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Storia del più grande filosofo della Cecoslovacchia moderna che combatté, con il suo pensiero, i totalitarismi del Novecento. L’impegno di Patočka è totale: riunioni, scritti, contatti con intellettuali all’estero, il tutto intervallato da estenuanti interrogatori della polizia segreta

“È perché non ha avuto paura che Jan Patočka, il filosofo fenomenologo, è stato sfinito dalla polizia, sottomesso a degli interrogatori estenuanti, perseguitato dalla polizia fino al suo letto d’ospedale e letteralmente messo a morte dal potere”. È con parole lapidarie, da requisitoria, che Paul Ricœur, uno dei maggiori filosofi francesi ed europei del secondo Novecento, si esprime sulle colonne del quotidiano Le Monde, a una settimana dalla morte dell’amico e collega cecoslovacco Jan Patočka, morto a Praga il 13 marzo 1977. E pensare che i lettori di Rudé Právo, il giornale ufficiale del Partito Comunista di Cecoslovacchia, della morte del più grande pensatore ceco del ventesimo secolo non troveranno nemmeno una riga. Sempre inviso al potere, Jan Patočka muore a settant’anni senza essere mai sceso a compromessi col regime.

Restato quasi tutta la sua vita lontano dalle aule di filosofia dell’università di Praga, quelle che aveva immaginato come un vivaio, un crocevia del pensiero europeo, per i pochi anni d’insegnamento che gli furono concessi, dovette spesso coprire ruoli non suoi, costretto persino a lavorare come traduttore per venti corone la pagina – come racconta la figlia Jana in un’intervista alla Nouvelle Revue Française di Praga. Jan Patočka ha incarnato una vita d’opposizione, impegnato per il suo Paese e armato di parole, idee e amicizie. Di quelle capaci di cambiare il mondo.

Ma riavvolgiamo il nastro. E lasciamo la parola al filosofo, che si presenta così in un testo ripubblicato in Francia, come gran parte della sua opera, all’indomani della sua morte: “Figlio di un filologo classico, che in gioventù aveva viaggiato in Grecia con Dörpfeld (…), sono nato a Turnov, in Boemia, il primo giugno 1907. Ho fatto i miei studi al ginnasio di Praga-Vinohrady – mentre imparavo il greco con mio padre – poi ho continuato i miei studi all’università Carolina di Praga, in romanistica, slavistica e filosofia”.

Ma il “kairos” – il momento opportuno – nella sua carriera di giovane studente è senza dubbio la borsa di studio che a ventun anni gli permette di trasferirsi a Parigi per proseguire gli studi di filosofia: qui segue corsi e seminari alla Sorbona, all’École des Hautes Études e al Collegio di Francia. Nei cortili monumentali e nelle aule di questi templi della filosofia, nel fermento intellettuale degli anni trenta, assiste alle lezioni dei filosofi più importanti dell’epoca: Léon Brunschvicg, Édouard Le Roy e Pierre Janet. È durante questo soggiorno parigino che fa la conoscenza di Alexandre Koyré, altro grande studioso contemporaneo, che rimarrà un amico di lunga data del filosofo ceco. Ma l’anno di Parigi è anche, e soprattutto, l’anno dell’incontro con l’uomo che più di tutti marcherà il pensiero di Patočka: il professore, germanofono ma moravo di nascita, Edmund Husserl.

“Conoscevo già Husserl per i suoi scritti ma quelle conferenze mi impressionarono particolarmente”. Quelle conferenze a cui Patočka ha la fortuna di assistere sui banchi della Sorbona non sono altro che le decisive Meditazioni cartesiane pronunciate dal padre della fenomenologia. Fra gli uditori di quelle lezioni ci sono altri futuri grandi nomi della scuola filosofica francese: Gabriel Marcel, Emmanuel Lévinas e Lev Šestov.

Patočka ricorda così il primo seminario husserliano: “Un giorno, al corso di logica, il professore disse che dovevamo finire prima poiché nella nostra aula vi sarebbe stata una lezione del Professor Husserl di Friburgo; io naturalmente rimasi a sedere ed attesi la riunione della Società francese di filosofia, dove per la prima volta vidi l’uomo di cui non molto tempo dopo l’amico Vladimír Tardy scrisse che era il più grande filosofo vivente”.

