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A più di cento anni dalla morte dell’imperatore Francesco Giuseppe, ricordiamo il rapporto che egli ebbe con il Regno di Boemia, dall’incoronazione a Olomouc, sino alla morte nel 1916

Rigido e rigoroso, prima di tutto verso se stesso, pretendeva analogo comportamento anche dai suoi collaboratori e, se possibile, pure dai suoi sudditi che avrebbe preferito tutti in divisa, quella che lui stesso indossò a tredici anni.

Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena, derewige Kaiser, l’imperatore eterno, nacque nel Castello di Schönbrunn il 18 agosto 1830 e vi morì, a pochi passi dalla stanza dov’era venuto alla luce il 21 novembre 1916: aveva 86 anni.

Accettò la corona nell’anno delle rivoluzioni, il 2 dicembre 1848. Vienna era in tumulto e l’incoronazione avvenne nella più sicura Olomouc (Olmütz). Lo zio Ferdinando aveva abdicato ed il padre, Francesco Carlo, aveva rinunciato al trono. Congiura di palazzo? Fatto è che Francesco Giuseppe divenne imperatore.

Il 6 aprile precedente, dopo che il principe Metternich era stato costretto alle dimissioni, il giovane Francesco Giuseppe era stato nominato governatore della Boemia, incarico che mai prese in effettivo possesso: un atteggiamento non positivo verso le terre slave nord-occidentali che mantenne nel corso del suo lungo regno.

A Olomouc ebbe subito il sostegno delle armi, garantitogli dal feldmaresciallo stiriano Alfred Candiduszu Windisch-Graez il quale gli giurò immediatamente fedeltà. Windisch-Graetz era un reazionario della più bell’acqua e un duro. La moglie era stata uccisa da una fucilata durante i moti rivoluzionari di Praga, che egli represse con ferocia, imponendo la legge marziale e non esitando a bombardare la città.

Nei primi passi da monarca, ad aiutarlo fu un principe boemo di Český Krumlov (Bömisch Krumau), Felix zu Schwarzenberg, statista di vaglia. E fu un altro nobile boemo di Sedlčany (Seltschan), reduce delle guerre napoleoniche, Jan Josef Václav Radecký z Radče, il maresciallo Josef Radetzky, il suo mentore militare, che aveva conosciuto alla battaglia di Santa Lucia, presso Verona, il 6 maggio precedente.

Nonostante questi rimandi storici e personali che avrebbero dovuto legarlo alla Boemia, con essa tenne un contegno ambiguo e distaccato. Gli aristocratici boemi insistettero invano affinché i diritti che vantava trovassero formata attuazione; nell’aprile del 1861 egli ricevette una delegazione della Dieta boema cui disse che intendeva incoronarsi a Praga. Francesco Giuseppe in realtà mai si pose in capo la Svatováclavská Koruna, pur vantando nella sua ricca panoplia di titoli anche quello di re di Boemia.

L’opinione pubblica ceca non gli perdonò la vicenda della deportazione del letterato, giornalista e patriota Karel Havlíček Borovský, liberale, il quale proponeva l’unione dei cechi e degli slovacchi, in più era anche anticlericale non pentito. Mentre il ministro degli Interni, Alexander von Bach, un Klerikalabsolutist, ne suggeriva la deportazione da Praga a Salisburgo, Francesco Giuseppe ordinò che il luogo di confino doveva essere ben più distante, sicché il patriota e letterato Havlíček Borovský andò a finire nella lontana Bressanone, senza alcuna sentenza di tribunale: aveva deciso personalmente Francesco Giuseppe.

Il caso Havlíčék Borovský (il letterato descrisse la sua triste deportazione nelle Tyrolské elegie, Le elegie del Tirolo, un’autobiografia etica) pesò fortemente sul futuro dei rapporti fra il mondo ceco illuminato e patriottico e Vienna.

Le residue speranze boeme furono spazzate via nel 1866, dopo la sconfitta austriaca nella battaglia di Hradec Králové, che gli italiani conoscono come battaglia di Sadowa.

