Ogni tanto a Praga e Bratislava si riparla della possibilità di rispolverare il vecchio logo per promuovere l’export. Ma l’iniziativa a molti non piace e suscita polemiche
Per alcuni è solo il proposito insensato dei più nostalgici, di quelli che non vogliono arrendersi all’evidenza e continuano a idealizzare i vecchi tempi. Per altri è invece un’ottima idea, che potrebbe far comodo a entrambi i Paesi – Repubblica Ceca e Slovacchia – sfruttando il prestigio e la reputazione di cui ancora oggi gode la produzione industriale della vecchia Cecoslovacchia, soprattutto nei Paesi di quello che un tempo era l’area di influenza sovietica.
L’idea sarebbe infatti quella di rilanciare nei mercati di export il vecchio marchio Made in Czechoslovakia, risalente al periodo in cui i due Paesi, sino al 31 dicembre del 1992, erano uniti in un unico stato federale. A lanciarla è stato cinque anni fa il Nerv, Národní ekonomické rady vlády, l’organo di super esperti che affianca dal 2009 il governo ceco con funzioni consultive, per suggerire ricette idonee a fronteggiare la crisi economica e a rafforzare la capacità dei prodotti nazionali di affrontare i mercati stranieri.
Da allora, pur non essendo certamente fra i più dibattuti, questo tema di tanto in tanto torna a fare capolino sui giornali. I critici dicono: “Se ne parla soprattutto quando non c’è nient’altro da scrivere, in estate per esempio, nel classico periodo, per i giornalisti, delle notizie gonfiate”.
La questione è tornata d’attualità proprio a fine luglio, quando Eximbanka e Česká exportní banka – i due istituti statali, rispettivamente slovacco e ceco, che forniscono credito alle aziende esportatrici – hanno sottoscritto un accordo di collaborazione con il proposito, fra gli obiettivi annunciati, di riutilizzare, in certi mercati stranieri e a determinate condizioni, l’antico marchio commerciale. L’unica differenza sarebbe l’uso del termine Made in CzechoSlovakia, con la S maiuscola di Slovacchia, diventata ormai un paese indipendente e sovrano.
L’iniziativa, a ben vedere, è stata quasi subito ridimensionata, anche se un po’ sottovoce, dallo stesso direttore di Česká exportní banka, Karel Bureš: “Non si tratta tanto del marchio, ma piuttosto della intenzione dei due Paesi di unire le forze nei mercati stranieri”. E anche la Eximbanka, pur con qualche settimana di ritardo, ha precisato: “Parlare oggi di Made in CzechoSlovakia ha più che altro un valore simbolico, che segnala il rapporto di collaborazione fra gli esportatori cechi e slovacchi”. Sta di fatto che la notizia è stata ripresa con una certa evidenza anche dalle agenzie internazionali, soprattutto quelle europee.
“Anche di recente, durante un mio viaggio in Kazakistan, ex repubblica dell’Urss, tutte le persone incontrate al di sopra dei quarant’anni mi hanno subito identificato come “cecoslovacco”, con immediati riferimenti ai nostri prodotti simbolo di quel periodo: le motociclette Jawa, i camion Tatra, i trattori Zetor, le locomotive della Škoda di Plzeň. Veicoli che da quelle parti circolano ancora in gran numero perfettamente funzionanti e sui quali c’è in bella evidenza la scritta Made in Czechoslovakia” è la testimonianza di Marek, uomo d’affari che viaggia per motivi di lavoro in Est Europa e nei Paesi asiatici, secondo il quale da quelle parti dire Made in Czech ha un impatto decisamente inferiore, “per non parlare del Made in Eu”.
“L’idea è ottima, e non solo per quanto riguarda i Paesi coi quali avevamo forti rapporti prima del 1989, al tempo della Cecoslovacchia comunista. Vale allo stesso modo anche in molti mercati occidentali, dove il Made in Czechoslovakia non era forse particolarmente diffuso, ma era comunque molto rispettato, come nel settore delle armi, si pensi alla leggendaria pistola mitragliatrice Škorpion, oppure alle macchine utensili o alle turbine per centrali elettriche” sostiene Pavel, titolare di uno studio legale a Praga. “Penso anche all’Italia, dove sono spesso per turismo e anche per lavoro, dove ancora in tanti identificano Praga con la Cecoslovacchia. A maggior ragione negli Stati Uniti, dove la Repubblica Ceca in larga maggioranza non la conoscono proprio. A New York quando dico che sono ceco, mi scambiano per ceceno!”.
