In Moravia, dove 30 mila anni fa viveva la civiltà paleolitica, si trova oggi un avveniristico archeopark. Viaggio nella storia, con la celebre Venere e un’architettura d’avanguardia
Latitudine Nord: 48 gradi, 52 primi e 38 secondi. Longitudine est: 16 gradi, 40 primi e 29 secondi. Sono queste le coordinate esatte di un sito unico al mondo, da cui scoprire parte delle origini della civiltà. Se vengono inserite in un dispositivo geolocalizzato, il marcatore apparirà magicamente in Moravia del sud, tra la città di Brno ed il confine austriaco. Volendo essere più precisi, vi condurrà all’Archeopark di Pavlov. La zona è quella dell’area naturale protetta di Pálava, sulle rive di un grande bacino formato dalle acque del fiume Thaya, un affluente della Moldava. Meno di tre chilometri più a ovest troviamo il comune di Dolní Věstonice, un sito di interesse archeologico di caratura mondiale.
L’Archeopark è custode di parte della storia umana, della vita animale e del corso degli eventi che questo pianeta ha vissuto negli ultimi trentamila anni, a partire, cioè, dal periodo conosciuto come Paleolitico superiore, in cui esseri umani già morfologicamente evoluti, gli homo sapiens, si spostarono in tutto il pianeta. Ma prima di scoprire ciò che la zona conserva bisogna conoscere il passato del sito, con le sue sfortune e fortune, ambientato in un’epoca recente.
Fin dalla seconda metà del ‘600 furono qui segnalati diversi ritrovamenti di antichi reperti e manufatti, in un terreno ideale per l’agricoltura e l’allevamento. La destinazione di questi oggetti, testimonianza di una arcaica civiltà, erano quasi sempre collezioni private di facoltosi aristocratici, che li acquistavano senza però classificarli e catalogarli.
Nei primi anni del ‘900 le cose cambiarono. Il professor Karel Absolon, creatore della Fondazione Paleontologica Morava, iniziò i suoi scavi sul territorio con un approccio differente: il suo desiderio era quello di trovare per ricostruire, ricomporre e portare alla luce il vissuto di questo posto, conoscere i motivi della intensa presenza di fossili e manufatti. I ritrovamenti – su iniziativa dello stesso Absolon – diedero vita nel 1928 a una esposizione chiamata “Anthropos”, che attirò l’attenzione sull’antica civiltà di Pálava non solo di altri ricercatori e studiosi, ma dell’opinione pubblica nel suo complesso.
La storia racconta fatti paralleli, e quando si arrivò all’occupazione tedesca, anche i nazisti conobbero l’importanza di Dolní Věstonice e di Pavlov, inviando un team di archeologi pronti a proseguire le ricerche. Gli scavi proseguivano, i ritrovamenti aumentavano e la collezione di Brno, città capoluogo, si ampliava, mentre altri pezzi unici invece venivano conservati nel castello di Mikulov. Quando però il conflitto volse al termine, e la liberazione dal nazismo diventò realtà, il castello pagò caro il prezzo della libertà, venendo coinvolto in un incendio. Vennero persi alcuni reperti, ma fortunatamente il lavoro minuzioso dei team di ricerca ha permesso di ritrovare tutte le scoperte catalogate, con descrizioni e immagini, permettendo alla tecnologia odierna di realizzare copie esattamente identiche.
Dopo la guerra il sito restò sempre al centro dell’attenzione e le ricerche passarono all’Istituto Archeologico, in seguito inglobato dall’Accademia delle Scienze cecoslovacca. Nel 1995 diverse aree vennero riaperte agli scavi, dato che lo sviluppo tecnologico permetteva indagini più accurate ed approfondite. I ritrovamenti proseguirono, le esposizioni a Mikulov e Brno anche, ma il desiderio divenne quello di dare vitalità proprio alla zona dove adesso sorge il parco.
Ed eccoci ai primi anni di questo nuovo millennio, quando nasce l’idea di una esposizione museale da realizzare proprio nel sottosuolo, una idea incredibile che ha consentito nel 2016 l’apertura al pubblico dell’Archeopark di Pavlov. La struttura, frutto di uno scavo, si presenta avveniristica, nel massimo rispetto dell’ambiente circostante. Dominato dalle rovine del castello di Děvičky, imponenti sulla collina antistante, il museo visto dall’esterno presenta solo alcuni edifici dall’architettura particolare. Una volta entrati nel museo, è un po’ come se gli scavi dessero il benvenuto al visitatore, accogliendolo nella macchina del tempo e proiettandolo indietro di decine di migliaia di anni, al tempo in cui da queste parti vivevano i cacciatori di mammut.