Pur religioso fino alla bigotteria, Francesco Giuseppe coltivava le sue superstizioni, annettendo le sue antipatie ai luoghi dove gli era andata, militarmente, male.

L’anno dopo, con l’Österreichisch-Ungarischer Ausgleich, il compromesso austro-ungherese, varò la duplice monarchia, ignorando non solo le richieste, ma la stessa esistenza slava del suo impero: uno schiaffo ai cechi.

Così, quando giunse a Praga per l’apertura della Mostra del giubileo del 1891, la sua visita fu contrastata da manifestazioni anti-asburgiche e dalla diffusione di libelli contro Vienna e lo stesso imperatore. La reazione poliziesca non fu tenera e Jan Neruda non esitò a descriverla nei suoi Povídky Malostranské, i racconti di Malá Strana. I poliziotti raggiunsero il paradosso addirittura di rincorrere chi portava i copricapi tradizionali cechi, visti come l’ostentazione della ribellione. Senza parlare della tribolata e gloriosa nascita del Sokol, la società ginnica irredentista che si sviluppò in modo massiccio.

Francesco Giuseppe venne soprannominato dai cechi Procházka, che significa letteralmente: camminata, passeggiata. Probabilmente l’epiteto risale al 1901, quando l’Imperatore giunse a Praga per inaugurare un ponte e su un giornale apparve una sua foto con la generica didascalia “Procházka na mostě”, “Passeggiata sul ponte”.

E quindi diventò il Procházka che non faceva molto per superare l’incomprensione di questi sudditi che stavano riscoprendo e consolidando la loro identità storica, giusto il minimo sindacale, come si dice, per evitare sgarbi: non mancò mai alle grandi manovre annuali dell’esercito quando si svolgevano in Boemia o in Moravia. Le sue visite ufficiali, i tagli di nastri, la storica visita alle officine Škoda, a Plzeň il 9 settembre 1905, accompagnato dal direttore generale Georg Günther, avevano il risalto di rito.

L’ostentata fedeltà delle autorità non corrispondeva certo al sentimento anti-austriaco dei cechi. Jaroslav Hašek, l’autore del Dobrý voják Švejk, il buon soldato Švejk, lo stralunato allevatore di cani dalle improbabili quanto fantasiose genealogie, raccontò che il suo eroe venne preso per idiota patentato quando esplose nel grido: “Viva l’imperatore Francesco Giuseppe!”. Sul cui ritratto sotto vetro attaccato alla parete della trattoria U Kalicha frequentata da Švejk le mosche depositavano le loro cacchette.

Il mito asburgico fondato sulla retorica della dinastia, della religione e del patriottismo, fra i cechi non attecchiva.

Nella incomprensione verso i sudditi della corona boema che mai volle sul capo, Francesco Giuseppe fu protagonista di una storia straordinariamente lunga e varia, ma vissuta con una normalità disarmante e monotona, come il suo Tafelspitz, il manzo bollito che mai doveva mancare in tavola. Successi e sconfitte militari, un tentativo di omicidio (nel 1853, quando una fibbia del colletto dell’uniforme deviò la lama dell’ungherese János Libényi, che voleva vendicare i compatrioti impiccati ad Arad), il matrimonio infelice con la cugina Elisabetta di Baviera, le rivolte popolari, i lutti (la figlia primogenita Sofia morta di polmonite a Budapest, il fratello Massimiliano fucilato in Messico, il figlio Rodolfo suicida a Mayerling, la stessa moglie Elisabetta assassinata a Ginevra dall’anarchico italiano Luigi Lucheni).

Arrivarono il telefono, la luce elettrica, il cinematografo, il fonografo, i tempi mutavano velocemente, ma all’imperatore tutto questo mondo in movimento provocava fastidio.

Quello grande gli giunse da Sarajevo, con l’assassinio del mal sopportato nipote Francesco Ferdinando e della consorte Žofie Chotková, ancor più malvista: gradi di nobiltà scarsi, ma soprattutto era boema. Ne seguì, com’è noto, il primo conflitto mondiale. L’Imperatore non era convinto di quella guerra ed egli percepiva che il suo impero era vecchio, non più al passo con i tempi.

