Il mercato ceco è in ottima forma e gli investimenti dall’estero continuano a produrre ricchezza, ma quanta ne resta effettivamente nel Paese? C’è bisogno di fare due conti
I dati della bilancia dei pagamenti di un paese di solito non attirano l’attenzione della grande stampa e non sviluppano un dibattito pubblico. Negli ultimi anni fa eccezione la Repubblica Ceca con la discussione sul reddito prodotto dagli investimenti esteri diretti. Una questione che forma un altro tassello nel complicato rapporto con l’Unione Europea.
Utili da sogno
I numeri, in effetti, sono impressionanti. Secondo la Banca Centrale Ceca, solo nel corso dello scorso anno gli investimenti esteri hanno fruttato circa 393 miliardi di corone, di cui 237 miliardi di corone distribuiti in dividendi. E non si tratta di una situazione eccezionale riconducibile all’ottima condizione in cui si trova l’economia ceca negli ultimi due tre anni. Gli investimenti esteri in Repubblica Ceca producono alti valori di reddito da almeno dieci anni in maniera costante, indipendentemente dal ciclo economico. Con un’altra metodologia, l’Ufficio di Statistica Ceco stima che ogni anno esca dal paese una cifra pari circa all’otto percento del reddito prodotto La bilancia dei pagamenti in sé rimane in attivo grazie al forte surplus realizzato tramite il commercio estero.
Il clamore che suscitano queste cifre ogni anno rileva un lato paradossale del ragionamento dei politici e della società ceca. Il Paese ha fatto molto a partire dalla fine degli anni Novanta per attrarre gli investimenti dall’estero. Il primo governo Zeman varò nel 2000 un ambizioso programma di incentivi agli investimenti esteri sotto la spinta della necessità. Il paese doveva risollevarsi dalla sbornia del capitalismo senza capitale, o meglio il capitalismo alla ceca, propugnata da Václav Klaus. Quest’ultima esperienza si concluse nella seconda metà degli anni Novanta con il fallimento delle principali industrie nazionali, con un sistema bancario a un passo dal crack, con una bad bank strapiena di crediti inesigibili e condizioni economiche delle famiglie in rapido deterioramento. A fare da contraltare alla situazione economica generale ci furono invece poche aziende, come la Škoda Auto, vendute a seri investitori internazionali prima dell’arrivo delle privatizzazioni a coupon. L’attrattività del paese aumentò con l’entrata della Repubblica Ceca nell’Unione Europea e quindi nel mercato comune dei capitali.
Di per sé, il fatto che gli investimenti producano utili non è una cattiva notizia per l’economia ceca. Significa infatti che gli investimenti fatti erano sostenibili e hanno potuto produrre esternalità positive come i posti di lavoro. Secondo gli analisti dell’Ufficio di Statistica, che pure ha segnalato come il deflusso degli utili è tra i più importanti in tutta l’Unione Europea, l’attuale situazione è in sintonia con la fase in cui si trova l’economia ceca. “Mentre gli investimenti esteri sono in una fase matura e pertanto producono molti utili, quelli cechi sono relativamente giovani” sottolinea le sfasature del ciclo Lukáš Kučera del dipartimento di analisi dell’ente di statistica.
Altri economisti hanno un approccio molto più critico. “Detto francamente, i valori creati in Repubblica Ceca vengono consumati all’estero e qui rimane poca roba” ha scritto Julie Hrstková, editorialista del quotidiano Hospodářské noviny, la quale ha messo in rilievo come il volume dei dividendi pagati all’estero equivale a due monte salari nazionali mensili. Sul banco degli imputati, spesso anche tra gli imprenditori locali, finiscono gli incentivi agli investimenti, i sostegni erogati dai fondi europei o la posizione dominante sul mercato in alcuni settori, quali il bancario, le telecomunicazioni o l’automotive.