Nell’ampio spazio si nota l’attenzione ai dettagli durante la costruzione. Quelli che da fuori appaiono come comignoli sono in realtà spiragli da dove la luce entra e illumina le diverse teche presenti. Custode di oggetti e di storia, la galleria rivela tutto il vissuto del luogo. Sono presenti pezzi originali, ma anche riproduzioni, perché alcuni reperti si deteriorerebbero troppo se esposti all’aria e alla luce, ma quasi non ci si accorge della differenza.
Giunti all’interno dello spazio espositivo, una domanda può sorgere spontanea: perché, 30 mila anni fa, un gruppo di umani si insediò proprio in questa zona? Lo fecero perché qui trovarono acqua, riparo e molta fauna da cacciare. Sono presenti infatti diversi oggetti che venivano usati per catturare gli animali. Vi erano bisonti, orsi, renne, tigri e rinoceronti. Ma il ritrovamento più sensazionale è arrivato proprio durante gli scavi per la costruzione: lungo il muro al lato opposto dell’ingresso furono ritrovate tibie, tronco e peroni di grosse dimensioni. La storia narra che ritrovamenti del genere avvennero già in passato, e queste grandi ossa diedero vita a leggende su questo luogo, raccontato come tana e patria dei giganti. Ma con i metodi e le esperienze odierne non vi fu spazio per alcun dubbio: quelle ritrovate erano ossa di mammut. I grossi animali proboscidati dalle lunghe zanne e il folto pelo che si estinsero circa 4mila anni fa condivisero dunque questo luogo nel sud della Moravia con i gruppi di homo sapiens lì residenti. Il ritrovamento di questi resti spinse i responsabili del parco ad inglobare questa scoperta al resto della galleria, creando una stanza aggiuntiva dedicata a proteggere e rendere visibili gli scavi, mantenendoli in tal modo vivi e reali. Si può notare la struttura di contenimento ed il lavoro degli archeologi, che si sposano bene con fossili e reperti paleolitici. La stanza conserva un clima adatto a mantenere i ritrovamenti nelle migliori condizioni possibili, con una temperatura controllata che non supera i 15 gradi ed un tasso di umidità pari al 95%. Il connubio fra antichità, scienza, tecnologia e comunicazione è sfruttato al massimo, grazie anche ad un gioco di luci utile a lasciare lo scavo al buio per tutto il tempo necessario. La cura con cui lo studio dell’architetto Radko Květ ha realizzato lo spazio museale ha permesso alla struttura di vincere il prestigioso premio Building of the Year 2016, a certificazione dell’attenzione con cui i vari reperti vengono presentati al pubblico.
Lo studio dietro la realizzazione dell’Archeopark ha consentito di esaltare al meglio anche uno dei pezzi più importanti dell’intera mostra: la “Venere di Věstonice”. A Pavlov è possibile vedere solo una copia, perché l’originale è protetto e visibile da parte del pubblico solo saltuariamente. Originale o copia, ad ogni modo, quando si guarda questa piccola statua raffigurante una donna nuda si ha l’impressione di essere davanti ad un oggetto ancora vivo, ancora usato, nonostante risalga ad un’epoca lontana dai 29 ai 25mila anni fa. Questa scultura, trovata nel 1925 spaccata in due parti e poi ricomposta, ha impressa un’impronta digitale (visibile solo attraverso analisi specifiche) di un bambino che si stima possa avere avuto tra i 7 e i 15 anni, vissuto proprio durante il Paleolitico superiore. Ma la cosa davvero incredibile è che la Venere è il più antico manufatto in ceramica, ritrovato fino ad ora, nella storia dell’umanità. Ciò vuol dire che di quel materiale non si può ammirare al mondo forma più vecchia: un insieme di storia, archeologia, arte e design unico, ammirabile esclusivamente qui.
Oltre alle sue punte di diamante – e non sono tutte svelate – la galleria ospita molti altri reperti, dedicando uno spazio anche a mostre temporanee, principalmente fotografiche e collegate con il resto dei contenuti. Il tutto è contornato da uno staff disponibile e molto preparato, e da una struttura capace di creare un clima unico a livello emozionale. Un’esposizione completa e moderna, ma vecchia di 30mila anni.
di Mattia D’Arienzo