Suicidatosi per protestare contro l’invasione sovietica, negli anni la figura di Jan Palach ha ispirato più di un musicista italiano
“Quando la piazza fermò la sua vita/sudava sangue la folla ferita/quando la fiamma col suo fumo nero/lasciò la terra e si alzò verso il cielo/quando ciascuno ebbe tinta la mano/quando quel fumo si sparse lontano/Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava”. È al teologo boemo, scomunicato dalla Chiesa cattolica, che Francesco Guccini paragona Jan Palach. Nel gesto compiuto il 16 gennaio del 1969 dal giovane studente di filosofia della Univerzita Karlova di Praga, il cantautore modenese rivede quindi le fiamme a cui il Concilio di Costanza condannò l’“eretico” Hus nel 1415. “Primavera di Praga”, che contiene i versi posti in apertura, è forse la canzone italiana più celebre dedicata alla figura di Jan Palach, e a quanto accaduto nella Capitale dell’allora Cecoslovacchia in quel gennaio del ‘69.
Se la canzone di Guccini è quella più famosa, non è però l’unica. Altri artisti italiani hanno dedicato versi e note al gesto estremo di Palach, compiuto in piazza San Venceslao per protestare contro i carri armati di Mosca che, nell’agosto 1968, soffocarono nel sangue la stagione riformista voluta da Alexander Dubček. La Compagnia dell’anello per esempio, un gruppo vicino al Movimento sociale italiano, tutt’ora attivo, che prende il nome in prestito dall’omonimo romanzo di J.R.R. Tolkien. Nelle sue canzoni celebra ideali e valori considerati di destra, e allo studente cecoslovacco dedica una canzone che reca come titolo il suo nome e cognome.
“Fame, morte, schiavitù: il coraggio nasce a volte così/bandiere rosse su una città e in Occidente c’è solo viltà/Primavera di libertà, carri armati nelle strade”: è in questo modo che descrivono la situazione socio-politica a Praga e al di qua della cortina di ferro. L’invasione sovietica offre loro lo spunto per prendere posizione contro il regime comunista. Un regime che provoca orrore e che fa versare lacrime e spargere fiori sul selciato. Un regime contro cui “solo un uomo” si ribella; immagine, questa, posta in contrapposizione con le “strade vuote”. “È morto sotto i carri armati il futuro che avete sognato/ nella gola vi hanno cacciato le grida di un corpo straziato”.
Sempre a destra, politicamente parlando, si pone il cantautore di rock “identitario” (come lo definisce lui) Skoll. Nella sua “Le fate di Praga” si sofferma soprattutto sulle ragazze praghesi – che identifica come “le fate” – sui loro occhi profondi e di come essi profumino di libertà: “Le fate danzano intorno a Ian!/E quelle fate cantano insieme a Ian!/Le nostre fate pregano insieme a Ian!/Ian è un segno che non passerà, Ian ha il profumo della primavera, la primavera!”.
Skoll tra l’altro è un buon esempio di artista che ha dedicato versi e note alla figura di Jan Palach nonostante non abbia vissuto gli avvenimenti del ‘69 da contemporaneo. Avrà letto qualcosa nei libri di storia o magari sarà rimasto affascinato dai racconti di chi, all’epoca, c’era. Vi sono poi quegli artisti che, in quell’anno, erano troppo piccoli per ricordare. Prendiamo i Litfiba, il gruppo rock dalla storia più che trentennale originario di Firenze. Piero Pelù, il loro cantante e autore dei testi, non aveva neanche sette anni quando lo studente praghese si suicidò.
Eppure, in “A Satana”, afferma: “La torcia di Palach a nulla è servita”. Chiaro il riferimento alle parole rinvenute nei suoi diari: “Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1 è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana”. Sembra che esistesse un’organizzazione composta da diverse persone pronte ad immolarsi per la causa della libertà, anche se non n’è mai stata rinvenuta alcuna traccia. È vero però che almeno altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita. Continua la canzone: “Satana padrone/è a capo del suo carro di teste umane/Non c’è guerra senza odio/Non c’è guerra senza affari”.
Ancora più giovani dei Litfiba sono gli abruzzesi Management del dolore post-operatorio, un gruppo attivo dal 2006. “Norman/Primavera a Praga/il fuoco di Jan Palach te lo ricordi?” chiede la voce narrante a Norman Zarcone, nell’omonima “Norman”. Zarcone è, o meglio era, un giovane ricercatore universitario di 27 anni, morto suicida nel 2010 come Palach, non dandosi fuoco bensì gettandosi dal settimo piano dell’Università di Lettere e Filosofia di Palermo. Fu il suo modo di protestare, di scuotere un sistema marcio dominato dalle baronie. Un gesto per niente fine a sé stesso, come quello di Palach che provò a scuotere i suoi connazionali. “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo” scriveva nei suoi diari.
Composta dall’ormai scomparso Giampaolo Coral ed eseguita il 7.12.1970, in prima assoluta, dalla Städtisches Orchester Gelsenkirchen di Germania, “Requiem per Jan Palach e altri” chiude idealmente questa panoramica dedicata a Jan Palach nella musica italiana e/o cantata in italiano.
“Mourir dans tes bras” non sarà scritta nella lingua di Dante, ma nelle vene del suo autore scorre (anche) sangue italiano. Parliamo di Salvatore Adamo, cantautore italo-belga che, al giovane Palach, dedica appunto “Morire nelle tue braccia”. “C’è chi muore in primavera come una torcia, sbarrando la strada per un istante ai carri armati” è il verso che fa riferimento al grido disperato lanciato in piazza San Venceslao. Grido che poi si spense di lì a tre giorni di agonia – cosciente, nei quali spiegò ai medici le ragioni dietro il suo gesto – in ospedale.
E rimanendo in tema di musica straniera, anche i Kasabian, gruppo inglese attivo dal 1997 ma che ha pubblicato il proprio esordio nel 2004, ha dedicato una canzone allo studente cecoslovacco. Il titolo è “Club foot” e si tratta del primo singolo estratto dal loro primo album. Il video che l’accompagna – oltre a una foto in bianco e nero di Palach sul vetro di una cabina di regia – è un insieme di immagini che fa riferimento all’invasione da parte di Mosca, non della Cecoslovacchia, bensì dell’Ungheria. Succedeva dodici anni prima, nel 1956: cambiavano il contesto nazionale e gli interpreti da una parte e dall’altra (Imre Nagy, leader ungherese, invece di Dubček; Nikita Chruščëv, leader dell’URSS, al posto di Leonid Brežnev), solo una cosa rimaneva costante: il carattere illiberale del colosso sovietico.
di Christian Gargiulo