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Racconto della città del carbone, distrutta e ricostruita, creatura di cemento tra i silenzi del verde e il rombo di un autodromo. E due record particolari

“Scendete a Most, dite? Ma perché andate a Most?”. Siamo sul Regionale 615 per Cheb, partito di sabato mattina dalla stazione centrale di Praga. I convogli sono pieni, molte persone in tenuta sportiva. Si va verso nord-ovest, verso i Monti Metalliferi. La nostra giovane compagna di viaggio è stupita, ma d’altra parte Most non è certo una località nota per il turismo. “Non so dirvi granché”, sorride al nostro incalzare “se non che stanno girando una serie TV ambientata a Most. I protagonisti saranno appassionati di motori – si dice che lì siano tutti un po’ degli appassionati di motori…”, sottolinea a spiegarci la vulgata comune di cui ancora eravamo ignari.

Most, 2017

La stazione dei treni ci accoglie all’insegna della prevedibilità della provincia industriale. Squadrata, grigia, ordinata e poco frequentata. Dal piazzale antistante un ponte sovrasta un ruscello largo non più di quattro metri ed una strada a quattro carreggiate, larga molto di più. A destra si scorge una collina, piccola ma appuntita, dominata da un forte di cui si intravede una larga torre; una cartolina medievale che migliora il panorama. Al di là del ponte inizia la città, fatta per lo più di paneláky, le tipiche costruzioni dell’epoca comunista. Questi edifici squadrati, enormi mattoni lego piazzati con cura e distanze regolari, ospitano l’80% dei 67 mila abitanti di Most. Si tratta di un record: nessun’altra città ha una simile percentuale in Repubblica Ceca, dove comunque quasi un terzo degli abitanti vive in questo tipo di abitazione. Tra queste, lunghi filari d’alberi e molto verde, che scompare raggiungendo il centro: qui è quasi tutto cemento, linee precise, piazze vuote. Il suo essere studiata a tavolino viene promosso con orgoglio da un depliant turistico che ci capita per le mani, gli ampi viali sono definiti “da capitale europea” (sic!) – ma rimane un certo scetticismo. Non si può che fare spallucce: il centro è anonimo, geometrico, sterile, in una parola: brutto. Ma licenziare Most con questo giudizio frettoloso sarebbe un grave errore. Perché la città ai piedi dei Monti Metalliferi ha parecchie storie da raccontare.

Le storie di Most

Cominciamo a scoprirle nel museo cittadino, un vecchio edificio a quattro piani circondato da un ampio giardino. Dopo una scalinata con tappeto di velluto, come se i passi potessero infastidire l’assoluto silenzio, ci accoglie Lucie, la nostra guida. Lucie è giovane, paziente, alta, dai capelli corvini. “Vengono soprattutto scolaresche”, scrolla le spalle alla domanda se fossimo i primi visitatori della giornata. Racconti di vita contadina, un piano intero dedicato ai manufatti locali e ai giocattoli di legno, la stanza arredata della baronessa Ulrike von Levetzow – l’ultima, giovanissima, amante di Goethe, disegni degli alunni della scuola primaria, un’esposizione di geologia. Proprio in quest’ultima, tra minerali e resti fossili, delle fotografie attirano l’attenzione. Raccontano la rivoluzione industriale di queste terre, la scoperta dei ricchi giacimenti di lignite (una tipologia di carbon fossile) e soprattutto i primi incidenti: come la voragine del 1903 che si aprì nei pressi della stazione ferroviaria e che causò tre morti. Perché è il carbone il grande “game changer” della storia di Most, nonché il motivo per cui è difficile vederne oggi le origini medievali. La città è infatti sorta nel decimo secolo sulla via che collega Praga a Freiberg (oggi in Germania), come avamposto sicuro in un territorio paludoso (il suo nome infatti vuol dire “ponte”). Da metà ottocento si cominciò a scavare nei pressi della città e poi sempre più vicino all’abitato, finanche sotto le abitazioni stesse. Dopo quasi mille anni, la terra cominciò a non reggere più la città di Most.

Molte delle foto riportano nomi in tedesco, tra cui quello della città, Brüx (traduzione letterale del nome ceco); incuriositi, lasciando il museo chiediamo quale fosse in questa zona la maggioranza etnica prima della Seconda Guerra Mondiale e Lucie liquida la domanda con un vago “metà e metà”.

Andando poi a spulciare i dati del censimento del 1921, scopriamo che la maggioranza era nettamente tedesca; dei 27mila abitanti del tempo il 62,5% si dichiarò tedesco, il 32,5% ceco. Ci viene dunque il dubbio se il successivo spopolamento e ripopolamento della città a seguito dei decreti Beneš, (quando nel 1945 quasi tutti i tedeschi furono espulsi dal paese), e quindi l’avere una maggioranza degli abitanti non legati storicamente al territorio, non abbia facilitato l’evento più incredibile della città, in procinto di accadere. Negli anni ’60 le autorità comuniste, per venir incontro al problema della città che franava su se stessa, piuttosto che chiudere la miniera decisero di chiudere la città: questa fu quindi demolita, tra il 1965 e il 1970, e ricostruita pochi chilometri a sud-ovest. Gli abitanti furono spostati nei paneláky – ed ecco spiegato il motivo del loro numero fuori dalla norma. Nella distruzione del centro storico, solo un edificio venne risparmiato.

