Da un lato il paternalismo dell’Europa occidentale, dall’altro le spinte populiste del Gruppo di Visegrád: Praga alla ricerca del proprio equilibrio
E così anche i cechi hanno cambiato campo. Dopo quattro anni passati a costruire l’immagine del volto presentabile del Gruppo di Visegrad, le elezioni hanno visto una chiara vittoria dei populisti, mentre i partiti filoeuropei e con un forte orientamento pro-Occidente hanno dovuto faticare non poco per entrare in Parlamento. E le attese elezioni presidenziali potrebbero ulteriormente confermare la sensazione diffusa a Bruxelles e in diverse capitali europee sull’allontanamento dei Paesi dell’Europa centrale dall’Occidente.
Occidente: più sei lontano, più ti amo
La personalità del vincitore, Andrej Babiš, dà poche sicurezze a Bruxelles per il suo conflitto d’interessi e il carattere populista. Purtroppo, da tempo il termine populismo ha perso il suo valore esplicativo per trasformarsi in una formula esorcizzante, per altro di scarsissimo effetto. Se del populismo in Babiš c’è, allora è abbastanza diverso da quello presente in Polonia o in Ungheria. Una buona parte dei cechi vuole sentirsi confortata dal fatto che le cose continueranno ad andare bene. In questo contesto, gli slogan del movimento Ano vanno letti al contrario: completare il cambiamento significa fare in modo che le cose continuino ad andare passabilmente bene, il governo del fare è soprattutto il governo del conservare il presente e combattere ogni spinta che possa mettere in pericolo il relativo benessere. In questo tratto Babiš assomiglia fortemente a Silvio Berlusconi, la cui promessa più grande fatta agli italiani era quella di rendere perenne la società di fine anni Ottanta. Dopo due decenni Berlusconi se ne dovette andare, quando la più grande crisi economica dal 1929 spezzò quell’illusione. Babiš ha la speranza di non dover affrontare un contesto tanto sfavorevole.
Sebbene Babiš non abbia ragioni per rompere con l’Unione Europea, certamente non è il politico che la possa far tornare in auge tra i cechi. Un compito effettivamente non facile. L’Europa continentale non ha mai avuto un grosso appeal sugli intellettuali e politici cechi, e soprattutto quelli del dissenso. Dopo il crollo del Muro, i rapporti con la Germania erano troppo gravati dalla storia per permettere innamoramenti reciproci. Alla Francia veniva rinfacciato il Patto di Monaco. La Scandinavia era troppo statalista e collettivista per chi era da poco uscito dal socialismo reale e, infine, gli stati del sud Europa andavano bene soltanto per fare del turismo e non prestavano riferimenti politici di alto livello.
Nonostante la più volte ricordata colazione con l’allora François Mitterand, uno dei primi Capi di Stato occidentali a incontrare le personalità del dissenso cecoslovacco, le principali figure del nuovo corso politico hanno sempre guardato con ammirazione agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Václav Klaus diceva di ispirarsi a Margaret Thatcher e la lady di ferro ottenne una standing ovation al Parlamento federale cecoslovacco durante la sua visita dopo la caduta della Cortina di Ferro. D’altra parte Václav Havel fu uno dei sostenitori più accomodanti e acritici degli Stati Uniti, pronto persino a sostenere con la sua statura morale bombardamenti e spedizioni militari basate su fake news e ottenendo per questo lavoro di lavatrice morale la più alta onorificenza americana, assegnata dal presidente Bush jr., un Trump di buona famiglia, e un busto al Congresso. Insomma, anche allora si amava l’Occidente più lontano di quello più prossimo, con cui tocca convivere con i tutti i problemi del caso.
I parenti poveri e la pattumiera dell’Europa
Fin dall’adesione all’Unione Europea i cechi sono i più euroscettici tra i suoi abitanti. La lunga serie di rilevamenti del Cvvm, l’agenzia di sondaggi dell’Istituto di sociologia dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca – ci fornisce un quadro netto della situazione. Innanzitutto negli ultimi tredici anni, le opinioni sulla Ue sono sorprendentemente stabili. Al netto di temporanee oscillazioni, meno del 35 percento dei cechi è soddisfatto dell’appartenenza all’Unione, circa il trenta percento è insoddisfatto e il resto è neutro. Allo stesso tempo tra il 55 e il 60 percento dei cechi vuole continuare a essere un paese membro, anche a costo di rimanere in una fascia di stati a velocità più bassa di integrazione.
