Il padiglione veneziano di Kateřina Šedá è un allarme contro le città-vetrina. L’artista ceca non è nuova al tentativo di tutelare il lato umano dei centri urbani
Il padiglione delle Repubbliche Ceca e Slovacca alla Biennale di Venezia non smette di stupire. In novantadue anni di onorato servizio, costruito nel 1926 da Otakar Novotný – allievo del grande Jan Kotěra – ha ospitato innumerevoli ed illustri installazioni, opere d’arte e mostre d’architettura. Tuttavia, mai ci si aspetterebbe, varcando la soglia del suo celebre portale, di trovarsi dinnanzi ad un immacolato bancone circolare da reception dietro al quale siedono cortesi e sorridenti impiegati in divisa bianca.
Lo straniamento causato da questo fulmineo cortocircuito sembra in effetti lasciare spaesata la maggior parte degli avventori. Dopo il primo istante qualcuno di loro incede cautamente verso il bancone, guardandosi attorno con l’impaccio tipico di chi si sente un intruso, o quantomeno fuori posto.
Sul fondo della sala circondata da bandiere e inondata di luce lattea proveniente dall’immenso lucernario campeggia un maxischermo che alterna un logo rosso ad immagini urbane. Ha davvero tutta l’aria dell’impeccabile reception di una grande multinazionale o di un ente governativo.
Niente paura, nessuna rinuncia. Il glorioso padiglione che fu della Cecoslovacchia non è stato certo declassato ad edificio di servizio per accoglienza dei visitatori né è stato ceduto a qualche agenzia sovranazionale per rappresentanza alla kermesse veneziana. Al contrario, l’acuta trovata della curatrice Kateřina Šedá – classe 1977 – sembra provvedere a dare visibilità internazionale al padiglione, interpretando il tema “Freespace” di questa 16. Biennale d’Architettura.
Nonostante molti avventori tendano a spiegare a loro stessi che si tratta certamente di un’installazione immersiva oltre i consueti nuovi media – nel vano tentativo di minimizzare lo spaesamento, quella che si trova nel padiglione è a tutti gli effetti una vera reception: la reception della sede veneziana di UNES-CO (United Nations Real Life Organization). Questa fittizia organizzazione è la trovata che la curatrice ha escogitato per portare all’attenzione del pubblico la difficoltà di condurre una “vita normale” nelle città tutelate dall’Unesco – quella vera – a causa del sovraccarico turistico. Nelle liste Unesco dal 1946 ad oggi si sono iscritti oltre mille siti, tra i quali figurano anche una dozzina di città boeme. La fittizia associazione – alla base del cui nome risiede l’anagramma “Co město unese” – nasce con l’intento di riportare il calore della vita quotidiana in quelle località tanto meravigliose quanto frequentemente ridotte a preziose scenografie per la fugace occhiata dei turisti.
Nessuna location avrebbe potuto dare voce ad un tale problema meglio di Venezia, caso paradigmatico di esasperato sovraffollamento turistico. La regolare invasione di calli e sotopòrteghi porta assieme agli indiscutibili vantaggi economici una radicale alterazione delle abitudini – e talvolta della libertà – di coloro che dell’abitare la città d’arte vivono onori e soprattutto oneri. Le statistiche mostrano come il centro storico di Český Krumlov, gioiello Unesco nella Boemia Meridionale, sia ad oggi virtualmente disabitato, destino che potrebbe toccare anche Venezia.
Da parte di Šedá non giunge semplicemente una critica o un’osservazione del fenomeno, ma una proposta concreta per mitigare il parziale spopolamento che questo induce nella sua ripercussione più temibile: lo scivolamento della città in una sorta di parco a tema nel quale rimirare meraviglie provenienti dal passato. Una tale cristallizzazione non porterebbe solo disagio, isolamento e solitudine per i residenti, ma a suo avviso anche un’esperienza meno autentica per il turista che li visita.
