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Venticinque anni fa la Rivoluzione di Velluto consegnava ai cecoslovacchi le prime elezioni libere dal 1946; oggi, votare interessa sempre meno

Gli elettori cechi alle ultime europee sono stati un milione e mezzo. Quasi il doppio, i voti per eleggere la vincitrice di un talent show televisivo

L’ultimo giorno dell’anno 1989, il volto baffuto di Václav Havel entrava nelle televisioni di milioni di cecoslovacchi. La rivoluzione aveva appena piazzato il drammaturgo a capo dello Stato, e Havel salutava il popolo nel suo primo (di una lunga serie) discorso di fine anno. Grandi occhiali squadrati e voce ovattata, un po’ d’emozione. Dall’altra parte, immobili davanti al tubo catodico, i cecoslovacchi sentivano il peso della storia del proprio paese, e da tale storia Havel parafrasò l’indimenticato Presidente Tomáš Garrigue Masaryk. Nel 1989 come nel 1918, il capo dello Stato proclamava: “Popolo, il governo è tornato a te!”.

L’arrivo della democrazia, sull’onda della Rivoluzione di Velluto, imponeva dunque il diritto e il dovere dei cecoslovacchi di decidere del loro futuro. Sei mesi dopo, l’8 e 9 giugno 1990, mentre in Italia prendevano inizio i mondiali di calcio, la Cecoslovacchia veniva chiamata alle urne per le prime elezioni libere e democratiche dal 26 maggio 1946. Eppure il ricordo non si poteva definire piacevole: in quella data i comunisti vinsero le elezioni con il 38% dei consensi. Trascorsi due anni, forti di quel risultato, decisero bene di stringere il paese nel loro pugno: un premio di maggioranza, per così dire, che sarebbe durato oltre quarant’anni.

Le nuove elezioni, per le due camere e per i due consigli nazionali (a Praga e Bratislava), avevano un vincitore annunciato: il Forum Civico (in ceco, Občanské Fórum), il grande propulsore della Rivoluzione di Velluto, il movimento guidato da Havel che univa i vecchi dissidenti del regime (non erano in molti, a dir il vero) ai nuovi entusiasti della politica. Il Forum ed i suoi alleati slovacchi del “Pubblico contro la violenza” (Verejnosť proti násiliu) conquistarono rispettivamente il 36,2% ed il 13,6% dei voti. Risultato che giunse grazie al carisma di Havel, ed alla forza emotiva e mediatica della Rivoluzione, più che per un programma politico chiaro: al contrario, la composizione del Forum era più che mai variegata, quella del Pubblico contro la violenza finanche oscura, e di lì a poco le varie anime si sarebbero separate. Radio Praga, in un articolo sull’anniversario, li ricorda come “movimenti ombrello”, al cui riparo trovarono posto le diverse anime anti-regime, per quelle uniche elezioni.

Il voto dell’8 e 9 giugno era dunque principalmente un voto “contro”: contro il passato, contro il regime, contro l’oppressione, un voto contro l’impossibilità di votare, un voto la cui filosofia era prettamente estetica: il voto era decisivo per se stesso, più che per il risultato. L’importante, ben inteso, era sconfiggere i comunisti. Questi ultimi comunque mantennero il 13%.

Sono passati 25 anni da quel voto storico, e per non essere pedanti, è bene ricordare che oltre a tutto questo – la Storia con la “s” maiuscola, la politica, i dissidenti, i nuovi leader e i dissidi interni – si trattava anche di una vera e propria festa di liberazione. Con i suoi pro, ed i suoi contro. Nell’esplosione di idee, novità e partecipazione con cui i cittadini si lanciarono nella competizione elettorale, un enorme numero di nuove formazioni politiche furono create, tra liberali, socialdemocratici, verdi, rappresentanti di minoranze etniche o di categorie professionali (l’Alleanza degli agricoltori raggiunse il 3%); alla fine solo otto partiti ottennero sedi in Parlamento (più a nord, in Polonia, le elezioni del 1991 segnarono il record di 111 partiti iscritti e 29 partiti in Parlamento!). In questo arcobaleno di posizioni, purtroppo, anche formazioni che, scavalcando i limiti della libertà d’espressione, finivano nel campo dell’odio: ecco nascere i nuovi partiti xenofobi, come il partito dei “repubblicani” Sdružení pro republiku di Miroslav Sládek, la cui crociata anti-zigana lo portò ad un triste successo negli anni Novanta – tematiche ahinoi ancora attuali. Ci piace di più ricordare gli episodi allegri di questa festa democratica: ad esempio, il partito degli amanti della birra.