A differenza del quadro rappresentato in seguito alla crisi dei migranti, i motivi dell’insoddisfazione sono tutt’altro che identitari: è solo una piccola minoranza a pensare che l’Unione danneggi la cultura nazionale. Al contrario prevalgono lamentele di tipo pratico, ma anche fortemente stereotipate, come quelle della burocrazia, dell’aumento delle leggi e così via. I cechi vedono in maniera critica anche elementi che a Ovest vengono presentati come motivi di gratitudine. Si tratta dei fondi europei e della libera circolazione della forza lavoro altamente qualificata, che talvolta può causare disfunzioni locali. Ne sono esempio gli ospedali, che devono chiudere reparti per mancanza di medici emigrati in Paesi con stipendi più alti.
Nonostante tutte le criticità, più dell’ottanta percento dei cechi pensa che l’Unione Europea abbia migliorato le condizioni di lavoro, studio e vita. Un dato assolutamente assente nel dibattito con i politici degli Stati fondatori, che puntano tutto sulla gratitudine, e i politici dei Paesi di Visegrad, che per dimostrare la loro maturità, si comportano come degli enfant terrible. Se il secondo atteggiamento è apertamente distruttivo, anche il primo non porta da nessuna parte. La gratitudine in politica conta pochissimo, come ben sapeva Winston Churchill che perse le elezioni nonostante avesse appena vinto la guerra e salvato la patria dai nazisti. All’Ovest si fatica ad accettare l’idea che gli stati ex comunisti possano problematizzare le soluzioni e gli approcci proposti dai vicini maggiori. Purtroppo per tutti, questo scontro di emancipazione da una subalternità culturale si è consumato sul campo delle migrazioni e dei profughi, dove gli sfidanti, ossia i Paesi di Visegrad, mancano di qualsiasi alternativa percorribile.
La differenza e il disincanto verso i vicini più prossimi non sono visibili solo sui migranti. Negli ultimi mesi ha assunto un ruolo forte la questione dei doppi standard alimentari e l’Unione Europea farebbe bene a occuparsene, visti i toni vittimistici dei Paesi coinvolti. In Repubblica Ceca la vicenda assume contorni anche più grotteschi, considerando che è stata sollevata dall’ex ministro dell’Agricoltura, Marian Jurečka, il quale è anche un coltivatore diretto, e dall’attuale premier, Andrej Babiš, il cui gruppo Agrofert è noto per la non altissima qualità dei propri prodotti. Un altro motivo di alienazione è sicuramente costituito dalla sensazione che il paese non riesca ad emanciparsi dall’essere il parente povero dei tedeschi e degli austriaci. Hanno fatto molto rumore gli utili realizzati ed esportati dagli investitori esteri negli ultimi anni, sebbene nelle classifiche settoriali le aziende estere sono spesso in cima per il valore dei loro stipendi. Inoltre i sindacati talvolta dimenticano nelle loro polemiche i padroni nazionali, che ormai non sono tanto più poveri di quelli esteri e investono volentieri in settori a resa sicura, nei media o nei settori finanziari. In Unione Europea c’è in atto una forte tendenza di concentrazione del valore in pochi stati di serie A. Si tratta di un processo connaturato al capitalismo globalizzato, che l’Unione non riesce a contrastare, sebbene ne paghi un forte pegno non soltanto ad ovest ma anche al sud.
L’approccio della società ceca nei confronti dell’Occidente è definitivamente cambiato. Oggi c’è la pretesa di fare meglio che a ovest della Selva boema e di valutare con la propria ratio i provvedimenti da prendere. L’Unione dovrà puntare sulla comunione di interessi materiali, piuttosto che sulla gratitudine, per ricostruire un’unità plurale. Il primo scontro di questa era è stato quello sui migranti. Ma anche le migliori età adulte partono talvolta con un passo falso.
di Jakub Horňáček