Cinquant’anni fa la ginnasta Věra Čáslavská conquistava le olimpiadi messicane e lanciava un messaggio di resistenza agli invasori sovietici
Testa china, sguardo schivo, occhi bassi. Per non guardare quella bandiera rossa, quella falce e quel martello issati nel palazzetto dello sport di Città del Messico, che in quell’autunno del 1968 ospita i diciannovesimi Giochi olimpici dell’era moderna.
Ha una medaglia d’oro al collo Věra Čáslavská; e divide il gradino più alto del podio con la sovietica Larissa Petrik. Quando l’inno dell’URSS riempie il palazzetto dello sport, la più grande ginnasta cecoslovacca compie quel gesto immobile di resistenza, una, due volte: alla premiazione del corpo libero, prima, a quella della trave, poi, dove finirà seconda dopo una decisione contestata che consegna l’oro all’avversaria sovietica Natal’ja Kučinskaja. Ma anche sul secondo gradino del podio Věra Čáslavská resta la campionessa totale, sola atleta capace di collezionatore gli ori olimpici in tutte le specialità individuali della ginnastica tra il 1964 e il 1968.
Dirà più tardi: “Dalla prima nota dell’inno sovietico, l’inno di un paese il cui esercito occupava la nostra terra, ho inconsciamente abbassato la testa. È stato un gesto spontaneo, venuto dal profondo del mio cuore, della mia anima”. Uno sguardo stornato che dice lo sdegno per quello che pochi mesi prima è successo nella sua lontana Cecoslovacchia. Terra invasa e calpestata dai carri armati di Mosca venuti a normalizzare lo spiraglio di libertà aperto dalla Primavera di Praga. Una stagione di cui Věra Čáslavská era stata sostenitrice e icona, già firmataria del Manifesto delle duemila parole pubblicato nel giugno ‘68 dallo scrittore Ludvík Vaculík sul settimanale dell’Unione degli scrittori – un testo fortemente critico nei confronti del passato del Partito comunista cecoslovacco e un auspicio a continuare radicalmente il cambiamento.
E pensare che la Čáslavská, la più grande atleta ceca dell’epoca, “seconda donna più popolare al mondo dopo Jacqueline Kennedy”, a quell’Olimpiade d’oltreoceano ha rischiato di non mettere piede. Nei mesi che precedono quei Giochi messicani è in ritiro con la nazionale a Šumperk, ai piedi dei monti Jeseníky. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto è svegliata dalle urla della gente del posto, i carri sovietici sono entrati nel paese. Un avvenimento che mette fortemente a rischio la sua partenza per le Olimpiadi. Ma lei non perde tempo, non dispera, e in ritiro continua ad allenarsi usando un tronco come trave. Forza di volontà e dedizione, spinta dal sostegno di un popolo intero.
Solo all’ultimo le autorità cecoslovacche trovano un accordo con il segretario del Pcus, Leonid Brèžnev, per farla partire per quei Giochi che saranno la sua consacrazione: una vetta e una tribuna. Nel 1968 la Čáslavská è al vertice della carriera anche se le sue vittorie olimpiche erano cominciate già quattro anni prima, a Tokyo, nel 1964, quando era riuscita a battere la mitica ginnasta sovietica Larisa Latynina. Agli Europei del 1967 lascia impreparati i giudici per il risultato alla trave e al corpo libero: 1.00 dice il cartello. Ma è un 10; gli strumenti non arrivano a registrare la perfezione dei suoi esercizi. Un momento, questo, che fa eco all’impresa della rumena Nadia Comaneci alle Olimpiadi di Montreal nel 1976, lei che riuscirà ad aggiudicarsi il primo 10 olimpico di sempre per un esercizio alle parallele asimmetriche. Lei che fuggirà, più tardi, da un altro regime liberticida dell’est.
Ma torniamo alla Čáslavská e ai suoi radiosi giorni messicani. A un’esperienza che va oltre lo sport e la politica, perché quella trasferta contiene anche elementi di festa e di fiaba popolare. Quando il pubblico la vede volteggiare leggera sulle note iconiche di Jarabe Tapatio ne fa immediatamente una beniamina del pueblo. C’è poi il matrimonio con il mezzofondista cecoslovacco Josef Odložil nella cattedrale della capitale messicana, in migliaia vi partecipano: è una consacrazione di popolarità nel paese centramericano.
Poi sarà l’Italia, il viaggio di nozze a Capri, gli ultimi giorni splendenti. Perché il coraggio si paga a caro prezzo sotto regime. E al ritorno in patria, per i suoi gesti e le sue prese di posizione, è subito considerata persona non gradita: viene espulsa da tutte le competizioni, le viene impedito di lasciare la Cecoslovacchia. Comincia così la stagione del declino. A partire da quel momento la sua vita sarà una lunga parentesi quasi senza sport, lunga vent’anni.
Solo dopo la Rivoluzione di velluto del 1989 le cose cambiano drasticamente, anche per lei. La Cecoslovacchia ritrova la libertà e la Čáslavská, da martire sportiva, diventa consigliera per lo sport e le questioni sociali del nuovo presidente Václav Havel. Più tardi ricoprirà la carica di Presidente del Comitato Olimpico ceco. Ma proprio quando le cose sembrano rimettersi in sesto, e Věra Čáslavská ritrova finalmente cariche e onori meritati, nel 1993 l’ex marito Josef, da cui aveva divorziato nel 1987, muore per mano del figlio Martin, tragico epilogo di una lite tra i due. Da quel momento in poi le sue apparizioni pubbliche finiscono, si isola in lunghi anni di depressione da cui uscirà solamente qualche anno prima di andarsene, nel 2016 all’età di 74 anni.
Ormai la storia, e ancora di più il suo paese, la ricordano come un’icona, di sport e di militanza. Lei che è stata forse la sua atleta più straordinaria, capace di raccogliere in pochi anni 140 medaglie, di cui 11 olimpiche e sette d’oro, quattro titoli di campionessa del mondo e undici europei. E tutta la Repubblica Ceca ne ricorda ancora quegli occhi che rifiutano di sottomettersi, in uno sdegno immobile e silenzioso, ad una invasione umiliante. Fiera, come quei due pugni chiusi in un guanto nero, quelle braccia tese al cielo di due atleti di colore, Tommie Smith e John Carlos, che nelle stesse Olimpiadi avevano, anche loro, fatto del podio una tribuna politica. Militanti come Věra, l’indomita e leggera libellula cecoslovacca.
di Edoardo Malvenuti