Trovare la giusta misura
Una delle questioni aperte è se gli investimenti esteri producano utili in misura superiore ai tassi soliti in altri Paesi europei. Secondo l’analisi del governo sul fenomeno, pubblicata nel 2016, la risposta è in senso affermativo. “Il tasso di deflusso utili è superiore in Repubblica Ceca due volte e mezzo al valore solito per altri Paesi (Ue, ndr.) considerando i fattori macroeconomici compresi il premio per il rischio, le performance dell’economia e l’intero stock degli investimenti esteri” sostiene l’analisi. I settori individuati come remunerativi in maniera sproporzionata sono il bancario e finanziario, la telefonia mobile, la fornitura dei servizi idrici e di altri servizi comunali. In tutti questi settori i dividendi hanno superato di gran lunga gli investimenti iniziali. Tra i motivi dell’alta redditività, la presenza di monopoli naturali o la scarsa concorrenza nei dati mercati. Per equilibrare questa redditività eccezionale l’ex premier socialdemocratico, Bohuslav Sobotka, propose tra il 2016 e il 2017 un’imposta specifica per i settori sopraelencati. Non è detto tuttavia che l’aliquota maggiorata sarebbe riuscita a far rimanere in Repubblica Ceca un significativo volume di risorse. La maggior parte degli utili viene infatti prodotta nel settore manifatturiero.
La politica ceca ha d’altronde un atteggiamento piuttosto ondivago sul tema della tassazione degli utili. L’ultimo governo di centrodestra del Paese, quello guidato dal premier Petr Nečas, aveva preparato un pacchetto fiscale con numerosi sgravi rispetto all’attuale imposta sui dividendi e il reddito delle persone giuridiche. Attualmente la Repubblica Ceca si trova, nel confronto europeo, a metà strada tra i paesi con aliquote basse come l’Irlanda, i Paesi Bassi o Cipro e le aliquote scandinave. Come tuttavia viene notato, in alcuni Paesi come l’Estonia la detassazione degli utili reinvestiti in azienda non ha avuto una ricaduta significativa sulle attività di investimento. D’altra parte, l’abbattimento delle aliquote potrebbe far emergere una parte degli investitori cechi, che si parano dietro le società residenti in paradisi fiscali migliorando quindi i numeri sul piano contabile.
Una ricetta semplice
Tuttavia la soluzione più conveniente per mantenere il reddito prodotto in Repubblica Ceca sul territorio nazionale non sono le modifiche di aliquote e incentivi, che rischiano di trarre poche risorse o, al contrario, fare enormi regali ai detentori di capitale. La ricetta è molto più semplice, immediata e testata con successo dalla storia. Risponde al nome di contrattazione fra le parti sociali meno sbilanciata, con una redistribuzione più a favore del lavoro e un approccio più progressista. Uno degli incentivi maggiori per gli imprenditori esteri (e non) è stata la politica di moderazione salariale. Da qualche tempo tuttavia la mancanza della manodopera e la mobilitazione dei sindacati stanno portando a una progressiva erosione del tasso di profitto delle imprese nell’economia ceca. Il tasso di profitto in Repubblica Ceca viaggia intorno al cinquanta percento, mentre nel resto dell’Europa è, abitualmente, intorno al quaranta percento. Certamente, il rialzo dei livelli salariali accompagnato da una seria politica industriale, può far fare il tanto agognato balzo necessario verso la convergenza con le principali economie europee.
Infine, la questione degli utili entra anche nel dibattito sui rapporti con l’Europa. Il deflusso annuale di centinaia di miliardi di corone è l’altra faccia dell’ampiamente propagandato afflusso dei fondi europei, che nei prossimi anni verrà largamente ridotto. Un meccanismo di do ut des, su cui è stato basato, finora, il “contratto sociale” dell’Europa allargata. Per molti commentatori, politici, sindacalisti e abitanti del Paese oggi quelle condizioni appaiono svantaggiose. Ma è naturale che un contratto rispecchi i rapporti di forza tra i contraenti in un momento dato. E che, a condizioni mutate, venga aggiornato.
di Jakub Horňáček