Alfonso Modonesi e il racconto del suo viaggio in Cecoslovacchia con Carlo Leidi all’inizio della normalizzazione
“Appena superato il confine cecoslovacco, pensavamo di trovare russi dappertutto, nelle vie, negli uffici, nei palazzi di Praga. Invece niente. Molti controlli alla frontiera con l’Austria, qualche scritta in cirillico. Ma dopo, il nulla… Un silenzio a metà fra l’inquietante e il discreto: i russi, in realtà, c’erano eccome. Non si sa se per astuzia o per necessità logistiche, erano acquartierati nei dintorni della capitale”.
A raccontarlo è Alfonso Modonesi, 80 anni, fotografo italiano della Praga del 1968 – “dell’Autunno, non della Primavera” ci tiene a precisare – ma anche del Maggio francese e di cento altri grandi servizi.
In quella occasione, giunse nella Cecoslovacchia occupata due mesi prima dai soldati sovietici, e insieme a lui c’era Carlo Leidi, il grande notaio bergamasco, viaggiatore-pensatore-mecenate scomparso qualche anno fa, che con Modonesi divise lo storico reportage fotografico dell’ottobre ‘68.
L’Istituto Italiano di Cultura di Praga li ha celebrati entrambi, con una mostra di grande richiamo, organizzata nel 2018 in occasione del cinquantesimo anniversario degli storici e drammatici eventi che si svolsero nella Cecoslovacchia del 1968. L’esposizione – allestita nei prestigiosi spazi della Cappella barocca e della Sala capitolare – comprende anche gli scatti del fotografo ceco Pavel Šticha e dello svedese Sune Jonsson.
- Come nacque l’idea di quella trasferta praghese?
“Tutto si svolse in modo semplice” spiega Modonesi. “Andammo a proporre l’idea a Tommaso Giglio, direttore dell’Europeo, il settimanale con il quale collaboravo. Giglio era un comunista atipico, veniva dall’Unità ma era uscito dal Pci dopo i fatti d’Ungheria del ‘56. Inizialmente reagì con titubanza, l’invasione sovietica si era svolta in agosto, quindi la Cecoslovacchia era ormai avviata verso il destino della normalizzazione. Poi però anche Giglio capì l’importanza di raccontare quello che stava accadendo e l’atmosfera che si respirava in città”.
- Come riusciste ad ottenere il visto di ingresso?
“Il motivo ufficiale della nostra visita era il cinquantenario della nascita della Repubblica cecoslovacca, il 28 ottobre del 1968. Formalmente quindi arrivammo quasi come semplici turisti. Io fotografavo per l’Europeo, mentre il mio amico Carlo Leidi collaborava con la rivista Historia. Carlo in quel periodo era iscritto al Partito comunista italiano e devo dire che, nonostante fosse un eccellente fotografo, nel venire a Praga aveva soprattutto un interesse politico, intendeva capire cosa stava succedendo, quali opinioni aveva la gente”.
Una strana coppia di “turisti”, insomma, per un paese ancora in ebollizione: il cattolico di sinistra e il comunista “atipico”, due bergamaschi a recuperare le tracce di un evento che lascerà il segno nella storia d’Europa.
A Praga la “normalizzazione” di Husák doveva ancora arrivare, ma i segnali di ritorno all’allineamento e all’ortodossia sovietica si moltiplicavano: “Il paradosso che ci colpì – continua Modonesi – era soprattutto l’atmosfera della città magica. Ci aspettavamo un centro devastato, palazzi sbrecciati, case messe a fuoco, sbarramenti e filo spinato dappertutto. Ad eccezione di qualche palazzo colpito dai proiettili, come la sede del Museo nazionale sulla Piazza Venceslao, a ben vedere non c’era niente di tutto questo: i cechi avevano reagito con un assordante silenzio all’invasione sovietica e dei paesi fratelli, come si facevano chiamare”.
Le foto del duo Leidi-Modonesi fecero il giro del mondo ed ebbero un grande effetto: “Carlo e io eravamo dilettanti fortunati – spiega l’artista – cresciuti con il mito della “immagine raccontata”, del giornalismo “lento” di “Life”. Belle storie di uomini, di personaggi. E ci trovavamo accanto mostri della professione come Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, lo stesso Gianfranco Moroldo. Per i settimanali come l’Europeo andava bene, il giornale era nato proprio per i lunghi reportage, i fotografi (parlo di mezzo secolo fa) in redazione avevano lo stesso rispetto, la stessa considerazione dei giornalisti. Potevo scambiare opinioni e magari scontrarmi con Enzo Biagi, con Guido Gerosa, con Giancarlo Fusco: e questo succedeva da pari a pari, si lavorava insieme con grande spirito di collaborazione. Una cosa oggi francamente inconcepibile”.
Poi, l’incontro con la realtà praghese: “Volevamo a tutti i costi incontrare Alexander Dubček, il leader “decaduto”. ma non ci fu verso in quei dieci giorni del nostro soggiorno. E dire che la nostra interprete-guida, Jitka, era un personaggio conosciuto in quella Praga infuocata: era stata nazionale di pallacanestro, capiva il russo e il tedesco. Incontrammo invece Josef Smrkovský, che sembrava il più “rivoluzionario” di tutti. Non fu possibile incontrare il presidente cecoslovacco Ludvík Svoboda, che avevamo cercato di contattare attraverso una conoscenza di Carlo. E tanto meno riuscimmo a intercettare Dubček, che era assolutamente irraggiungibile, come se una barriera lo separasse dal resto del mondo”.
