La ormai cronica mancanza di manodopera qualificata comincia a pesare sulle prospettive di crescita del Paese. Škoda assume, ma Volkswagen rumoreggia per i vantaggi della casa ceca
Con un Pil in crescita del 4,3% ancora per il 2017, l’inflazione all’1,9% e con la più bassa disoccupazione di tutta l’Unione europea, la Repubblica Ceca si presenta come un piccolo paradiso di crescita economica e potenzialità. Ma come dice il famoso detto, non è tutto oro quel che luccica e se le stime del prodotto interno lordo per il 2018 parlano di un possibile rallentamento al 3%, secondo Eurostat, una delle spiegazioni potrebbe risiedere proprio in quel numero così basso di senza lavoro.
Dopo la crisi del 2008 e soprattutto in questi ultimi anni, Praga ha dovuto far fronte, come molti Paesi del centro-est Europa, alla mancanza di manodopera qualificata. Una situazione che sta già diventando un ostacolo alla crescita, soprattutto dell’industria, che cerca sempre più di reperire lavoratori dall’estero e chiede al governo di intervenire per rendere più semplici le procedure di assunzione di extracomunitari.
Intanto a novembre il tasso di disoccupazione è ulteriormente sceso al 3,5% (rispetto a una media europea dell’8,6% e al 5% ceco dello stesso mese dello scorso anno).
Una situazione avvertita soprattutto dalle grandi aziende industriali, in primo luogo dalla Škoda Auto, proprietà del colosso Volkswagen, nella quale è in corso un difficile negoziato con i sindacati per il rinnovo del contratto collettivo di lavoro, tutto questo dopo che la Škoda è stata investita, lo scorso autunno, dalle voci su un possibile spostamento di parte della produzione in Germania.
Il neopremier Andrej Babiš ritiene che la crisi del mercato del lavoro costituisca oggi il maggior ostacolo alla crescita della economia ceca e ha già annunciato una strategia diretta a fronteggiare questo problema. La prima delle misure che il nuovo primo ministro ha intenzione di attuare è quella di invertire la rotta del precedente esecutivo socialdemocratico, che ha concesso i permessi di lavoro a personale extra-Ue con il contagocce: “A prevalere è sempre stata la teoria secondo la quale avremmo altrimenti danneggiato i nostri lavoratori. Non sono d’accordo. Anche perché la mancanza di manodopera è un problema che si sta acuendo in maniera drammatica”, ha dichiarato Babiš.
Da alcuni sondaggi emerge che nel 2017 circa un quarto delle aziende industriali ceche si è trovata nella situazione di dover dire no a nuove commesse, in conseguenza proprio della carenza dei propri organici. A livello nazionale sono circa 200 mila le posizioni che rimangono scoperte e per le quali gli uffici di collocamento non riescono a trovare delle persone in grado di occuparle. Una situazione che nel 2018 rischia persino di aggravarsi.
La fame di lavoratori è tale che – in attesa che si velocizzino le procedure di ingresso degli extra comunitari, in modo particolare quelli di provenienza ucraina – si cerca di farli arrivare in maggior numero dagli stati Ue, in modo particolare dalla vicina Slovacchia, ma anche dalla Bulgaria, dalla Romania e persino da paesi della Europa sud occidentale. Da Spagna e Italia nel 2017 sarebbero arrivate alcune centinaia di lavoratori per l’industria ceca, situazione impensabile sino a qualche anno fa.
Oggi in Repubblica Ceca, paese di 10 milioni di abitanti, sono quasi 400 mila gli stranieri con un contratto di lavoro dipendente, una cifra raddoppiata dal 2004 e superiore di 100 mila unità rispetto al 2008. Questo per fare un quadro della forza lavoro di provenienza estera. Tre su quattro provengono da paesi Ue (162 mila sono gli slovacchi), seguiti da rumeni (32 mila), polacchi (31 mila) e bulgari (26 mila). Per quanto riguarda gli extracomunitari, l’assoluta maggioranza è costituita da lavoratori dipendenti ucraini (54.600).