I comunisti proteggono una chiesa

Ed ecco una storia nella storia, dai tratti quasi ironici. I freddi burocrati comunisti decisero di salvare una chiesa. Una grande chiesa gotica del XVI secolo, dedicata all’Assunzione della Vergine Maria. Decidere di non abbatterla, tuttavia, non sarebbe bastato: e quindi la chiesa fu spostata, per più di ottocento metri, nel 1975. Non demolita e ricostruita (avrebbe ridotto di molto il suo valore), bensì trascinata su dei binari: alla velocità di 1-3 centimetri al minuto, dal 30 settembre al 27 ottobre di quell’anno, grazie a 56 locomotive. Anche questo è un record, ed è internazionale. Ad oggi rimane sul libro dei Guinness dei primati come l’edificio più pesante mai trasportato su ruote (12 mila e 700 tonnellate). Per di più quest’anno la chiesa celebra i suoi primi 500 anni, fu fondata infatti nel 1517. Non ci resta che dare un’occhiata.

Si trova non lontano dalla stazione, oltre la grande strada ed il ruscello che la dividono dalla nuova Most. La via che vi conduce è tutto ciò che è rimasto del vecchio centro: pochi passi più in là si stende un grande prato (dov’era la città) che termina dove inizia un lago artificiale (dov’erano i vecchi scavi). L’esterno dell’edificio è austero e semplice; il suo valore storico e architettonico è all’interno. Qui ci accoglie una guida e ci indica il sotterraneo: prima della visita è d’obbligo un video didattico. Nella sala vuota, piccola e buia, parte la proiezione di un video propagandistico girato a fine anni ’80, il racconto del grande progetto per trasportare la chiesa – senza mancare d’incensare le capacità della Cecoslovacchia comunista.

Tornati in superficie, la guida ci aspetta per condurci al centro della navata principale, delle tre di cui è composta la grande chiesa. La prima cosa che salta agli occhi è l’altezza del soffitto, e poi i suoi disegni, le linee che si intrecciano, un senso di vertigine. La nostra guida, un uomo sulla trentina i cui occhi sono ingranditi a dismisura dagli occhiali da vista, snocciola incessante e preciso la storia della chiesa, la fondazione, gli svedesi e la guerra dei trent’anni, i ritratti di San Giovanni Battista, infine il grande processo di spostamento. Minuzia così particolare da dire che la chiesa fu spostata di “circa” 841 metri e dieci centimetri. Saliti in mezzanino, dietro l’organo, un modellino funzionante della chiesa che si sposta sui binari e due bambini che si divertono con le miniature degli operai.

Panorama cittadino

Per concludere la nostra visita di Most, non rimane che una passeggiata fino al Castello di Hněvín, che domina la città. Questo era sorto nel IX secolo, tuttavia raso al suolo nel XVII; l’attuale castello fu costruito tra 1896 e 1900. Prima di raggiungerlo, la sorpresa di un quartiere di grandi ville della borghesia d’inizio secolo, lasciti della Belle Époque nel declino dell’Impero. A metà salita, sotto il cocente sole di fine luglio, torna in mente la calma voce di Lucie che indica in dieci minuti la passeggiata necessaria. Era meglio non darle retta. Tuttavia la sosta ci fa notare un rumore incessante: è l’autodromo cittadino, su cui motori sfrecciano senza sosta. Si trova al di là della collina, e il rombo ci accompagna sino alla sommità. Il castello, rinnovato di recente, è per buona parte adibito a ristorante. Dal torrione si gode in pieno del panorama. I Monti Metalliferi e i Monti della Boemia centrale, l’autodromo, il lago artificiale, la zona industriale, la chiesa, la distesa di paneláky. La sintesi di Most è sotto i nostri occhi. Il grande prato tra la città e l’industria è il segno del tempo e del vuoto che ha lasciato. Di certo è una città in cui le storie si accavallano ed è affascinante scoprirle, ma dove queste non hanno lasciato ricchezze; è una delle località a più forte disoccupazione, soprattutto per adulti oltre i cinquant’anni, vecchi minatori che non sanno come riciclarsi. Chi può cerca fortuna altrove, o trova un po’ di adrenalina sfrecciando sul circuito. Una città particolare, questa Most. Scendendo la collina dai sentieri nel bosco, viene un po’ la curiosità: chissà cosa diranno i personaggi di quella serie sulla TV nazionale…

di Giuseppe Picheca