva essere ipocrita. Eppure nei suoi discorsi, nei suoi scritti, sono ricorrenti i riferimenti a un Orizzonte assoluto, a qualcuno davanti al quale tutti noi siamo responsabili, anche dopo la Morte. Io credo che il presidente Havel esprimesse così il suo senso di religiosità, la sua percezione di Dio. E davanti a questa Entità egli aveva una profonda reverenza. Per lui vale quanto diceva Sant’Agostino: “ci sono persone che appartengono alla Chiesa, ma non appartengono a Dio. Ce ne sono altre che non sono della Chiesa, ma sono di Dio”.
di Giovanni Usai