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La straordinaria vicenda dello sloveno Jože Plečnik, al quale Tomáš G. Masaryk nel 1920 affidò la rinascita architettonica del Castello di Praga

C’era una volta in un passato non troppo lontano, nel cuore dell’Europa, un maestoso castello affacciato su una città dai tetti dorati. Il grande castello sorgeva su un colle, lungo un placido fiume. Dopo un lungo periodo di incuria il castello divenne dimora di un governante dotto e saggio che aveva a cuore l’identità del proprio popolo e della propria nazione, divenuta indipendente dopo secoli di dominio straniero. Assieme al buon governante amato dal suo popolo viveva la sua coltissima figlia di nome Alice.

In questa città dai tetti dorati abitava da quasi dieci anni un architetto straniero, esule per necessità dal paese nativo e a causa delle proprie origini anche dal paese nel quale aveva fatto fortuna. Un tipo bizzarro e di poche parole, ma di grande talento e maestria che lontano da casa – della quale ebbe sempre grande nostalgia – aveva raggiunto una certa fama lavorando duramente. Nonostante qualche momento di ristrettezze, la città dai tetti dorati stava offrendo un periodo di serenità al taciturno architetto che qui si dedicava con straordinaria passione all’insegnamento, conquistando l’ammirazione di studenti e molti colleghi.

Trasferitosi con qualche titubanza e con il pensiero sempre rivolto alla terra natia egli non si aspettava affatto che questa magica città gli avrebbe permesso di realizzare molti dei suoi sogni giovanili, regalandogli notevoli soddisfazioni. Ricevuta una buona offerta in patria dopo oltre vent’anni di assenza, lo schivo signore dallo sguardo severo stava per lasciare la città dai tetti dorati e fare ritorno a casa allorquando accadde l’imponderabile. Quasi in segno di riconoscenza, sebbene egli fosse straniero, l’operosa città affidò alle sue cure il proprio amato castello. L’incontro con il saggio governante e con la figlia Alice fece il resto – offrendogli l’inattesa opportunità di consegnare il proprio nome alla storia. Il diffidente architetto dall’aspetto ieratico trovò in loro gli interlocutori che mai si sarebbe atteso. Tra i tre nacque una profonda intesa intellettuale che volgeva lo sguardo come in un assolo all’arte e all’identità di un popolo – concretizzandosi nell’obiettivo di trasformare il grande castello in simbolo nazionale di libertà, indipendenza e democrazia.

Mettendo da parte la fiaba e guardando alla storia, non è difficile assegnare un nome ed un’epoca a questi personaggi e questi scenari. Certamente, giunti sin qui i lettori più accorti avranno già fatto da sé le dovute sostituzioni. La straordinaria storia di inizio Novecento del fruttuoso incontro tra il presidente Tomáš G. Masaryk, sua figlia Alice e l’architetto sloveno Jože Plečnik ha tutte le carte in regola per essere narrata come una fiaba. Non manca proprio nulla: lo scenario da favola, gli eccezionali personaggi, senza menzionare i colpi di scena. Tuttavia, lungi dal volersi far sfuggire di mano questo gioco postmoderno si ripartirà dai fatti, ripercorrendo velocemente le tappe di questa curiosa storia.

Di umili origini, il talentuoso e schivo Jože Plečnik lasciò Lubiana poco meno che trentenne alla volta di Vienna, entrando quasi immediatamente nell’atelier del grande Otto Wagner, presso il quale lavorò per un decennio conquistando una certa fama.

Tra gli insegnamenti del maestro lo colpì l’idea che la figura dell’architetto avesse dovuto riappropriarsi di quanto le era stato strappato dal potere degli ingegneri. Da qui deriva il suo considerare ogni minimo elemento costituente l’ambiente umano degno dell’amore e dell’attenzione dell’architetto, delineandone una figura di multiforme ingegno. Questo faro ne guidò l’intera carriera e fece sì che il giovane Plečnik fosse tra i pionieri del nuovo modo di concepire l’industrial design.