Creato a Plzeň (non poteva essere altrimenti, essendo la patria della più celebre delle birre boeme), il partito Strana přátel piva più che rappresentante degli elettori, divenne il rappresentante dello humour ceco, che reclamava a ben diritto il suo passato da dissidente. È bene ricordare che il più famoso degli scrittori satirici boemi, Jaroslav Hašek, fondò il suo Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge, proprio in una birreria, nel quartiere praghese di Vinohrady. Sfiorati i novemila voti alla Camera dei Deputati e quasi quattordicimila al Senato (curiosa differenza), la storia del partito non-sense raggiunse anche l’altro capo del mondo, con un articolo sul Los Angeles Times che iniziava dicendo “Dire che in città si ama la birra sarebbe riduttivo: si tratta di una religione…”. Era ancora piena campagna elettorale (l’articolo venne pubblicato il 27 maggio) e Luděk Sibr dichiarava sulle colonne del giornale californiano che il partito aveva assolutamente “serie intenzioni”.

Alla sera del 10 giugno, a scrutinio pressoché terminato, ci si rese conto che alla festa delle elezioni libere e democratiche parteciparono praticamente tutti: il turnout elettorale raggiunse quasi il 97% degli aventi diritto. Come rintocchi di campana, la nazionale cecoslovacca segnava cinque reti contro gli Stati Uniti, doppietta del suo centravanti Tomáš Skuhravý.

Ad oggi la festa rimane un’eco lontana. Nel comfort dell’economia di mercato, il voto ha perso quel valore inestimabile – il valore di un sogno – che i cecoslovacchi gli conferivano nei tempi bui del regime. Il disinteresse per la politica ha colpito un po’ ovunque in Europa, con un declino lento ma costante degli elettori attivi. Ma se dal 1990 ad oggi l’Europa, nella media delle elezioni politiche, si è spostata dal 77% al 68%, nello stesso intervallo sia i Cechi che gli Slovacchi sono passati dallo storico 97% al 59%: più di un terzo della popolazione, in entrambi i paesi, ha perso interesse, finendo con lo stesso risultato nelle ultime legislative (2012 per gli slovacchi, 2013 per i cechi). E le prospettive non sembrano rosee: alle ultime elezioni per il Parlamento Europeo, nella primavera 2014, la Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno fatto segnare i turnout elettorali più bassi dell’Unione, rispettivamente del 18% e del 13%. Al calo della partecipazione si è unito l’euroscetticismo che da tempo trova spazio nei due paesi. In numeri, i votanti cechi sono stati un milione e mezzo. Fa sorridere notare che per eleggere Aneta Langerová, vincitrice del talent show televisivo “La Cechia cerca una superstar”, i voti furono due milioni e trecento mila – tra l’altro, via sms, dunque a pagamento.

I paradossi della società di consumo non passano inosservati, ed è forse il modo più semplice di comunicare la disaffezione alla politica. In un articolo di inizio giugno l’Hospodářské noviny descriveva seccamente il tipico astensionista ceco: beve poco e ama la televisione, di solito è credente e dei giornali legge solo la cronaca nera. Questa immagine è il risultato di un sondaggio su vasta scala condotto dal Centrum občanského vzdělávání, il Centro di educazione civica, su un campione di quattromila intervistati. “Abbiamo di fatto due mondi diversi”, dice il sociologo Jan Krajhanzl, che ha partecipato ai lavori. Il Centro, che ha pubblicato online i propri risultati, ha lanciato una campagna per i “cento anni della democrazia ceca”, il cui anniversario cade tra tre anni, nel 2018. La speranza è di ridare credito al proclama di Masaryk: che il popolo torni al governo!

di Giuseppe Picheca