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Dalla ex Cecoslovacchia all’odierna Repubblica Ceca: la regista, con la sua macchina da presa, continua a essere una testimone affidabile della realtà di questo Paese

Durante una retrospettiva all’Idfa, l’International Documentary Film Festival Amsterdam, il festival di documentari più grande del mondo, il direttore Orwa Nyrabia l’ha presentata con queste parole: “per me, Helena è indubbiamente una dei più grandi registi di documentari viventi. Ma non è riconosciuta come tale in gran parte del mondo, e questo credo la dica lunga su quanto sia maschilista la nostra industria”.

Sul fatto che sia una analisi condivisibile o no, si può discutere, ma è indubbio che la regista praghese sia uno dei personaggi più rilevanti della scena culturale, e anche politica, del suo Paese. Intanto, però, ci chiediamo: quali sono i tratti che distinguono il suo cinema dai colleghi della sua stessa generazione e soprattutto come mai c’è voluto così tanto tempo perché arrivasse alla notorietà internazionale?

Si potrebbe pensare che lo stile dei documentari di Helena Třeštíková sia nato quasi per la necessità di colmare un vuoto nel cinema cecoslovacco degli anni ‘70. Erano gli anni della normalizzazione, in cui l’atmosfera opprimente contagiava anche l’ambito cinematografico, tanto da rendere decisamente più problematica la produzione di lungometraggi che si occupassero di temi sociali. Gli ostacoli che impedirono ai cineasti di raccontare la realtà del loro paese spinsero più registi verso il genere del film documentario. È da questo contesto particolare che spuntò la figura di Helena Třeštíková, regista e docente praghese classe 1949, che nel 1975, fresca di laurea alla Famu (la leggendaria Scuola di cinema e televisione dell’Accademia delle arti dello spettacolo di Praga), esordì alla regia con il cortometraggio Zázrak (il Miracolo). Il documentario, che segue la gravidanza di una giovane ceca fino a qualche giorno dopo la nascita del bambino, è stato il primo di una serie di opere che documentavano le vite di gente ordinaria, spesso nel corso di periodi lunghi molti anni.
Per spiegare il suo background artistico, la cineasta si è sempre definita un prodotto degli anni sessanta, molto influenzata dalla Československá nová vlna (la mitica “Nuova onda” di quel periodo) e con un interesse principalmente rivolto alla vita quotidiana del cittadino ceco medio. In una intervista alla rivista cinematografica americana Variety durante l’Idfa dello scorso novembre, nello spiegare la sua preferenza per i documentari, la regista ha affermato che la vita scrive copioni meglio di qualsiasi sceneggiatore e che il suo metodo è di raccogliere aneddoti della vita quotidiana per poi usarli per costruire storie. Tuttavia, una delle figure più influenti per la praghese è stato proprio uno sceneggiatore, Cesare Zavattini, teorico di tanti capolavori del neorealismo Italiano. Durante un’intervista del 2010 per il Trieste Film Festival (dedicato in gran parte al cinema d’Europa centrale ed orientale) la regista citò una frase del grande collaboratore di Vittorio de Sica: “un film dovremmo girarlo giorno per giorno, cosi come ci laviamo i denti”. Proprio con questa filosofia in mente la Třeštíková da quasi quarant’anni realizza film di “osservazione a lungo termine”.

È stata l’opera Manželské etudy (Studi matrimoniali, 1980–1987) ad aver avvicinato la regista, quasi più di qualsiasi altro cineasta, agli ideali di Zavattini. Si tratta di un progetto che ebbe inizio nel 1980, quando la documentarista cercò sei coppie giovani per girare le loro vite nel corso dei 5-6 anni successivi ai loro matrimoni. In maniera quasi involontaria, i suoi soggetti riflettevano uno spaccato della società ed i risultati sono stati poi presentati in una serie di documentari. La troupe del film andava a trovare le coppie periodicamente, registrando le loro difficoltà, le fatiche, i loro sogni ed in tanti casi divorzi e riconciliazioni. Nel 1999 la regista è tornata al soggetto per seguire le coppie per altri sei anni ed ha infine realizzato sei lungometraggi usando sia il materiale nuovo che quello dei primi sette anni, formando una testimonianza molto personale degli anni della normalizzazione e di adattamento al capitalismo. Il modo in cui riesce a documentare le realtà sociali e psicologiche mette in evidenza anche i limiti del tradizionale cinema di finzione, soprattutto in un periodo in cui uscivano pochi film realisti di rilievo.