Sindacati contro manodopera extra Ue a basso costo
Sul fronte degli arrivi extra Ue, in particolare dalla Ucraina, si è aperto un caso: i sindacati cechi sono nettamente contrari all’istanza di semplificare la assunzione di personale di questa provenienza, perché ritengono si tratti di un tentativo di far restare la Repubblica Ceca un paese con un basso costo del lavoro grazie allo sfruttamento delle fasce di cittadini extra-europei che si accontentano di salari nettamente più bassi di quelli che chiedono invece i cechi. Tanto più che questi ultimi – trascorsi quasi 15 anni dall’ingresso in Unione Europea – percepiscono stipendi pari a non più di un terzo di quelli che guadagnano i lavoratori tedeschi con qualifiche e posizioni analoghe.
Dati questi presupposti, è naturale che siano sempre di più gli aumenti salariali richiesti e ottenuti dai lavoratori cechi, con le aziende frequentemente costrette a cedere per non correre il rischio di perdere in personale. Gli incrementi retributivi a due cifre stanno diventando di questi tempi quasi una consuetudine, con impiegati o operai pronti a imbracciare l’arma dello sciopero per ottenere quello che chiedono.
Le aziende, per rispondere alle sollecitazioni del mercato e alla esigenza di aumentare la mole di attività, arrivano a inventarsi campagne di incentivo e reclutamento per trovare nuovi dipendenti e fidelizzare quelli attuali. Un caso esemplare è quello della Viscofan, produttore di pellicole naturali per alimentari, che ha avviato il programma “Cercati il tuo collega” che prevede un premio di 10 mila corone ai dipendenti in grado di segnalare o presentare un altro lavoratore da assumere. La RM Gastro, produttore di impianti per cucine, prevede in questi casi una ricompensa di 28 mila corone.
La fame di forza lavoro è tantissima e potrebbe aumentare nel prossimo futuro, rallentando, come detto, quella crescita del Pil che è rimasta sostenuta e forte in questi anni nonostante la crisi e i rallentamenti del Vecchio Continente.
Il caso Škoda
In questo quadro si inserisce il caso di Škoda, il secondo brand per profitti nella grande casa Volkswagen in termini di margine operativo e di target record per le vendite, i cui stabilimenti cechi già oggi non ce la fanno a far fronte alla domanda che giunge dal mercato.
La capacità produttiva del brand ceco è al limite e la casa madre Volkswagen rumoreggia per i vantaggi che Škoda ha per il combinato disposto di basso costo del lavoro e modernissima tecnologia tedesca. Una teoria che è stata contestata dai lavoratori cechi.
A ottobre ha fatto molto discutere la voce, poi smentita, di un possibile spostamento di parte della produzione in Germania. L’amministratore delegato di Škoda, Bernhard Maier, aveva subito dichiarato per calmare gli animi dei sindacati e dei dipendenti (pronti a fermare gli straordinari e il lavoro nel finesettimana), che la Repubblica Ceca resterà la casa di Škoda e che verranno assunti nuovi dipendenti per fronteggiare la domanda.
“Škoda sta lavorando al massimo della sua capacità, prova che la nostra strategia funziona – ha dichiarato Maier. – Al momento non riusciamo a coprire la richiesta mondiale dalla Repubblica Ceca e per questo stiamo cercando altre possibilità produttive”.
Škoda ha venduto 1,13 milioni di veicoli nel 2016, un record per la casa automobilistica ceca, che si avvia a essere superato nel 2017.
Tutti questi fattori – mancanza di manodopera, record di vendite, rumors di spostamenti della produzione – si inseriscono nel braccio di ferro per il rinnovo dei contratti collettivi in cui i sindacati chiedono un aumento degli stipendi a due cifre, e orari di lavoro più flessibili. In vista della fine di marzo del 2018, data entro la quale dovrà essere stipulato il nuovo contratto collettivo Škoda, le posizioni tra azienda e lavoratori sembrano distanti. Ma i rappresentanti sindacali sono convinti di avere tutte le ragioni per fare la voce grossa e ottenere i miglioramenti richiesti in busta paga. E ci sono tutti i presupposti perché il braccio di ferro per il rinnovo del contratto, per la risonanza e la rilevanza che avrà, possa costituire un punto di svolta anche per gli altri comparti e per il mondo del lavoro in Repubblica Ceca.
di Daniela Mogavero