FacebookTwitterLinkedIn

In memoria di Natalja Gorbanevskaja, dissidente e poetessa russa scomparsa lo scorso novembre. Nell’agosto del 1968 sfidò il Cremlino in difesa della Cecoslovacchia occupata

La storia della Gorbanevskaja dimostra che i rapporti fra Mosca e Praga sono molto più complessi dei racconti sulla Guerra fredda, o delle attuali notizie economiche sulle proprietà russe nelle cittadine boeme

24 Gorbanevska flickr lipar

(Natalja Gorbanevskaja al caffè letterario Fra, 28 ottobre 2012 – Foto: Ondřej Lipár)

È il 25 agosto del 1968, una domenica mattina. L’estate, a Mosca, è in dirittura d’arrivo. Il Partito Comunista ostenta calma, ma nel cuore della capitale sovietica si incunea una nuova tensione politica. I moscoviti hanno ancora sotto gli occhi l’editoriale della Pravda di giovedì 22, intitolato “La difesa del socialismo è il più alto dovere internazionale”; articolo con cui il giornale del Partito giustificava l’invasione militare della Cecoslovacchia, completata poche ore prima. Nella Piazza Rossa, davanti all’incredibile complesso di colori, torri e cupole a cipolla che è la Cattedrale di San Basilio, la Lobnoje Mesto è deserta. È il nome (“il posto dei teschi!”) di una piattaforma di pietra bianca, larga una dozzina di metri e di poco rialzata. In passato, da qui i portavoce degli zar leggevano i loro proclami alla popolazione. Qui, i pope ortodossi ponevano un altare per fare dell’intera piazza una cattedrale a cielo aperto. Allo scoccare del mezzogiorno, otto persone – fra cui una giovane madre, Natalja Gorbanevskaja, con in braccio un bambino di pochi mesi – salgono sulla Lobnoje Mesto. Espongono degli striscioni, “vergogna agli occupanti!”, “giù le mani dalla Cecoslovacchia!”, “stiamo perdendo i nostri migliori amici”, “libertà per Dubček”.

Lo slogan più incisivo dice, in russo ”За вашу и нашу свободу!”, traslitterato “za vašu i našu svododul!”, tradotto “per la vostra e la nostra libertà!”.

La pacifica manifestazione è un affronto al Partito. È la dimostrazione che non tutti fra il popolo sovietico sono inerti, allineati, obbedienti; c’è chi solidarizza con la Cecoslovacchia, con le riforme della Primavera di Praga, chi vorrebbe che quel sogno che è il “nuovo corso” di Alexander Dubček contagi anche la Grande Russia. In poche parole, è una manifestazione intollerabile. Cinque manifestanti vengono mandati immediatamente in cella. Natalja evita quel giorno la galera perché ha il figlio con sé. Il Partito le concede una relativa, breve, libertà, ma solo fino al dicembre 1969, quando la dichiarano capziosamente schizofrenica e la internano nel gelo del manicomio di Kazan, l’antica capitale dei Tatari.

Ma chi è, Natalja Gorbanevskaja? È una poetessa, una traduttrice di letteratura polacca, e soprattutto un’attivista dei diritti civili. È un termine nuovo, un compito nuovo, quello di svelare l’ipocrisia della legge nell’autoritarismo comunista. Natalja è “una voce soffice, una colomba selvaggia”, parole di una sua poesia del 1963. Nel ’68 ha 32 anni, quando arriva l’agosto si è già fatta notare, nel ristretto circolo di dissidenti, per aver cominciato a pubblicare da pochi mesi un bollettino samizdat (così si chiamavano le pubblicazioni clandestine autoprodotte) intitolato “Cronaca degli avvenimenti correnti”; cronache di ingiustizie e di processi farsa ai critici della rivoluzione permanente. Nei mesi di libertà dopo la manifestazione sulla Piazza Rossa, fa circolare lo stesso bollettino con la storia del processo. Nel 1969 è già un libro, sempre samizdat, che intitola semplicemente Polden’, “Mezzogiorno”; l’anno successivo il testo arriva a Francoforte dove viene tradotto in Inglese e Francese, con il titolo di “Red Square at noon”. Ma Natalja è già in manicomio, dove rimane fino al 1972. Poi il rilascio, la fuga a Parigi nel ’75. La vita in Francia come traduttrice dal russo e dal polacco, la collaborazione con Radio Free Europe, il lavoro in redazione della rivista Russian Idea, l’attenzione mai sopita verso il blocco socialista.

Lei e i suoi compagni, scesi in piazza per Praga – un gesto gratuito, solidale, rischioso. Una delle tante eco che il ’68 cecoslovacco ha avuto nel continente, dimostrazione della forza immaginifica della Primavera.

