Racconto del concerto diretto a Praga nel 1930 dal Maestro di Parma
“Dov’è l’impresario? Dov’è l’impresario?”. L’orchestra tace. Il Maestro sbraita furibondo. È il 23 maggio 1930, nella Sala Grande del Palazzo Lucerna a Praga, Arturo Toscanini, allora il più grande, il più discusso, il più geniale direttore d’orchestra dell’epoca, si prepara a dirigere la Philarmonic Symphony Orchestra di New York per un concerto evento, il suo primo, nella capitale della giovane Repubblica Cecoslovacca. Ma per lui, artista del suono puro, esigente fino all’ossessione, l’acustica della sala è un oltraggio e le prove del mattino una rozza cacofonia. Quando Jaromír Žid, organizzatore del concerto e una delle figure più importanti nella gestione degli eventi musicali in Cecoslovacchia, arriva faccia a faccia con il Maestro di Parma, il genio collerico sbotta senza filtri: “Come si è permesso di invitare qui una orchestra come questa?”. E incalza: “Questa non è una sala concerti, questa è tutt’al più una birreria”.
Puro stile Toscanini: l’impeto, l’esigenza, la perfezione a tutti i costi. Il concerto poi, sarà tutt’altra musica. Ne riparleremo. Ma per pesare il successo e l’eco di quella notte al Lucerna, salvata dal pubblico e dalla malia di un’esecuzione magistrale, serve fare un passo indietro, riavvolgere il nastro. È bene conoscere qualche ritaglio di vita e carriera di uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi.
L’astro Toscanini s’illumina quasi per caso, nel 1885 a Rio de Janeiro. Allora diciannovenne, e già talentuoso violoncellista, è scritturato per una tournée in Brasile. In una sera di giugno entrata negli annali, per un rocambolesco abbandono del direttore d’orchestra, si trova proprio lui, giovanissimo, ma già melomane fine ed enciclopedico, a dirigere l’Aida di Giuseppe Verdi. Sarà il primo grande colpo di teatro di una carriera durata quasi settant’anni. Davanti alla platea di Rio chiude lo spartito e comincia a dirigere l’opera verdiana a memoria. Quella notte, sotto il cielo brasiliano, Toscanini s’impone. È la sua prima volta.
Rientrato in Italia, la sua carriera sarà un succedersi di sfide e successi. Prima violoncellista alla Scala di Milano, dove incontra Giuseppe Verdi, che venera come musicista e come uomo. Poi, dal 1895, direttore stabile del Teatro Regio di Torino per cinque anni. Seguiranno la Scala, da direttore stavolta, e l’America. Il ritorno s’impone, per un grande patriota come lui, durante la Prima guerra mondiale. Nel 1917 è capace di dirigere la banda militare sul fronte dell’Isonzo sotto le bombe del nemico. Fa della musica un impegno, un’arma, un’etica. Celebrato come il più grande rivoluzionario dell’interpretazione della musica classica, Toscanini è stato anche un fiero antifascista, un artista resistente contro Mussolini e Hitler. Ma questa è un’altra storia. Tornando all’opera e al teatro, a lui si deve l’imporsi prima a Torino poi alla Scala della nuova concezione teatrale di ispirazione wagneriana: buio in sala, orchestra in fossa e niente applausi. Condizioni diventate canoniche ma che a suo tempo spiazzano critica e pubblico: in diversi lo attaccano, ma lui continua cocciuto sulla sua strada. Talento strepitoso, disciplinato, le sue esecuzioni diventano ben presto dei riferimenti di stile e bellezza.
Un repertorio di classici, Beethoven, Puccini, Brahms, ma soprattutto Verdi e Wagner, il tutto in stile Toscanini, sempre fedelissimo alle indicazioni del compositore. La famiglia di Wagner si complimenterà con lui per l’esecuzione straordinaria di Tristano e Isotta; Verdi farà lo stesso: gli lascia un biglietto con scritto «Grazie», un biglietto che il Maestro porta sempre con sé. Questo è Toscanini, un genio caratteriale, testardo, impetuoso, ma assediato da una costante infelicità: “Io sono un disgraziato, a nessuno come a me questo teatro amareggia la vita, e il problema è che a mia volta la amareggio agli altri così, inconsciamente, senza colpa”.