Il fronte dei favorevoli riporta alla memoria il contenuto di una intervista pubblicata qualche anno fa su questa rivista, quando parlammo con Pavel Kopp, il diplomatico ceco che alla fine del 1992 guidò l’ambasciata cecoslovacca a Roma, durante il fatidico momento della nascita di Repubblica Ceca e Slovacchia. Riferendosi ai probabili motivi della separazione, ebbe a dire: “Probabilmente furono decisive le pressioni che giungevano dall’estero. Tutto fu deciso dai vertici politici, perché attraverso un referendum la separazione non sarebbe probabilmente stata accettata. Sottovoce se ne parlava e si capiva che alcuni Stati vicini potevano avere paura della concorrenza cecoslovacca. Anche perché noi, dopo la Rivoluzione di velluto, avevamo una industria fortissima. Non escludo che stati come l’Ungheria, la Polonia, e l’Austria temessero un po’ la concorrenza della Cecoslovacchia unita. La Boemia e la Moravia erano un fondamentale fulcro industriale già al tempo dell’Impero austro-ungarico, e di questo nessuno se ne era dimenticato. Qualcuno dei nostri vicini ci considerava una possibile minaccia”.
Argomenti che possono spiegare il perché la Czechoslovakia e il suo “Made in” non esistano più, ma non utilizzabili, tanti anni dopo, per giustificarne una resurrezione. Tanto più che – come sostengono molti esperti – le leggi internazionali vieterebbero il marchio di origine di uno stato inesistente.
“L’idea a prima vista è suggestiva, ma a ben considerare è qualcosa che sa di minestra riscaldata, forse anche di stantio. La Cecoslovacchia oggi non esiste, pur essendo molto forti i legami con i nostri cugini slovacchi. Anche le produzioni industriali del vecchio Impero Austro-Ungarico erano conosciute in tutto il mondo, ma a nessuno verrebbe in mente di fare risorgere i marchi di quel tempo” è l’opinione contraria a Praga di una rappresentante della CzechTrade, l’ente governativo di sostegno all’export, che preferisce non essere citata per nome.
“Ciò che si dovrebbe fare è piuttosto di sottolineare con maggiore efficacia che i nostri due Paesi sono entrambi successori di quella che un tempo era la Cecoslovacchia. L’idea di rispolverare il vecchio marchio, per quanto prestigioso ancora oggi, non mi fa felice” taglia corto Radek Špicar, vicepresidente della Svaz průmyslu a dopravy, l’Unione industriale della Repubblica Ceca.
Sul fronte politico, mentre in Repubblica Ceca le opinioni appaiono più sfumate, senza particolari passioni, sia in senso positivo, che negativo, è curioso come in Slovacchia le due massime autorità – il capo del governo e il capo dello stato – abbiano battibeccato su questo tema più a voce alta.
Del tutto contrario il presidente slovacco Andrej Kiska, che all’inizio di luglio, in visita di stato a Praga, ha detto: “È una idea senza alcun senso e nessuna probabilità di essere realizzata, perché quel marchio fa parte ormai del passato. Puntiamo piuttosto a rafforzare la collaborazione reciproca nei mercati stranieri. Lasciamo invece che ciascun paese sia padrone di costruire la propria prosperità e il prestigio internazionale dei propri prodotti”.
Il premier Robert Fico invece è un sostenitore convinto del progetto e ormai da qualche anno non perde occasione per rilanciarlo in ogni incontro bilaterale con i responsabili del governo ceco. “Sarebbe una chance enorme nei Paesi africani, dove la Cecoslovacchia un tempo operava in maniera molto attiva. Ma anche in altri stati, come il Vietnam e la Mongolia, dove il marchio Made in Czechoslovakia ha ancora una capacità di persuasione enorme”. Parole peraltro molto gradite al suo elettorato, quello di sinistra, il più incline a guardare con animo nostalgico al periodo pre ‘89 e alla vecchia Cecoslovacchia.
“Succede da noi in Slovacchia, ma capita la stessa cosa in Repubblica Ceca. Sono soprattutto quelli che non vogliono arrendersi all’evidenza, al fatto che i vecchi tempi non torneranno più” è il commento di Tomáš, anziano insegnante di lettere di Bratislava, il quale fra l’ironico e l’amaro non trova di meglio che parafrasare Milan Kundera: “Di commercio internazionale non me ne intendo, ma so che la luce rossastra del tramonto è capace di illuminare ogni cosa. È il fascino della nostalgia”.
di Giovanni Usai