Cinquant’anni fa il sacrificio estremo di Jan Zajíc, a lungo dimenticato dalle celebrazioni per Jan Palach, di cui volle seguire l’esempio
«Cittadini della Repubblica cecoslovacca, poiché nonostante il gesto di Jan Palach la nostra vita continua a scorrere sui vecchi binari, ho deciso di scuotere le vostre coscienze quale torcia numero due. Possa il mio rogo illuminare il cammino per una Cecoslovacchia libera e felice! Solo così potrò continuare a vivere». Sono passati cinquant’anni, ma le parole di Jan Zajíc, in una lettera d’addio indirizzata alla popolazione cecoslovacca, porta ancora tutta la forza ed il coraggio di chi ha scelto il sacrificio estremo. È il 25 febbraio 1969, un mese esatto è passato dal giorno delle esequie di Jan Palach, che si era immolato su piazza Venceslao per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia ad opera delle truppe del Patto di Varsavia, quando Zajíc, giovane studente moravo di diciannove anni, ripete il suicidio con il fuoco. Stesso modo, stesso luogo. Il gesto estremo di Palach non era bastato. Nel giro di un mese in Cecoslovacchia la rassegnazione aveva preso il posto della contestazione, la normalizzazione sovietica stava riducendo al silenzio ogni forma di dissenso. In questo contesto il gesto di Zajíc appare ancora più disperato, estremo. Lui che desiderava scuotere le coscienze, si ritrova di fronte ad un muro di cinismo, da parte del potere, e di paura, da parte di una popolazione sfibrata. Basti pensare che il giovane aveva inviato una delle tre lettere d’addio all’organizzazione studentesca di Praga che decide di non rivelarne il contenuto poiché formulata in termini «poco felici». Insomma, il tempo della resistenza si è esaurito.
Ma riavvolgiamo il nastro di questa storia di qualche tempo. Jan Zajíc è un giovane della provincia morava, cresciuto con una educazione cristiana, che comincia a interessarsi di politica durante gli anni delle scuole superiori. Partecipa a Praga alle manifestazioni studentesche nei mesi della Primavera di Alexander Dubček, e dopo l’occupazione sovietica dell’agosto 1968 rifiuta di emigrare, anche se il padre aveva insistito perché lui e il fratello maggiore lo facessero. Anzi, è tra gli studenti che iniziano lo sciopero della fame per protesta contro gli oppressori di Mosca. Ma è solo dopo il sacrificio di Jan Palach che Zajíc inizia a maturare l’idea di ripetere quel gesto. È consapevole che la normalizzazione comincia a mettersi in atto: un clima di letargia si sta installando nel Paese e «la vita continua a scorrere sui vecchi binari». Il grande corteo che attraversa la via Pařížská per il funerale di Palach lo impressiona, e si rivela un momento decisivo nella sua scelta di farsi martire laico. Ha letto le ultime lettere lasciate dallo studente prima di immolarsi, conosce quell’appello che lascia immaginare altri roghi: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo». Qualche settimana più tardi, Zajíc ha preso la sua decisione, sarà la «torcia numero due». Il 25 febbraio, dentro ad un palazzo, al civico 38, a qualche decina di metri dal luogo del primo rogo, Jan Zajíc si incendia i vestiti che ha impregnato di prodotti chimici. Poi assume una dose di veleno per non rischiare, come Jan Palach, una lunga agonia di giorni. Il veleno con ogni probabilità agisce con tale rapidità da non lasciargli il tempo di uscire sulla piazza. Torcia umana, ma non ha la forza di correre e muore dietro ad un portone. Sventura nella tragedia, anche la forza del simbolo è smorzata. E sulle onde della radio cecoslovacca, in mano al regime che Zajíc voleva accusare, la sua morte è liquidata con una breve: «Il 25 febbraio, tra le 13h30 et le 13h45 sulla Piazza Venceslao di Praga, al numero 38, un giovane si è suicidato immolandosi col fuoco. Stando agli oggetti trovati sul posto si tratterebbe di JZ, liceale della regione di Šumperk». Tutta un’altra enfasi si trova nelle parole dell’allora presidente della Camera dei deputati italiana Pertini che si esprime, solidale e commosso, all’indomani dei fatti: «La nostra pietà fraterna esprimiamo alla nuova volontaria vittima (…) Rivolgiamo ai giovani di Praga l’appassionata esortazione a vivere per lottare. È con la lotta di ogni giorno, di ogni ora che si coopera validamente al riscatto della propria nazione da ogni servitù». Un’esortazione che arriva da lontano, e che non avrà riscontri. Ormai è tardi. A Zajíc sarà negato quel funerale “alla Palach” che aveva immaginato; la sepoltura a Praga, il corteo numeroso al seguito del feretro. Niente di tutto questo. La polizia fa pressioni sui genitori, che sono costretti ad accettare un rito più ristretto e sobrio nella lontana Vítkov, città natale dello studente. E se non bastasse, Zajíc è perseguitato anche da morto: per il regime le colpe dei figli ricadono sui padri. Dopo la morte di Jan, la famiglia deve affrontare diverse difficoltà legate al suo suicidio, la madre perde il posto di insegnante, il padre è espulso dal partito comunista. Il suicidio di Zajíc causa problemi politici anche ai fratelli, all’ammissione all’università e nel corso dei loro studi. E pensare che lui li aveva salutati così prima di andarsene: «Cari genitori, quando leggerete questa lettera sarò morto. Mi rendo conte del dolore che vi sto dando ma vi prego di non essere arrabbiati con me. Non mi uccido perché sono stanco di vivere, ma perché amo la vita e con il mio gesto spero farò migliore la vostra. Non perdete il coraggio». Impresa non facile nella Cecoslovacchia del tempo. Quando il potere fa di tutto perché la storia di Zajíc, come quelle di diversi altri uomini che si sono immolati con il fuoco, non si raccontino, non si ricordino. Un mese più tardi, a Jihlava, Evžen Plocek, un operaio di 39 anni, compie lo stesso gesto di Palach e Zajíc. Ancora lo stesso movente, la stessa modalità. Ma la censura è ancora più stretta che nei primi due casi. Di questa storia all’epoca trapela poco o niente. Mezzo secolo più tardi, Jan Palach è ormai un simbolo conosciuto nel mondo, mentre la storia di Zajíc e delle altre vite “bruciate” per la libertà della Cecoslovacchia restano meno note. Tuttavia, tanto è stato fatto in Patria. Oggi la sua memoria è preservata dalla Fondazione per il Premio Jan Zajíc, che a Vítkov assegna premi agli allievi più meritevoli delle scuole elementari e medie della regione. Un evento culturale di grande importanza nella regione. In più, nel 1992, la sua storia è diventata il soggetto di un film televisivo di successo che porta il suo nome: «Jan». Quella di oggi è une Repubblica in cui Zajíc può finalmente «continuare a vivere». La capitale Praga gli ha intitolato una via nel quartiere di Praga 7 e anche la città dove è stato studente, Šumperk, gli rende a cinquant’anni dalla morte, i meritati onori. Una mostra, diverse rappresentazioni teatrali ed una cerimonia ricordano Jan, un ragazzo morto per una «Cecoslovacchia libera e felice».
di Edoardo Malvenuti