Nell’anniversario di Novembre, rievochiamo i film più celebri sul periodo comunista in Cecoslovacchia: opere riuscite e meno, tra passato e presente
Come fecero in precedenza i maestri della Nová Vlna, giovani registi cechi usano la macchina da presa per analizzare la storia del proprio paese
Trascorsi ormai 25 anni dalla Rivoluzione di Velluto ci sembra sia arrivato il momento di fare il punto sui film cechi che, in maniera più incisiva, hanno rappresentato l’epoca del regime comunista in questo Paese. Tra l’altro, abbiamo appena appreso che l’Accademia cinematografica ceca ha scelto il film “Fair Play”, della regista Andrea Sedláčková, per rappresentare la Repubblica Ceca alla prossima edizione degli Oscar. La pellicola parla proprio di resistenza contro il sistema dispotico del regime, precisamente del doping nello sport, un fenomeno molto diffuso nella Cecoslovacchia pre ‘89.
In realtà, dal 1989 a oggi, l’epoca comunista è diventata uno dei soggetti più diffusi nel cinema ceco, proprio come capitava con l’occupazione tedesca durante il periodo del cinema cecoslovacco degli anni ‘50 e ‘60.
Va anche detto che la Rivoluzione di Velluto ha dato immediatamente il via libera alla distribuzione di tutti i capolavori della Nová Vlna degli anni ‘60, in primo luogo quei film che avevano assunto una posizione critica verso il regime e che per questo erano stati vietati durante il successivo periodo della normalizzazione.
Fra questi ultimi film si ricordano le grandi opere di Miloš Forman e Jiří Menzel. A spiccare è uno in particolare: “Ucho” (L’orecchio), girato nel 1970 dal regista Karel Kachyňa. Nessun altro lavoro dell’epoca riesce infatti a dare un quadro cosi realistico dell’atmosfera soffocante e opprimente della normalizzazione post ‘68.
Il lungometraggio racconta del rapporto fra una coppia, marito e moglie che tornando a casa da una festa trovano i fili dalla corrente tagliati e temono di essere spiati. Il film ricrea in maniera impareggiabile un’atmosfera di paranoia. Bisogna però sottolineare che la sottigliezza e l’intelligenza della trama furono anche frutto delle restrizioni imposte all’epoca dal regime. Parliamo naturalmente di un cinema che non solo non esiste più, ma che al giorno d’oggi non sarebbe neanche possibile replicare.
Nell’industria cinematografica ceca, dopo il 1989, è stato abolito il monopolio statale, è stata eliminata la censura, e via via sono stati privatizzati gli studi di Barrandov e le sale. Sono rimaste invece di competenza dello Stato le principali forme di finanziamento a favore del cinema.
È da questa nuova libertà, ma anche da queste condizioni che nasce il nuovo cinema ceco, con la comparsa, all’inizio degli anni Novanta, di una nuova generazione di registi, quasi tutti tra i venticinque e i trent’anni. Fra i più rappresentativi possiamo citare Jan Svěrák, Saša Gedeon e Jan Hřebejk. Come in precedenza fecero i maestri della Nová Vlna – i vari Jiří Menzel, Věra Chytilová, Juraj Herz – anche questi registi più giovani usano la macchina da presa per analizzare la storia del proprio paese, in modo particolare il periodo del regime comunista.
Iniziamo con Svěrák, colui che ha avuto più successo in campo internazionale. Il suo “Kolja”, premio Oscar per il miglior film straniero nel 1997, oltre a rivalutare il rapporto fra i cechi e i russi, è interessante – diciamo così – per la sua visione del Comunismo, essendo ambientato parzialmente durante il periodo della normalizzazione.
Kolja racconta la storia di un violoncellista – interpretato da Zdeněk Svěrák, leggenda della commedia ceca e padre del regista – che, per motivi economici, accetta un matrimonio di convenienza con una giovane russa, madre di un bambino. La moglie lo abbandona subito dopo il matrimonio, lasciandogli temporaneamente il proprio figlio di cinque anni. Dopo le iniziali difficoltà, tra l’uomo e il bambino si crea un legame di grande umanità, mentre nel frattempo in Cecoslovacchia scoppia la Rivoluzione di Velluto. È una storia costellata di riferimenti alla realtà dell’epoca: la burocrazia, gli atteggiamenti al limite del ridicolo della polizia segreta e i tanti commenti ironici sul regime e la necessità di resistergli.