Da Parigi intanto preoccupava l’attività di Tomáš Masaryk. Non era uno sconosciuto a Vienna, dove era stato parlamentare e avvocato di grande spessore in cause che avevano riguardato i diritti civili. Le discussioni vertevano sul suo operato pericoloso per la monarchia: aveva messo in piedi a Parigi un organismo, il Consiglio nazionale cecoslovacco, che aveva in mente di creare uno stato indipendente che avrebbe messo insieme Boemia, Moravia, Slesia e Slovacchia: la Cecoslovacchia.

Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, malmessa militarmente, fragile socialmente e politicamente. Tuttavia la dichiarazione di guerra dell’Italia, die treulose Italien, l’Italia sleale, funzionò da sferzata all’orgoglio dell’impero.

Ma Francesco Giuseppe era ormai al crepuscolo e forse capì che i giochi sulla scacchiera della guerra erano conclusi, e non a favore degli Imperi Centrali.

L’amante Katharina Schratt, la “cara, buona amica”, che dirigeva un convalescenziario per ufficiali feriti, non gli nascose che a Vienna si faceva la fame.

Il 21 ottobre del 1916,il primo ministro von Stürgkh venne assassinato a pistolettate da Friedrich Adler al grido: “Vogliamo la pace! Abbasso l’assolutismo!”.

L’anziano imperatore rimase profondamente turbato, mentre i problemi di salute stavano impensierendo la sua ormai ristretta cerchia. Il dott. Joseph von Kerzl, suo medico, diagnosticò la polmonite.

Francesco Giuseppe spirò con un colpo di tosse: erano le ore 21 e 05 di martedì 21 novembre 1916. Il cappellano erano riuscito appena a dare l’estrema unzione.

Giornate gelide disturbarono le code dei sudditi che si recavano a rendere omaggio alla salma del vecchio imperatore nella Rittersaal della Hofburg, dove però non venne esposta poiché l’imbalsamazione era riuscita male.

Il 30 novembre le campane di Vienna suonarono contemporaneamente a morto accompagnando il corteo funebre nel duomo di Santo Stefano. A trainare l’imponente carro funebre furono otto cavalli neri Kladruby, razza ceca nata per servizi di corte, di cui dovevano esprimere la magnificenza nelle cerimonie ufficiali: fu l’ultimo omaggio di una Boemia che ormai pensava alla sua indipendenza.

Nella capitale era disponibile un solo battaglione di fanteria, che rese gli onori militari ed accompagnò il defunto sovrano.

Dopo la cerimonia religiosa, il corteo funebre aperto dal nuovo imperatore Carlo e dalla giovane imperatrice Zita prese la direzione della chiesa di Santa Maria degli Angeli che ospita la Cripta dei Cappuccini.

Il gran ciambellano, conte Alfred von Montenuovo, bussò ben tre volte, iniziando dapprima a presentare il defunto con tutti i suoi titoli, trovando però l’uscio della cripta sbarrato. Poi si accontentò di specificare che si trattava dell’imperatore, senza risultato e con la stessa risposta di prima: “Noi non lo conosciamo”. Infine, chiedendo di far entrare “Francesco Giuseppe, un povero peccatore che implora la misericordia di Dio”, trovò la comprensione del frate guardiano che fece spalancare il portone, consentendo che il feretro fosse collocato nella Cripta Imperiale, la Kaisergruft.

Il lungo regno di Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena era proprio terminato.

Il 2 dicembre 1916 nella cappella dell’Hofburg fu recitato alla presenza del nuovo imperatore Carlo l’ultimo Requiem. Fosse stato vivo e presente, si sarebbe congedato come era consueto fare dopo ogni occasione formale cui partecipava: “Es war sehr schön, es hat mir sehrgefreut”, è stato molto bello, mi ha rallegrato molto.

di Sergio Tazzer