Il ricercatore e boemista Massimo Tria racconta, in un articolo intitolato “L’invasione vista dai sovietici” (nel volume “Primavera di Praga, risveglio europeo”, a cura dello stesso Tria, Francesco Caccamo e Pavel Helan, pubblicato nel 2011), le storie di questi eroi a lungo trascurati. Riprende le parole di Pavel Litvinov, nipote del commissario del popolo Maxim Litvinov, il ministro degli esteri sovietico che dovette essere sostituito con Molotov perché si rifiutava di firmare un patto con Hitler. Pavel era uno degli “otto” della Piazza Rossa; gli otto sapevano che nell’élite sovietica non c’era alcun Dubček, ma speravano che le riforme cecoslovacche potessero arrivare più a est: “speravamo in una Primavera di Mosca”.

L’intreccio culturale tra Praga e Mosca è molto più complesso dei paragrafi di storia sulla Guerra Fredda, o delle attuali veline economiche sulle proprietà russe nelle cittadine boeme. Negli anni passati è stato un continuo scambio di idee nascoste, un sostegno mutuale. Quando Aleksandr Solženicyn era bandito dai sovietici, venne letto pubblicamente e provocatoriamente a Praga, nel ’67, dallo scrittore Pavel Kohout; quando poi giunse la normalizzazione, furono i dissidenti moscoviti a rilanciare la sfida con il samizdat. Le sole “cronache” fondate dalla Gorbanevskaja produssero 63 pubblicazioni clandestine tra il ’68 ed il 1983. E sulla dissidenza in forma di samizdat si basò a sua volta il movimento di Václav Havel, Charta77. Ancora Tria, nel suo calderone di fonti storiche, raccoglie le parole di Larisa Bogoraz, studiosa ucraina e anche lei tra gli “otto”, che ricorda il momento liberatorio della Perestrojka di Mihail Gorbačev a fine anni Ottanta con un appunto fondamentale: “solo che in Cecoslovacchia tutto successe più rapidamente, in modo più radicale e coerente”. Briciole di un dialogo silenzioso, tra popoli oppressi, che ha potuto trovare voce solo alla caduta del muro di Berlino.

Così la figura di Natalja Gorbanevksaja ha potuto finalmente splendere nell’immaginario collettivo, diremmo “europeo”. Il 2008, quarantennale di quei fatidici eventi, è un anno fondamentale: Natalja, con Havel e altri storici dissidenti del blocco socialista, firma a giugno la Dichiarazione di Praga sulla Coscienza Europea e il Comunismo; ad agosto, il premier ceco Mirek Topolánek le conferisce una medaglia commemorativa per la sua battaglia contro l’invasione; in ottobre l’università di Lublino (nel frattempo è divenuta cittadina polacca) le conferisce un dottorato honoris causa.

“Natalja Gorbanevskaja è una star, è l’icona degli attivisti per la difesa dei diritti umani”. Parole di Nina Belyaeva, russa, studiosa dei diritti civili, della prestigiosa Higher School of Economics di Mosca. Che pone Natalja nell’olimpo degli attivisti suoi connazionali, “appena sotto Andrej Sacharov”. Non solo come immagine classica della dissidente politica, ma anche come donna, come madre, un filo conduttore che – per la Belyaeva – la collega sino ai nuovi modelli dell’essere attivista nella società civile, a volte così lontani dall’austerità intellettuale degli “otto”, come l’esperimento delle Pussy Riot. Che, per inciso, “sono donne molto più preparate e in gamba di quanto i media siano soliti rappresentare”.

Combattiva Natalja, vivace, fino all’ultimo. Nell’agosto del 2013 partecipa ad una manifestazione in memoria della stessa di 45 anni prima, ancora una volta sulla Piazza Rossa: ancora una volta, interviene la polizia. Ma, puntualizza la professoressa Belyaeva, in questo caso non c’era nessuno scontro ideologico sulla controrivoluzione cecoslovacca: è la Russia moderna, con le strade moscovite riempite di poliziotti, che vieta e punisce qualsiasi manifestazione non autorizzata. La Gorbanevskaja non viene arrestata, ma sarà comunque la sua ultima manifestazione sulla Piazza Rossa. Ancora un contatto con Praga, nell’ottobre scorso, quando l’Università Carolina le consegna una medaglia in onore della sua vita in difesa dei diritti umani, della democrazia, della libertà. Negli stessi giorni, si ferma a salutare la tomba di Václav Havel. Muore a 77 anni, il 29 novembre 2013, nella sua casa di Parigi.

di Giuseppe Picheca