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Dopo anni non proprio brillanti, il cinema ceco sembra uscito dal letargo, come emerso nell’ultimo Festival di Karlovy Vary. “Drammedie” come Kobry a Užovky e Domácí péče, così come il documentario Mallory, sembrano avere le carte in regola per un rinnovato successo internazionale

Elencare i film cechi che negli ultimi quindici anni hanno avuto un impatto a livello internazionale, sarebbe veramente un’impresa, perché sono pochissimi quelli che hanno lasciato veramente il segno oltreconfine.

I tempi in cui le pellicole ceche suscitavano commozione nel grande pubblico o vincevano premi in festival internazionali sono lontani; l’ultima pellicola ceca a essere nominata per l’Oscar come Miglior film straniero risale al 2003, l’anno dell’avvincente film storico “Želary”, diretto da Ondřej Trojan.

Tuttavia, a giudicare dai titoli presentati al Festival di Karlovy Vary di quest’anno, la cinematografia nazionale risulta ultimamente corroborata dall’uscita di una serie di film originali e accattivanti.

Parliamo in primo luogo di “Kobry a užovky” di Jan Prušinovský, protagonisti i due fratelli oggi più conosciuti del grande schermo ceco, Matěj e Kryštof Hádek, una “drammedia” focalizzata sul rapporto difficile proprio tra due fratelli. Ma è opportuno fare cenno anche a Domácí péče, del regista esordiente Slávek Horák, e al documentario Mallory, diretto da Helena Třeštíková. Tutti e tre hanno vinto premi importanti a Karlovy Vary, e bisogna evidenziare che raramente c’è stata una così grande presenza ceca fra i vincitori della rassegna più importante dell’Europa centrale. Circostanza che fa ben sperare.

Fra le tre opere premiate, Domácí péče, distribuito all’estero con il titolo Home care, potrebbe essere considerata quella meno riuscita. Come Kobry a užovky, è un ritorno ad un genere verso cui i cechi hanno sempre avuto l’approccio vincente, la “drammedia”, ossia un lungometraggio con un equilibrio di elementi comici e drammatici, proprio come i classici di Jiří Menzel e più recentemente di Jan Svěrák. Ma i paragoni con le opere di questi ultimi non finiscono qui. Il primo film del regista Slávek Horák, classe 1975 di Zlín, è notevole anche per l’ambientazione. Essendo stato girato principalmente a Napajedla, una città della Moravia meridionale nella regione di Zlín, rappresenta un ritorno ai ritratti quasi “hrabaliani” della vita quotidiana dei villaggi cechi, la dolce periferia che i cineasti del passato avevano scelto come sfondo di opere memorabili. Il suo punto di forza è senza dubbio la recitazione della protagonista, la meravigliosa Alena Mihulová, vincitrice del premio come miglior attrice a Karlovy Vary per la sua interpretazione di Vlasta, una donna di mezza età alle prese con l’improvvisa malattia; nonostante gli anni di esperienza come badante di persone in situazioni simili, fa fatica a mantenere stabilità nella sua vita. Con un marito disinteressato, interpretato da Bolek Polívka – che porta la dose giusta di comicità necessaria al ruolo, ed una figlia con cui è raramente in contatto, Vlasta è costretta a cercare un modo per mettersi il cuore in pace da sola, frequentando lezioni di danza con Mlada (Tatiana Vilhelmová) e sessioni con un guru slovacco. Horák, il quale fino a questo film aveva diretto solo spot pubblicitari, ha basato la trama ed il copione sull’esperienza di sua madre come badante per raccontare questo viaggio di una donna alla scoperta di se stessa.

Gli argomenti che toccano religione, medicina e la relazione fra l’anima e il corpo vengono semplificati in un modo eccessivo; il regista incorpora tutti questi elementi senza mai scendere sotto la superficie. Se c’è una cosa che salva il film sono i tocchi di umorismo pungente, spesso forniti da Polívka, ma anche i momenti di black humour come la scena in cui Vlasta cade in una tomba mentre vediamo un corteo che si avvicina. Se la parte drammatica non funziona completante, è la commedia che mantiene viva l’attenzione dello spettatore.

Se Domácí péče è solo parzialmente riuscito, Kobry a užovky, che sarà distribuito all’estero con il titolo The Snake Brothers, è un’opera che riesce a centrare quasi tutti gli obiettivi. Ambientato in una cittadina boema (girato a Kralupy nad Vltavou nel distretto di Mělník), il film di Jan Prušinovský, un regista più conosciuto per il suo lavoro per la televisione ceca, potrebbe essere considerato un dramma realista, con elementi comici ma con una autenticità vista in pochi lungometraggi cechi recenti. Questo è dovuto anche alle magistrali interpretazioni dei due fratelli Hádek, che compaiono insieme per la prima volta sullo schermo e lo animano con la rappresentazione di un complicato rapporto fraterno. È stato il fratello minore, Kryštof, a ricevere le lodi e farsi consegnare il premio di Miglior attore a Karlovy Vary per la sua interpretazione di “Kobra”, un drogato che finisce sempre nei guai con le forze dell’ordine, mentre tocca al fratello maggiore “Vipera” (Matěj Hádek) soccorrerlo. A Vipera, un forte bevitore, stanco di tirare sempre fuori dai guai Kobra, arriva però una buona opportunità di affari che migliora la sua vita. Quando le infrazioni del fratello ricominciano a gettare un’ombra su quello che fa, Vipera è costretto a prendere decisioni che segneranno il destino della famiglia, essendo diviso fra i suoi doveri fraterni e le sue ambizioni lavorative.

Non si può negare il fatto che Kryštof rubi il palcoscenico dalla prima scena in cui lo vediamo andare in giro in pieno giorno con un paio di tronchesi enormi per i bulloni, che usa per scassinare porte ed entrare nelle case per rubare qualunque cosa trovi. È il personaggio più divertente e vistoso, quello che dà un’anima al film. Detto ciò, Matěj Hádek (classe ‘75) non impressiona di meno. Dopo la sua partecipazione a Pohádkář, biglietto da visita cinematografico per Eva Herzigová e pellicola piuttosto scadente, Hádek è tornato in auge con il ruolo nei panni di Jan Hus per la televisione e ora con questo gioiellino, in cui offre un’ottima prova drammatica. Kobry a užovky ha riscosso grande successo anche presso il pubblico straniero a Karlovy Vary, e tutto ciò nonostante i sottotitoli annacquassero il linguaggio volgare e colorito di Kobra che ha fatto divertire gli spettatori cechi. Forse l’unico passo falso potrebbe essere un finale non all’altezza del resto della pellicola, ma l’opera di Prušinovský dimostra una vitalità che non vedevamo nel cinema ceco da parecchio tempo.

Se i premi dei suddetti film non bastano a convincere i cinici che c’è una nuova onda di talento nell’industria cinematografica, non va dimenticato che anche il Globo di cristallo per il miglior documentario a Karlovy Vary è stato vinto da un titolo ceco. L’opera in questione è Mallory di Helena Třeštíková, un film potente che dà voce ai senza tetto di Praga. Si focalizza sulla donna del titolo, e segue il suo percorso straordinario da ex-eroinodipendente a mamma senza casa che si batte per una vita migliore. La pellicola racconta la sfida della protagonista senza chiedere pietà, e mostra che anche nelle vite più disperate vale la pena aspirare e combattere per un’esistenza migliore. Mallory è stato la ciliegina sulla torta in un festival che promette molto per il futuro del cinema ceco, pronto a far ricredere chi aveva deciso di voltargli le spalle.

di Lawrence Formisano