In principio era un mondo piccolo: i muri neri di una bottega, un tavolaccio, fumi di colla, di vernice. Un nome normale: Antonín, il figlio del falegname, in una cittadina situata nel centro di un impero: Hradec Králové, Boemia. Aveva 18 anni e fantasticava un sogno armonico: mettere il nome di famiglia – Petrof – sopra le tastiere più preziose al mondo. Visto oggi, un secolo e mezzo dopo, è un racconto da strabuzzare gli occhi. Ricorda l’incalzare di un’opera: tra tonfi e trionfi, scalate a corte e umiliazioni di regime. È una storia d’artigiani, di geniali costruttori, di artisti del pianoforte: la saga di una famiglia che si è presa il mondo. Ma il destino dei Petrof condivide caos e splendori con la sua terra, la Boemia. I cambi generazionali, nell’azienda, si accompagnano ai rivolgimenti furiosi di due guerre mondiali, della nascita di un Paese, dei cingoli dei carri armati, a rinsaldare un regime di pietra, che solo dopo quarant’anni di torpore grigio si disfa, aprendo alla sospirata libertà. È la Repubblica Ceca di oggi, e del libero mercato.
Ma torniamo al principio. Al viaggio di Antonín, dal laboratorio del padre a Vienna capitale. Sette anni di tirocinio nelle case di produzione di pianoforti più illustri dell’impero, Heitzman, Ehrbar, Schweighofer: è l’iniziazione all’arte delle tastiere. Poi il ritorno, forte di tenacia, tecnica, e un obiettivo certo. Che si concretizza nella bottega del padre, nascosta dietro la cattedrale cittadina: nel 1864 è assemblato il primo gran piano da concerto firmato Petrof. È l’inizio di una ouverture incalzante verso il successo: tanto che nel 1880 il successo e la qualità dei pianoforti che escono dai laboratori dell’azienda spingono Antonín ad aprire una filiale a Temesvar, nell’attuale Ungheria. Solo qualche anno più tardi un’altra intuizione dell’artefice di questa fortuna familiare porta ad introdurre la produzione di pianoforti verticali. Essere forti sul mercato significa sapersi adattare ai gusti musicali del proprio tempo: la scelta è azzeccata. Cresce ancora la produzione, e nel 1895 l’azienda apre una nuova sede a Vienna iniziando un’importante esportazione dei propri strumenti oltreconfine. Ma è il 1899 l’anno degli onori: Antonín Petrof è nominato primo fornitore di pianoforti per la corte imperiale di Vienna. Intanto i figli di Antonín e sua moglie Marie cominciano a lavorare per l’azienda di famiglia. Ed è proprio il più piccolo, Vladimír, che alla morte dei genitori durante la prima guerra mondiale prende le redini della Petrof. Anno dopo anno la produzione s’ingrossa, eccelle in qualità, mai da catena di montaggio. Negli anni che seguono il primo conflitto mondiale è introdotta la produzione di pianoforti elettro-pneumatici e radio-acustici, il mercato d’esportazione si fa mondiale. I palchi di Cina, Giappone, Australia e Sud America sono calcati dai pianoforti cecoslovacchi. Infatti, crollato l’impero, alla fine della guerra, nel 1919 è nato un nuovo Paese, e la Petrof ne è da subito l’emblema musicale. Così, oltre alle opere immortali del compositore Antonín Dvořák, questa lingua di terra in pancia all’Europa brilla presto della fama e del suono delle sue tastiere. Così grande è il successo della Petrof che nel 1928, in collaborazione con la casa di produzione statunitense Stainway, apre una sussidiaria a Londra in Wigmore Street. Intanto si allarga la famiglia: entra in azienda la terza generazione di Petrof: Dimitrij, Eduard and Eugene. Quando tutto sembra girare al meglio, la storia interviene a gamba tesa a rivoltare le sorti del successo. Prima la zampata sulla Cecoslovacchia della Germania hitleriana, nel 1938. Poi la seconda guerra mondiale a flagellare l’Europa. Produzione ed esportazione di strumenti s’arrestano. Poi ancora la nuova catastrofe, dieci anni dopo, quando il Paese passa nelle mani di pietra, non certo da pianista, del regime comunista.
Tutte le industrie sono nazionalizzate, azzerate le attività d’impresa, la proprietà privata, la libertà. L’epica schianta nell’umiliazione della burocrazia. Jan Petrof, primo rappresentante della quarta generazione di famiglia, e all’epoca solo undicenne, ricorda l’umiliazione della confisca della fabbrica. Dei dipendenti incoraggiati dai funzionari del partito a sputare su suo padre e sugli zii, mentre questi si allontanavano dalla loro azienda. Sfruttatori del lavoro e nemici del popolo, questo il destino di chi portava avanti un’attività con passione e dedizione. Sempre Jan racconta che, passata la Petrof sotto il controllo dello Stato, la produzione cominciò ad essere giudicata solamente sulla base dei volumi numerici che venivano sfornati. Non importava la qualità: del resto la maggior parte delle esportazioni era diretta all’Unione Sovietica in cambio di petrolio o gas naturale. Soffocate anche le speranze d’apertura promesse dalla Primavera di Praga del 1968, invasa dai cingolati russi, la Cecoslovacchia entra in una narcosi stagnante e misera. Così la Petrof. L’eccellenza di un tempo sono foto seppiate, roba da annali. Uno iato lungo quarant’anni fino al crollo del muro di Berlino del 1989, il disfarsi dei regimi comunisti dell’Est uno dopo l’altro, la Rivoluzione di velluto, poi la liberazione della Cecoslovacchia del 1990.
Ed è proprio in quell’anno che il nuovo Presidente annuncia l’intenzione di restituire la proprietà confiscata dallo Stato alla famiglia nel 1948. Così, solo un anno dopo, Jan Petrof è nominato presidente dell’azienda fondata dal suo lontano bisnonno.
Il resto è storia contemporanea: dal 2001 l’azienda passa nelle mani della quinta generazione, e tre anni più tardi Zuzana Ceralová Petrofová è nominata presidente dell’azienda. La produzione si rinnova, tornando di alta qualità, per fornire ai quattro capi del mondo pianoforti che portano un calore di suono unico, il marchio della fabbrica Petrof. Ma una nuova crisi aspetta l’azienda: quella economica, che funesta l’Europa degli anni zero. La Petrof riesce però ancora una volta a risollevarsi e mettersi alle spalle anni di bilanci in rosso e dolorosi licenziamenti.
Così, dopo alcuni anni difficili, l’azienda ha ripreso a funzionare a pieno regime. Nel 2010 l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Shanghai, testa di ponte per il prospero mercato asiatico. Sono passati centocinquant’anni, e il sogno ambizioso del figlio di un falegname continua a commuovere, a raccogliere applausi in tutto il mondo. Ma la sua casa è ancora là, a Hradec Králové, dentro un palazzo ristrutturato di recente, che porta il nome Petrof sulla facciata. Meglio chiudere gli occhi, sentirsi dentro un laboratorio che sa di colla e segatura. Petrof resta un sogno da pentagramma, una storia che batte sulla tastiera.
di Edoardo Malvenuti