- Non si sentiva la gravità del momento, la tensione nei vostri interlocutori?
“Sì e no. Era questo il paradosso, una cosa surreale. Succedeva che la polizia ti fermava e ti interrogava per tre ore solo per aver scattato una foto “sconveniente”, magari di un soldato nel centro, in Piazza San Venceslao. Poi però potevi tranquillamente girare per le campagne, per le cooperative agricole, e i contadini, e gli operai ti dicevano di essere tutti per Dubček, per il governo della Primavera: quella cecoslovacca fu l’ultima rivoluzione “a favore del governo”, non contro” ricorda Modonesi.
“Forse, visto che eravamo ad ottobre del ‘68, la “normalizzazione” non si era ancora del tutto realizzata, e gli stessi sovietici dovevano prendere il polso esatto della situazione. Andammo anche alla Čkd, la fabbrica dove nei giorni della invasione sovietica si svolse il XIV congresso clandestino del Partito comunista cecoslovacco. Le foto riuscimmo a farle arrivare in Italia grazie al personale dell’Alitalia, che non veniva perquisito e al quale affidammo così i nostri rullini”.
- Incontraste Josef Koudelka, il fotografo ceco diventato celebre proprio per le foto dei carri armati sovietici nelle strade di Praga?
“Non durante quella nostra visita dell’ottobre del 1968, ma Koudelka non era per noi uno sconosciuto. Avemmo modo di conoscerlo in precedenza, quando la nostra città, Bergamo, organizzò una mostra di fotografia internazionale, “Europa 1968”. E fu proprio quel giovanissimo fotografo cecoslovacco, ad aggiudicarsi il primo premio per un suo reportage realizzato presso le comunità rom della Slovacchia. Diciamo la verità: Koudelka nei giorni della invasione aveva fatto il lavoro per tutti. Nell’agosto del ‘68, checchè se ne sia detto dopo, i giornalisti e i fotografi occidentali sul posto erano pochissimi. Fra gli italiani, forse solo Enzo Bettiza, Lino Jannuzzi e il corrispondente de “l’Unità” erano lì al momento dell’arrivo dei carri armati. Quindi tutti, per forza di cose, utilizzarono i suoi scatti, che in quei giorni erano firmati dal solo pseudonimo P.P., “Prague Photographer”. Koudelka era un maestro nel raccontare per immagini, aveva il senso del grande reportage. In quella occasione lo aveva fatto all’improvviso, spinto dalla sensibilità per un evento irripetibile. Anche Carlo Leidi lo guardava ammirato”.
- Lei fu anche testimone di un altro ‘68, quello del Maggio francese…
“Le due rivoluzioni non avevano niente in comune. Chi le ha paragonate ha compiuto una grande mistificazione – ci tiene a precisare Modonesi – il Maggio parigino fu sostanzialmente una rivoluzione “borghese”. fatta da studenti universitari e intellettuali. Infatti la Francia profonda, la Francia vera, non la capì, quasi la rimosse dopo breve tempo. A Praga e dintorni, c’erano stati sì anche gli intellettuali, le riviste colte. Ma presto la Primavera divenne un movimento di popolo, di gente comune. Potevi intervistare un cittadino qualsiasi: dicevano tutti le stesse cose: “Vogliamo un socialismo dal volto umano, non siamo contro i russi. Vogliamo le riforme nell’economia, l’abolizione della censura, libertà di viaggiare all’estero. Ma siamo e restiamo comunisti. Carlo era stupito e indignato: come si poteva schiacciare una protesta così ordinata? Quella esperienza a Praga fu decisiva per le scelte politiche che lo portarono dopo qualche mese a uscire dal Partito Comunista e fondare il Manifesto”.
- Vi capitò di incontrare dei collaborazionisti, cechi schierati con i russi?
“Le cose erano abbastanza sfumate. C’era la possibilità di parlare con loro nella televisione già “normalizzata”, ma Carlo rifiutò disgustato. Gli unici collaboranti attivi erano dei funzionari tedeschi della Ddr. Li incontravamo negli uffici, negli alberghi, li vedevamo dappertutto. Sembravano scandalizzati dalla situazione, l’interprete Jitka ci tradusse i loro discorsi. Più ortodossi degli stessi invasori russi: non riuscivo a capire. Anni dopo andai nella Ddr e iniziai a comprendere. C’era ancora un clima marziale, Berlino Est era ancora costellata di ruderi della Seconda guerra mondiale. Un’atmosfera plumbea, pesante per tutti, che spiegava molte cose”.
- Tornaste nella Praga magica?
“Più volte, soprattutto Carlo. Lui anche pochi mesi dopo. Era il gennaio del ‘69, e c’erano stati i funerali di Jan Palach, quella processione dignitosa e lunghissima nel centro della capitale, la fuga degli intellettuali, un clima pesantissimo. Poi altre volte, Carlo ne scrisse per Il Manifesto. Io, invece, andai solo dopo la caduta del regime di Husák. Il lungo inverno della repressione aveva preparato i fiori della libertà. Ma i semi di quei fiori, sono certo, erano sempre quelli della Primavera ‘68”.
di Ernesto Massimetti