L’immagine di quell’uomo dal portamento solenne, dal pensiero poderoso, non lascia indifferente il giovane studente ceco: “di quella meditazione mi affascinava il fatto che fosse del tutto ignara che si svolgeva di fronte agli occhi del pubblico, come se il filosofo sedesse nella stanza di Cartesio e sviluppasse il suo tema più avanti, molto più avanti”.

L’esperienza francese è un momento decisivo della formazione di Patočka: qui comincia a profilarsi la sua propria voce filosofica, i primi abbozzi di un pensiero personale che troverà compimento nella fenomenologia. Risultato degli studi parigini, è un primo lavoro di una certa importanza: la dissertazione del 1931 sul concetto di evidenza e il suo significato per la noetica, in cui rifiuta la nozione tradizionale di verità e di evidenza per sostenere una tesi già tutta fenomenologica: la verità va cercata nella mostrazione, nella manifestazione dell’essente.

Più tardi, grazie ad un’altra borsa di studio Patočka proseguirà le sue ricerche in Germania, dove seguirà i seminari di Martin Heidegger e farà personalmente la conoscenza del suo maestro Husserl, con cui resterà in contatto per molti anni, anche dopo che questi, d’origine ebrea, è escluso dal mondo accademico con la presa di potere dei nazisti in Germania.

Finito il periodo di formazione tedesco Patočka rientra in patria, per restare. Qui diventa segretario del Circolo filosofico di Praga e insegna all’università Carolina per due anni, prima che i nazisti invadano il paese e chiudano l’università nel settembre 1939. Riprenderà l’insegnamento solo a guerra terminata, nel 1945: allora è in contatto con tanti, importanti filosofi europei, in particolare in Francia, dove l’esistenzialismo è una delle correnti più vivaci. Questa fitta e feconda attività accademica è interrotta bruscamente dopo la presa di potere dei comunisti nel 1948. È allora che Patočka, per restare fedele alla propria linea, continuerà i propri studi e ricerche nella penombra, spesso sostenendosi con altri lavori, altre ricerche storiche più “accettabili”: le sue pubblicazioni filosofiche sono vietate e circolano unicamente in forma di samizdat, sottobanco, come di nascosto sono organizzati a casa sua cicli di seminari filosofici impronunciabili pubblicamente.

Solo nel 1968 può riprendere l’insegnamento all’università, ma anche stavolta per un periodo troppo breve, giusto il tempo della Primavera di Praga di Dubček. Nemmeno due anni dopo Patočka sarà costretto a lasciare di nuovo l’insegnamento e ricominciare a lavorare in clandestinità. È in questi anni che si profila l’ultimo capitolo della vita di Patočka, quello della resistenza e dell’impegno politico: quando decide di essere il volto, la voce e il pensiero, assieme a Václav Havel e altri, di quella Charta 77 che coraggiosamente criticava il governo della Cecoslovacchia per la mancata attuazione degli impegni sottoscritti in materia di diritti umani alla Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Quel sogno d’Europa democratica, libera e etica, che per Patočka ha le sue radici lontane e decisive nel pensiero greco antico.

L’impegno politico e intellettuale di Patočka è totale: riunioni, scritti, contatti con intellettuali all’estero, il tutto intervallato da estenuanti interrogatori della polizia segreta che lo sorveglia costantemente: un’attività frenetica e sfiancante che finisce per minargli la salute. Così, dopo un ultimo interrogatorio estenuante in ospedale, dove Patočka è già ricoverato per un malore, il filosofo è colpito da una grave emorragia cerebrale.

Morirà tre giorni dopo. Ma al regime non basta nemmeno l’averlo messo a morte, per riprendere le parole di Ricœur. Arresti, espulsione di intellettuali stranieri, sgherri del regime a fotografare tra la folla: il funerale di Jan Patočka è trasformato in una caccia alle streghe. Si racconta che persino ai fioristi furono imposte le saracinesche abbassate. Ma arrivarono in più di mille all’abbazia di Břevnov, nonostante tutto, per dire addio al “Socrate di Praga” che, come tutti i più grandi filosofi, ha parlato fino alla fine con estrema lungimiranza. Così, in una delle sue riflessioni più tarde, aveva detto: “nel sacrificio c’è l’essere”.

di Edoardo Malvenuti