Dopo vent’anni nell’olimpo dei più grandi, Petr Čech annuncia l’addio al calcio. Il portierone è stato per anni uno dei simboli del calcio ceco
Lo scorso 15 gennaio, come un fulmine a ciel sereno, Petr Čech ha annunciato che a fine stagione darà l’addio al calcio giocato. La decisione del portierone ceco, reduce da vent’anni di professionismo, era ormai nell’aria, ma l’aver perso la titolarità all’Arsenal a favore del tedesco Bernd Leno probabilmente l’ha in qualche modo accelerata. Ogni addio è sempre avvolto da una cappa di velata malinconia, ed è spesso figlio di una decisione presa sull’onda dell’emotività del momento, ma a questo punto di non ritorno Čech sembra essere giunto con lucido raziocinio, dopo un percorso pianificato e calcolato in ogni sua tappa: “Sono trascorsi vent’anni da quando ho firmato il mio primo contratto da pro, così sento che è arrivato il momento giusto per annunciare il mio ritiro al termine di questa stagione”.
Del resto non ha tutti i torti. In quindici anni di Premier League, da quando è sbarcato ragazzino al Chelsea nel 2004 ad oggi veterano all’Arsenal, il gigante di Plzeň, si è tolto ogni tipo di soddisfazione, personale e individuale, trasformandosi in un totem del calcio inglese e mondiale. Lo score parla chiaro: ha vinto quattro volte il campionato e una Champions League col Chelsea, ha conservato la porta immacolata per 202 partite, un record inarrivabile per chiunque altro in Premier League, e per un certo periodo, secondo qualcuno, non è stato sbagliato considerarlo il portiere più forte del mondo, meglio anche del nostro Gigi Buffon.
E pensare che Čech, da bambino, non amava il calcio, ma andava matto per l’hockey su ghiaccio, sport molto gettonato e praticato in Repubblica Ceca. A fargli cambiare idea, però, è stato il padre, operaio come tanti altri nella Škoda di Plzeň. Non tanto per un gusto differente, o un’aspirazione diversa da quella del figlio, cresciuto col mito di Dominik Hašek, ma per una semplice ragione economica: “Ho sempre desiderato giocare ad hockey su ghiaccio. Ma ovviamente avrei dovuto comprare tutta l’attrezzatura. E, molto semplicemente, non potevamo permettercelo”.
Pochi sanno, però, che da bambino almeno inizialmente non è stato impiegato come portiere, ma bensì da attaccante, precisamente da ala destra. Lo ha fatto anche discretamente bene, segnando diversi gol, ma poi a dieci anni un infortunio al ginocchio lo ha riportato indietro sul terreno di gioco, confinandolo tra i pali dell’area di rigore, come gli era già capitato una volta quando all’allenamento non si era presentato nessuno dei tre portieri. Quella diventerà la sua casa, il suo posto nel mondo, ma Big Pete non può ancora saperlo. Come spesso accade nelle storie dei grandi portieri, nati come centravanti o centrocampisti e poi affermatisi con un paio di guantoni tra le mani, a disegnare la traiettoria è stato il fato. La prima volta in porta non è andata benissimo, ma Čech si è subito sentito a proprio agio tra i pali, anzi davvero felice, come se evitare i gol alla fine lo esaltasse più di realizzarli: “I ragazzi contro cui giocavamo erano più vecchi, più alti e più forti, ma non lo abbiamo fatto male. Abbiamo subito cinque gol, ma ce ne sarebbero potuti essere cinque volte di più. Non avrei mai pensato che questo gioco amichevole avrebbe cambiato la mia vita per sempre”.
Plasmato al Viktoria Plzeň da una icona come Jiří Sequens, e da Josef Žaloudek, uno dei primi allenatori anche di un certo Pavel Nedvěd, a diciassette anni Čech è ancora acerbo, ma già pronto e “alto abbastanza” per debuttare in prima divisione ceca con il Chmel Bišany, la squadra dove si trasferisce quando il Plzeň se lo lascia scappare, non assecondando le sue richieste economiche per firmare il primo contratto da pro. Big Pete sa di essere dietro nelle gerarchie rispetto ad Aleš Chvalovský, figlio del proprietario del club e portiere della nazionale Under 21, ma decide comunque di accettare la proposta: “Era un treno che sarebbe potuto non ritornare. Non avevo un contratto e come svincolato potevo firmare con chiunque”. L’ambientamento di Čech al calcio dei grandi e ad una realtà come il Chmel Bišany, in cui giovani talentuosi sono affiancati da veterani come Günter Bittengel e il capitano Petr “Béda” Vrabec, è più complicato del previsto, ma due anni più tardi, nel 2001, ha già preso l’ascensore e vestito la maglia di un’istituzione come lo Sparta Praga, dove batterà il record di Theodor Reimann, leggendario portiere del Sokol Bratislava, mantenendo imbattuta la porta granata per ben 855 minuti. La nazionale è stata una naturale conseguenza di prestazioni del genere. Nell’estate del 2002 all’Europeo under 21 è arrivato pure l’exploit, quando la Repubblica Ceca ha battuto in finale la Francia, dopo aver eliminato in semifinale l’Italia di Pirlo e del bomber Maccarone, e lui è stato grande protagonista, guadagnandosi la considerazione della platea internazionale. Un motivo in più che ha spinto il Rennais a versare sull’unghia cinque milioni e mezzo di euro allo Sparta e a portarselo in Francia, dove rimarrà per due stagioni, prima di ricevere la chiamata di José Mourinho e raggiungere quella che diventerà la sua dimora per oltre una decade: Stamford Bridge.
