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Costruiti metri e metri sottoterra, i bunker antiatomici testimoniano l’ossessione comunista per un attacco nucleare da parte dei Paesi capitalisti durante gli anni più cupi della guerra fredda

Nella sola Praga ne furono costruiti all’incirca 800. Oggi è possibile visitarne due, uno nel quartiere di Žižkov e l’altro al di sotto del Grand Hotel Jalta

L’apertura del massiccio portone prepara i turisti alla discesa. Quattro tonnellate di ferro si frappongono tra il presente e la Storia. L’atmosfera umida del bunker immerge in un’altra dimensione temporale. Scalino dopo scalino, metro dopo metro, le lancette dell’orologio girano all’indietro. Duemila e quattordici, millenovecentonovantanove, millenovecentottantanove, millenovecentosessantotto, millenovecentocinquanta. Si fermano quando si raggiungono i sedici metri di profondità. Laggiù, sembra di respirare la stessa aria di paranoia che avvolgeva la Cecoslovacchia durante la guerra fredda.

“Il regime comunista si sentiva continuamente minacciato da un attacco nucleare occidentale. Falsi allarmi ed esercitazioni con le maschere antigas e i completi antiatomici divennero parte integrante della vita quotidiana di allora”, racconta Ivan Gálik, di professione guida turistica. Bisognava esser pronti, evitare di farsi trovare impreparati. La costruzione di rifugi antiatomici rientrava in questa strategia difensiva.

Quartiere Žižkov, collina Parukářka. È qui che, nei lontani anni ‘50, fu scavato l’omonimo bunker. In realtà ne fu costruito qualcuno in più: alcune stime parlano di circa 800 rifugi disseminati in tutta l’area cittadina. Quello in questione però ha superato indenne lo scorrere degli anni e l’azione dei vandali, e oggi è diventato il pezzo forte del Communism and Nuclear Bunker Tour. Dal 2011 Ivan Gálik termina qui i suoi tour alla testa di turisti desiderosi di compiere un salto a ritroso nel tempo. “L’attrezzatura presente – racconta – è tutta autentica, e i tunnel sono nella loro forma originale, compresi bagni e luci. Non è stato ricostruito nulla: questo bunker è stato mantenuto nelle sue condizioni originali per più di due decenni”.

I visitatori sono assaliti dal passato. Foto d’epoca, soprattutto ritratti, fanno bella mostra di sé: i leader della rivoluzione cubana Fidel Castro e Che Guevara e il vietnamita Ho Chi Minh tra gli altri; cartelloni di propaganda in stile sovietico. E poi: libri che spiegano come costruirsi, a casa propria, un bunker antiatomico; una sfilza di manichini con addosso abiti anticontaminazione oppure maschere antigas, di ogni forma e colore, provenienti direttamente dagli anni ‘60; quattro missili ancora carichi, con un convincente cartellino appiccicato sopra uno di essi: “Do not touch”; armi varie. Questa memorabilia disposta lungo i corridoi del rifugio aumenta la sensazione di balzo indietro nel tempo. John maneggia con cura un mitra. L’aquila dalla testa bianca raffigurata sulla sua t-shirt e i ray-ban a goccia tradiscono la sua nazionalità. Viene dagli Stati Uniti e ha un passato nell’esercito. Lo si nota dal modo accurato che ha di ispezionare l’arma. È pronto a far scattare il meccanismo di rinculo quando chiede a Ivan: “Spara ancora?”. “Certo”, risponde la guida, “hai bisogno solo dei proiettili”.
Da rifugio contro eventuali attacchi atomici da parte dei “cattivi” capitalisti ad attrazione per quegli stessi capitalisti. Il destino a volte è ironico. Mentre turisti da tutti il mondo, in larghissima maggioranza, premiano il tour di Gálik con recensioni positive su Tripadvisor, la maggior parte dei cechi sembra volersi lasciare alle spalle il proprio passato. “Le vecchie generazioni preferiscono dimenticare, mentre le nuove che non lo hanno vissuto non sono interessate” commenta la guida. C’è poi chi, a questo passato sinonimo di casa e lavoro per tutti, guarda con nostalgia. Chiude gli occhi e ripensa a quando la Škoda era ceco(slovacca). Li riapre, e si intristisce a pensarla in mano ai tedeschi. E allora vota gli eredi dei comunisti di allora, il KSČM, scopertosi alle politiche del 2013 terza forza del Paese (quasi il 15% dei consensi e 33 seggi, conquistati soprattutto fuori Praga). Nostalgia canaglia, direbbero Albano e Romina.