Attraverso UNES-CO, l’artista approfitta della visibilità veneziana per ampliare la sensibilizzazione sul tema, cercando volontari disposti a vivere nell’incantevole centro storico di Český Krumlov e riportare il calore delle “attività normali” tra quelle strade snaturate – documentando il tutto in diretta TV.
Šedá, nota al grande pubblico dopo la partecipazione a documenta 12 a Kassel e alla 5. Biennale di Berlino, non è affatto nuova a operazioni di questo genere. La peculiarità della sua ricerca consiste proprio nell’agire come una sorta di regista di articolate azioni collettive ed eventi pubblici, coordinando il pubblico stesso all’interno delle proprie opere capaci di ibridare la scala urbana alla dimensione intima delle relazioni private. Questa sua magistrale “intrusione” in un campo tanto vasto e delicato le è valsa lo scorso anno il titolo di Architetto dell’Anno in Repubblica Ceca nonché la prestigiosa curatela del padiglione veneziano.
Animata dall’idea dell’arte come formidabile mezzo per agire in questo campo, la brillante e pluripremiata artista di Brno ritiene la produzione di un’opera o di una mostra solamente l’ultimo passo di un processo complesso che “individua l’oggetto artistico come strumento terapeutico”. Questo spiega il suo linguaggio amichevole, coinvolgente e pronto a trasformare il rigore di un austero museo in uno spazio accogliente, preferendo talvolta nascondere la parola “arte” laddove potrebbe compromettere il rapporto di fiducia instaurato con il suo pubblico di protagonisti, intimorendolo.
Nelle sue operazioni a doppia scala Šedá rimane in disparte e pone al centro il punto di incontro tra relazioni umane e urbanistica, tra vita quotidiana e spazio costruito, coinvolgendo intere comunità nel tentativo di ricucire fratture sociali ed urbane. Come ogni buon regista – così ama definirsi – il suo ruolo è quello di predisporre, programmare e coordinare, consegnando la scena ai protagonisti e lasciando che le cose facciano il loro corso – modus operandi perfettamente calzante anche alla figura dell’architetto.
In questo modo prendono vita curiosi sistemi di rilevazione urbana, originali mappature spontanee eseguite dagli abitanti di un certo luogo nonché spettacolari sincronizzazioni di intere comunità. Proprio su quest’ultima strategia si basa la nota performance Nic tam není (There Is Nothing There) grazie alla quale Ponětovice – un paese della Moravia Meridionale – vide trecentoquindici dei suoi poco meno di quattrocento abitanti eseguire gli stessi gesti nel medesimo istante per l’intera giornata di sabato 5 maggio 2003.
Con il progetto Nedá se svítit I./No Light II. gli abitanti di Nošovice sono stati invece protagonisti di una campagna di mappatura urbana decisamente sui generis. Nel 2010 Šedá ha chiesto loro di restituire su tovaglie bucate al centro ciò che credevano di ricordare del panorama urbano prima che l’assetto della cittadina fosse drasticamente modificato da un enorme insediamento industriale costruito nel biennio precedente.
Tuttavia, questi sono solo alcuni dei più famosi tra gli strumenti che popolano l’insolita cassetta degli attrezzi di un’artista costantemente in cerca di una via ibrida tra indagine sociale e urbanistica per innescare uno scambio tra le persone nei loro luoghi di vita quotidiana, restituendo una dimensione spesso assente o smarrita.
La sua opera veneziana pone in discussione la progressiva “freddezza” dei siti Unesco abitati, nei quali non si vedono né bambini andare a scuola né panni stesi, neppure alle facciate secondarie.
Con la sua consueta affabile cura, Šedá declina efficacemente il tema “Freespace” affrontandolo secondo Adam Budak – curatore della Národní galerie di Praga, nonché il commissario del padiglione – in modo addirittura sovversivo, mostrandoci ciò che “lo spazio libero non è”.
Il padiglione UNES-CO è visitabile fino al 25 novembre 2018 presso i Giardini della Biennale di Venezia.
di Alessandro Canevari