Ma degna di nota è anche l’abilità della praghese di trovare e toccare argomenti che risultano essere sensibili nella sua patria. Nel 1991 ha istituito la Fondazione di film e Sociologia (Nadace Film a sociologie), il cui scopo era presentare nuove prospettive della società in seguito ai grandi cambiamenti politici dell’epoca. Fra i lavori del periodo ricordiamo Řekni mi něco o sobě (Parlami di te, 1994), un ciclo dedicato al tema della devianza minorile.

Sempre nel 1994, con suo marito Michael Třeštík ha creato Nadace Člověk a čas (Fondazione Uomo e tempo), specializzata in “osservazioni a lungo termine” che riflettevano sul passaggio del tempo e sulle sue conseguenze.

Nel 2001 ha terminato le riprese di Ženy na přelomu tisíciletí (Donne a cavallo del millennio) che ritraeva personaggi come la cantante d’opera Dagmar Pecková, la cantante Bára Basiková, e una giovane tossicomane, Katka. Quello della tossicodipendenza, tra l’altro, è un tema ricorrente nella filmografia di Třeštíková, come dimostra anche in Mallory (2015). L’opera segue il duro percorso di una giovane madre con trascorsi da eroinomane, che decide di cambiar vita. La protagonista sarà costretta a vivere in auto, affronterà il fallimentare sistema dei servizi sociali, incontrerà gli uomini sbagliati, tutto ciò mentre cerca soltanto una vita migliore per sé e per suo figlio.

Vari i premi vinti in carriera dalla Třeštíková, fra cui quattro al Festival di Karlovy Vary e un European Film Award per il Miglior documentario con René (2008), uno dei suoi capolavori, che scruta la vita di un detenuto che continua a finire in carcere ripetutamente nel corso di un periodo di vent’anni.

Se da una parte il suo impegno nel catturare la vita quotidiana della gente comune ceca – e descrivere realtà poco conosciute all’estero – l’ha tenuta per anni un po’ all’ombra a livello internazionale, d’altra parte è vero che i diversi riconoscimenti hanno cominciato ultimamente ad attirarle l’attenzione dei critici stranieri.

La grande attenzione che ha sempre riposto verso la politica la portò, nel 2007, persino alla guida del ministero della Cultura, come indipendente, nel governo Topolánek, incarico che però lasciò dopo appena due settimane. Nonostante la fine di questa breve esperienza, oggi continua comunque ad essere molto attiva nella vita politica.

Ma dopo anni di analisi dello stato del suo paese, sia dal punto di vista sociale che politico, come vede i suoi connazionali oggigiorno? In una recente intervista la Třeštíková ha risposto: “È un argomento difficile. Siamo certamente influenzati dal fatto di vivere nel centro dell’Europa, un’area storicamente particolare e quasi mai tranquilla. Le persone sono abituate a sentirsi oppresse, e oggi se la prendono con l’Unione europea, il che mi sembra del tutto assurdo.

Nonostante si stia avvicinando all’età di 70 anni, la maestra sembra avere ancora storie da raccontare, come indica l’uscita di Manželské etudy po 35 letech, in tv l’anno scorso. Ma se anche decidesse di fermarsi, potrà dire di avere lasciato un segno profondo nella cinematografia ceca.

La sua erede artistica potrebbe essere proprio la figlia, la documentarista Hana Třeštíková, di cui proprio in questo periodo è nelle sale Manželské etudy: Nová generace, il sequel del popolare progetto della mamma.

Per ora non è definitivamente chiaro se il futuro di Hana sarà davvero dietro la macchina da presa, oppure in politica, essendo già oggi consigliere comunale a Praga.

Se dovesse continuare a dedicarsi alla professione della madre, siamo certi che garantirebbe la sopravvivenza di un certo Cinema verità, in grado di raccontare la Repubblica Ceca in un modo che oggigiorno vediamo troppo raramente.

di Lawrence Formisano