“È proprio la nostalgia a spingere una buona parte dei nostri visitatori quaggiù. Soprattutto chi, quel periodo storico, lo ha vissuto in prima persona” afferma David , ultimo anno di liceo e una grande passione per la Storia. Guida i turisti di lingua anglofona nel bunker costruito al di sotto dell’hotel Jalta, nella centrale piazza Venceslao. “Ma c’è anche l’appassionato che vuole farsi un’idea di come poteva essere la vita durante il regime comunista”. Sono solo stranieri? “Anche cechi” aggiunge il suo superiore, Jiří, il vero esperto di questo rifugio antiatomico che, in caso di attacco nucleare, avrebbe ospitato il quartier generale del Patto di Varsavia, per un massimo di 150 persone. E mentre lo dice, Karel, 23 anni, studente universitario e “anticomunista convinto”, sembra quasi imprecare mentre passa davanti al ritratto di Antonín Zápotocký, presidente della Cecoslovacchia comunista tra il 1953 e il 1957. “Roba da non credere – esclama incredulo – i miei genitori sono cresciuti in un Paese che non permetteva loro di manifestare, di esprimere le loro opinioni. Di votare!”.

È in quel Paese che, nel lontano 1957, veniva completata la costruzione dell’Hotel, destinato a dare alloggio agli stranieri in transito per Praga, e in realtà centro di ascolto delle loro conversazioni. “In base alla loro importanza, venivano assegnati a una determinata stanza. Ve ne erano di tre tipi: quelle rosse, per gli ospiti di massima importanza, gialle per quelli di importanza media, e verde per quelli di importanza minore” ci spiega Jiří indicandoci una mappa che ne riproduce una d’epoca, con le stanze contrassegnate dai tre colori. Ogni conversazione telefonica era sotto controllo. Non solo, perché anche nelle stanze vi potevano essere cimici nascoste, come per esempio quelle nel manico di legno delle spazzole”. Niente sfuggiva alle attente orecchie della polizia comunista.

I visitatori odierni hanno accesso solo a una piccola parte, meno della metà, di quel che in realtà fu costruito al di sotto dello Jalta. Un po’ come se di una torta succulenta, ve ne dessero solo un assaggio. Tanto basta però per apprezzare i condotti di areazione che, spiega David, “avrebbero garantito un periodo di permanenza di due settimane, il tempo stimato perché le radiazioni si diradassero”. Diverse stanze sono allestite con manichini e riproduzioni di pezzi originali per dare un’idea di come fosse organizzato il bunker. E, in quella che era l’infermeria, una delle uscite di sicurezza: se usata in caso di pericolo, avrebbe condotto all’esterno, in piazza Venceslao, all’epoca non ancora diventata quel grande centro commerciale come appare oggi.
Fu qui, dal balcone di palazzo Melantrich, che avvenne l’evento culmine della Rivoluzione di velluto di cui proprio quest’anno ricorre il 25esimo anniversario. Václav Havel, futuro primo presidente della Cecoslovacchia liberata, e Alexander Dubček, il leader comunista dal volto umano, annunciarono la fine del regime filosovietico alla numerosa folla radunata. Palazzo Melantrich è nel frattempo cambiato. Non nell’estetica, a parte gli ovvi segni del tempo, quanto nella sostanza. Se ieri le sue mura ospitavano una casa editrice, oggi accolgono appartamenti da affittare, uffici e negozi vari, tra cui uno della catena britannica Marks & Spencer. Si direbbe “È il capitalismo, bellezza”, prendendo a prestito la celebre frase che Humprey Bogart esclama nel film “L’ultima minaccia”.

Prima di provare l’emozione dei bunker, il consiglio è d’immergersi nelle strade di Praga e provare a rivivere quel tempo. Non è facile, soprattutto se si guarda alla città con occhio giovane e straniero. Ivan ci prova. Tutto parte da Na Perštýně. Qui aveva sede la temibile polizia di regime, la Státní bezpečnost (StB), l’equivalente cecoslovacco del Kgb sovietico. Lì vicino, a Bartolomějská, sorge poi l’Hotel Unitas, nel cui piano interrato furono allestite le prigioni in cui rinchiudere i dissidenti politici, come capitò anche al giovane Václav Havel. A Národní invece è stata montata una targa in bronzo, sormontata da mani con l’indice e il medio a formare una V, il simbolo della vittoria, e recante una data in bella evidenza, 17.11.1989. Ricorda la protesta di quel giorno, contro le violazioni dei diritti umani e civili. Una protesta, pacifica, brutalmente repressa. “Ogni anno, il giorno dell’anniversario, questo punto si riempie di lumini, come potete osservare dai residui di cera”, racconta Ivan mostrando la pavimentazione. Lumini accesi per ricordare, magari accompagnati da fiori: succede anche dinanzi alla croce ai piedi del Museo nazionale, adagiata orizzontalmente e tutt’uno con i sanpietrini. È dedicata alla memoria del ventunenne Jan Palach. “Non fu l’unico a compiere quel gesto estremo. Almeno altri sette studenti seguirono il suo esempio, tra cui il suo amico Jan Zajíc” aggiunge Ivan. Nel più completo silenzio da parte dei mezzi di informazione.

di Christian Gargiulo