Al Chelsea ma anche con la Repubblica Ceca, di cui è il giocatore più presente di sempre (124 partite), ha rappresentato per anni il prototipo di portiere elegante ed efficace, anche se in patria non smettono di rinfacciargli la papera con la Turchia costata l’eliminazione da Euro 2008. Per un certo periodo, nella seconda metà degli anni Duemila, Čech non solo era considerato uno dei miglior portieri del momento, ma dava proprio una sensazione di onnipresenza fisica grazie a una stazza ciclopica ed un innato senso della posizione, anche quando si trovava costretto a uscire dai pali per rimediare a qualche sbavatura della difesa. In quegli anni, quando un attaccante lo sfidava nell’uno contro uno, Čech era semplicemente ingiocabile. Sembrava avere il dono di sdoppiarsi come l’uomo vitruviano di Leonardo e sapevamo già come sarebbe andata a finire, chi sarebbe stato il vincitore del duello sforbiciando le gambe per disegnare la classica parata a croce o coprendo la porta come un Cristo pantocratore. Ma, a parte questo, se lo abbiamo amato così tanto è stato anche per la sua fragilità, manifestatasi già negli anni giovanili, ma poi venuta nuovamente e tremendamente a galla nel 2006. Nella letteratura di Čechesiste, infatti, un prima e dopo 14 ottobre 2006. La storia la conoscete tutti: si stava giocando un Reading-Chelsea, quando durante uno scontro di gioco, Stephen Hunt non riuscì a frenare la corsa e finì per travolgere Big Pete, colpendolo fortuitamente con il ginocchio alla testa e lasciandolo esanime sul prato. L’impatto poteva addirittura costargli la vita, ma il portiere ceco se l’è cavata con una frattura al cranio (più fragile del normale perché nato da parto gemellare), tornando in campo qualche mese più tardi avvolto da un casco protettivo sul modello di quelli usati nel rugby, poi divenuto il suo marchio di fabbrica, tanto da venire rappresentato così anche nei videogiochi: “Avevo dei mal di testa lancinanti, ma alla fine ho cominciato ad allenarmi e sono ritorno a parare”. Nonostante le diffidenze iniziali dei tifosi, preoccupati di non vedere mai più il Čech di prima a cui erano abituati, il numero uno ceco ha dimostrato a tutti di non essere stato minimamente intaccato nelle sue abilità da quell’incidente e ha sorvegliato i pali dei Bluesper altri due lustri, tagliando il traguardo più prestigioso della carriera nel 2012, quando assieme a Terry, Lampard e Drogba ha trasformato in realtà il sogno di Abramovič di vincere la Champions League, prima di salutare Stamford Bridge tre anni dopo. Nella serata dell’Allianz Arena, in cui il Chelsea ha fatto piangere oltre cinquantamila tifosi bavaresi pronti a festeggiare, Big Pete ci ha regalato probabilmente la miglior cartolina della sua carriera, quella di un portiere dai mezzi fisici e motori straordinari, ma anche e soprattutto quella di un uomo molto intelligente e con la testa sulle spalle, sposato da anni con Martina e padre di due amorevoli bambini, Adela e Daniel. Il balzo con cui ha sventato il rigore di Robben nei supplementari, che è valso al Chelsea di Di Matteo una buona fetta di quel memorabile trionfo, non è stato casuale, come nulla lo è mai stato nella straordinaria parabola di PetrČech: “Quando un giocatore è stanco, ha giocato in 104 o 105 minuti, preferisce sempre la forza alla precisione. Ed un mancino di solito incrocia a destra. Ecco perché sono andato da quella parte”.
Non è detto, però, che una serata come quella sia impossibile da ripetere. Petr Čech, che è pure un batterista provetto, sogna un’uscita di scena in grande stile, un’ultima assordante rullata di piatti prima di far calare il sipario su una carriera straordinaria: “Darò tutto per riuscire a vincere un ultimo trofeo con l’Arsenal”.
di Vincenzo Lacerenza