L’esigenza che lo fa il più grande, lo logora ad un tempo. Ora, fin troppo facile immaginare la collera del grande Maestro quando nella sala del Lucerna, costruita tre piani sottoterra e inaugurata solo dieci anni prima, nel 1920, suona tutto male. Lui, abituato alle scene più prestigiose, ai suoni più puri, lui che per quasi dieci anni, dal 1908 al 1915 aveva diretto al Metropolitan Opera House di New York gli spartiti dei più grandi compositori, interpretato prime mondiali passate alla storia. E pensare che l’insolita sala da concerto praghese, parte di un complesso progettato dal nonno di Václav Havel, era considerata come uno dei fiori all’occhiello dell’architettura cecoslovacca di inizio secolo.
Il Lucerna, la cui atmosfera e i suoi spazi sono ispirati al gusto art déco newyorkese degli anni ‘20, vedrà passare artisti del calibro di Ella Fitzgerald, Luis Amstrong e Ray Charles, ma la presenza sonora di un’orchestra abituata a riempire le grandi Opere delle capitali mondiali è troppa anche per questo salotto splendente della Praga aristocratica di inizio secolo. I marmi, i ricchi lampadari e gli specchi non reggono di fronte all’esigenza musicale del grande Maestro. Ma nemmeno un Toscanini, capace di plasmare la musica come un tessuto pregiato, può niente contro “il circolare delle onde sonore nell’aria”. Il miracolo, se di miracolo si può parlare, lo farà il pubblico della sera, la calca di una sala gremita, la presenza fitta del pubblico in quella sala “profondata nel suolo come una catacomba” trasforma il rumore in melodia. Così, l’articolo del Corriere della Sera datato 24 maggio 1930, finirà per celebrare “un’altra serata trionfale” del Maestro, contrappasso felice della catastrofe delle prove mattutine: “Questa molto ampia sala Lucerna, profondata nel suolo sotto il livello stradale e cavernosa quanto lo può essere la cavità di un timpano, è sembrata di una acusticità tale da battere tutti i record delle cattive sale da concerto visitate finora. Stamane le voci dei corni rassomigliavano a quelle dei tromboni e le sonorità degli archi apparivano tanto grasse da perdere ogni lucentezza”.
Se il Toscanini della scena è noto per la gestualità asciutta e precisa, quello delle prove è portato da un impeto verbale e fisico. Quando lavora alla preparazione di un’opera è un fiume in piena, che grida contro i suoi musicisti, prigioniero di un’ansia di perfezione senza eguali. Lui che aveva una memoria fuori dal comune, quella giornata praghese non la dimenticherà più. E nemmeno l’impresario Žid che qualche anno più tardi, quando Toscanini dirigeva la Filarmonica di Vienna, va a trovare il Maestro con l’intento di portarlo nuovamente a Praga. “A Praga posso venire, ma al Lucerna sicuramente no!”. Discussione chiusa.
E nonostante tutto il concerto di Praga – una delle quindici tappe di una tournée europea di grande prestigio che aveva attraversato metropoli come Londra, Parigi, Vienna e Roma – fu un grande successo di pubblico ed un evento musicale senza pari per la giovane Repubblica. Almeno tremila persone della buona società praghese dell’epoca vennero ad ascoltare le note dei grandi nomi della musica classica tedesca: Beethoven, Wagner e Mendelssohn, tra gli altri. Del resto una gran parte degli spettatori parlava la lingua di Goethe: gli intellettuali e la ricca borghesia ebrea della Praga degli anni trenta.
Ma Toscanini “che non trascura, ovunque passi il meglio della produzione del luogo quando essa sia produzione espressa con arte nella lingua musicale propria del popolo”, come riporta con enfasi il Corriere, suona anche le note dolci, impetuose, struggenti di Vltava, una parte del poema musicale di Smetana, Má vlast (Mia Patria). Come prevedibile le note del grande compositore ceco, che aprono la seconda parte del concerto, infiammano la platea che non trattiene gli applausi.
Tra loro, nel palco d’onore, il primo Presidente della Cecoslovacchia Tomáš Masaryk, grande intellettuale e uomo di lettere. Proprio per lui l’inizio del concerto era stato posticipato di mezz’ora, alle ore venti. Non voleva perdere una sola nota del grande Maestro italiano, e così fu, per due minuti appena. Entrato in sala il Presidente, Toscanini apre la grande cavalcata, rimediata, del Lucerna. Che si chiude con la folla in visibilio e Masaryk in piedi ad applaudire il genio del direttore italiano. Capace di brillare anche in questa splendida, sotterranea, disarmonica “birreria”.
di Edoardo Malvenuti