La crescente avversione nei confronti degli slavi, ma soprattutto le dure critiche mosse nei confronti del suo progetto per la Heiliggeistkirche a Vienna lo indussero a lasciare la città, seppur a malincuore, nel 1911.

Sebbene la sua fama lo avesse preceduto a Praga, egli ebbe profonde perplessità in merito ad un trasferimento a seguito dell’invito dell’amico Jan Kotěra presso la Škola pro dekorativní architekturu, spaventato sia dalla sua scarsa conoscenza della lingua che dalla convinzione di non essere un buon insegnante. Plečnik giunse a Praga tentennante, ma prevedendo un suo ripensamento, Kotěra lo “incastrò” avendogli già procurato un frac ed un appuntamento con il ministro dell’istruzione. Plečnik intraprese a Praga la sua carriera di insegnante applicandovisi con meticolosa dedizione, come si evince dai carteggi con gli allievi, senza ricevere alcuna commessa per un decennio.

L’anno 1920 fu per Plečnik un anno tormentato, poiché temeva di andare incontro alla propria “morte artistica” per aver accettato un incarico da docente al Politecnico di Lubiana. Tuttavia, nel novembre dello stesso anno, dopo alcuni suoi rifiuti, fu nominato Architetto del Castello dal presidente Masaryk.

Dalle biografie Plečnik emerge quale personaggio portato all’isolamento, pronto ad accogliere come cliente solo chi sapeva dimostrargli di riporre in lui piena fiducia. Scelti quasi per affinità elettiva, costoro erano ripagati dall’avere a completa disposizione il suo talento ed il suo sapere pronti ad applicarsi al progetto con devota passione. Ciò avvenne nella sua forma più perfetta nell’intesa che ebbe con il presidente Masaryk ed Alice, fondata su comuni ideali ed intenti.

Gli Asburgo avevano lasciato il castello in una situazione di abbandono e l’incarico di riportarlo al lustro confacente ad un monumento nazionale prospettava a Plečnik una gigantesca mole di lavoro comprendente i temi più disparati: dagli interni ai giardini, dal restauro al progetto di nuovi monumenti, fino alla sistemazione degli scavi archeologici. Si narrano molti aneddoti sulla realizzazione di queste opere, ognuna delle quali era per Plečnik come la singola pennellata di un grande affresco, ma anche fonte di preoccupazione.

Senza scalfire la forza della tradizione che l’intero complesso racchiude in sé, Hradčany era progressivamente plasmato da Plečnik con sapienti “tocchi” personali e riconoscibili, senza mai aderire ad un preciso programma né ad una teoria.

Sovente si legge che attraverso il lavoro al castello Plečnik intendeva gettare le basi per un nuovo stile, ma ai suoi occhi ed a quelli di Tomáš e Alice Masaryk il castello stava al contempo acquisendo il valore di primo passo verso un’espressione artistica panslava – al centro quindi di una precisa prospettiva politica.

Grazie ai consigli di Alice ed al presidente che lo difendeva dagli attacchi dell’opinione pubblica, Plečnik curava con minuzia ogni particolare. La giustapposizione di elementi nuovi in dialogo con le preesistenze ha il preciso intento di conferire all’insieme quella monumentalità che avrebbe dovuto tendere un filo conduttore tra gli ideali del nuovo stato democratico e l’antica democrazia greca.

La lungimiranza di Masaryk aveva spinto Plečnik a sviluppare un imponente piano urbanistico per collegare il castello alla parte settentrionale della città, ma l’opinione pubblica criticò duramente questa proposta. Plečnik sentitosi sotto attacco decise di lasciare Praga nonostante gli sforzi dell’anziano Masaryk per trattenerlo; era il 1934.

Un anno più tardi l’ormai ottantacinquenne Masaryk rassegnò le sue dimissioni. Sinceramente scosso da questa scelta e privato della protezione del suo “mecenate” Plečnik abbandonò l’incarico, lasciando il magnificente Hradčany nelle mani di Pavel Janák.

di Alessandro Canevari