Per parlare di un film più recente, meno commerciale e con una descrizione forse più significativa dell’era comunista, bisognerebbe vedere “…a bude hůř” (E sarà sempre peggio) di Petr Nikolaev, del 2007. Un film non interamente riuscito, che nonostante questo rimane un’opera affascinante proprio perché si focalizza sugli emarginati della società di quel periodo. Personaggi che si perdono in un mondo di droghe e sesso, ascoltando musica bandita dal regime, che considerano il loro stile di vita come una forma di protesta contro lo status quo.
I due resoconti cinematografici più noti sulla vita nella Cecoslovacchia comunista, tra i film prodotti nel periodo post ‘89, sono probabilmente “Pelíšky” (1999, Coccole), e “Pupendo” (2003), entrambi scritti dallo sceneggiatore Petr Jarchovský e diretti dal regista praghese Jan Hřebejk. Due pellicole di enorme successo commerciale.
Bisogna però ammettere che, se lo confrontiamo con quello della Nová Vlna, nel cinema di Hřebejk c’è una mancanza di analisi politica, esattamente come avviene nel cinema di Svěrák. I film riflettono piuttosto la quotidianità della gente comune, come i cittadini riuscivano a sopravvivere. L’analisi politica finisce però col risultare assente.
Pelíšky rievoca con ironia l’atmosfera del regime durante l’anno della Primavera di Praga, attraverso la vita di due famiglie, una comunista e l’altra anticomunista, che abitano nello stesso palazzo. I rispettivi capifamiglia sono sempre in polemica. Da una parte Šebek, ex ufficiale e sostenitore fervente del Comunismo, dall’altra Kraus, ex membro della Resistenza, il cui fratello aveva combattuto per la Raf, l’aeronautica militare del Regno Unito. Le rispettive mogli e i figli dimostrano invece di avere poco interesse per le vicende politiche del loro paese. Così, almeno, sino alla fatidica invasione sovietica dell’agosto del 1968, un evento descritto come una tragedia, ma anche come una crisi che finisce con l’unire le due famiglie. Il film è più un diario di vita familiare che una analisi del ‘68, pur essendo la realtà politica dell’epoca a determinare le esistenze e i destini di tutti i personaggi.
Nel complesso quella di Hřebejk si potrebbe definire una visione piuttosto ironica del Comunismo. Fra le scene più divertenti ricordiamo quella in cui Šebek fa i regali di Natale ai propri figli, vantandosi di aver acquistato “gli insuperabili bicchieri infrangibili dalla Polonia”. Il figlio non ci crede e, per mettere alla prova la teoria del padre, getta un bicchiere a terra mandandolo in frantumi, davanti al genitore costernato. Sia Pelíšky che Kolja presentano il Comunismo come un mondo da sopportare e tollerare, utilizzando un pizzico di umorismo.
Pupendo è uno dei pochissimi film che toccano il tema della dissidenza negli anni della normalizzazione, con la grande interpretazione di Bolek Polívka, nel ruolo di uno scultore screditato, in collisione con il regime per il suo rifiuto di conformarsi ed adattarsi ad esso. Per effetto del suo confronto con l’autorità, fa fatica a trovare un lavoro regolare, a differenza della ex moglie e di suo marito, membri del partito. Come gli altri film cechi sulla Cecoslovacchia comunista, prodotti dopo la Rivoluzione di Velluto, Pupendo non punge il periodo come invece lo fecero i capolavori degli anni ‘60, come il già citato “Ucho”, oppure “Všichni dobří rodáci” (titolo tradotto in italiano come “Cronaca Morava”) di Vojtěch Jasný, del 1969 e “Žert” (Lo Scherzo), del 1969, l’adattamento cinematografico del capolavoro della letteratura cecoslovacca di Milan Kundera. Film che criticarono il regime aspramente e che per questo finirono con l’essere vietati.
Negli anni successivi alla Rivoluzione di Velluto, il cinema ceco ha invece dato per lo più una immagine ironica del periodo pre ‘89. Solo di recente – dopo il successo riscosso dalla serie televisiva “Hořící keř” (Burning Bush, Il fuoco di Praga) dell’anno scorso, che raccontava gli eventi nel periodo successivo alla morte di Jan Palach – si nota la nuova tendenza di raccontare storie di eroi che hanno combattuto o preso posizioni contro il regime. È esattamente quanto accade con “Fair Play”, del quale abbiamo accennato all’inizio. In questo caso si tratta della storia di un’atleta che rifiuta di usare steroidi anabolizzanti per competere alle Olimpiadi nonostante gli ordini dal suo governo. Un ottimo film che suggeriamo di andare a vedere in questo periodo di celebrazioni, più o meno riuscite, della fine del regime comunista.
di Lawrence Formisano