Nell’estate del 1989 i tedeschi della Ddr invasero Praga per fuggire verso la libertà. L’esodo tedesco portò allo sgretolamento del muro di Berlino
Trabant abbandonate ovunque lungo le strade. Le vie Vlašská e Tržiště coperte di spazzatura e avanzi di cibo. Qua e là qualche valigia bagnata dalle prime piogge di fine estate. Così gli abitanti del quartiere di Malá Strana ricordano i giorni successivi la fuga dei tedeschi della Ddr verso la libertà, passando per l’Ambasciata della Germania Federale di Praga.
“Era una giornata come le altre quella tarda estate del 1989 quando, all’improvviso, i tedeschi della Ddr cominciarono ad arrivare in massa, molti in treno, altri con le loro Trabant, automobili simbolo della Germania Est. La piazzetta all’incrocio con la Šporkova iniziò a gremirsi”, ricorda un anziano, uno dei pochi che ancora vive nel quartiere. Il personale dell’ambasciata di Bonn si trovò impreparato, non sapeva come reagire. “Fu qualcosa di inimmaginabile. Nessuno poteva credere a ciò che stava accadendo. Persino la polizia cecoslovacca rimase sbalordita e impassibile, in attesa che qualche ordine giungesse dal Castello”.
L’Istituto Italiano di Cultura si erge davanti al Palazzo Lobkowicz, sede della missione diplomatica tedesca, e alcuni dipendenti ricordano bene quei giorni. “I rifugiati riempirono la piazza coi loro bagagli: qualche coperta per coprirsi, pochi oggetti personali e soprattutto la grande speranza di potersi ricostruire un vita al di là del muro” ricorda una dipendente. “Durante la notte, molti cercarono rifugio all’interno delle chiese e delle case abbandonate. All’epoca, tutti gli edifici di Praga erano sempre aperti, incluso il nostro istituto. Alcuni di loro iniziarono a servirsi dei nostri bagni o si infiltravano semplicemente per cercare un riparo. Un andirivieni di uomini, donne e bambini, davanti al quale restammo increduli”.
All’epoca, l’Istituto Italiano di Cultura era molto attivo e considerato tra le più eccellenti e importanti istituzioni nella capitale boema. “I rifugiati approfittarono del nostro programma culturale, nella speranza che il tempo passasse più velocemente”. Racconta ancora l’impiegata. “In quelle settimane, proiettammo i grandi capolavori dei più famosi registi italiani: Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini. Ma ricordo che fu soprattutto Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli a riscuotere il maggior apprezzamento, tanto che venne proiettato fino a tre volte al giorno per un’intera settimana. Anche Portiere di notte, diretto da Liliana Cavani, ebbe un successo sensazionale. Ricordo un particolare: anche i poliziotti cecoslovacchi si recavano all’istituto per vedere i film. Solitamente si presentavano in divisa per acquistare i biglietti, ma giungevano alle proiezioni serali vestiti in borghese, mescolandosi tra la folla di rifugiati. Un qualcosa per certi aspetti inaudito”.
Nel tentativo esasperato di porre fine a quella situazione, della quale ormai tutto il mondo parlava, Erich Honecker – segretario generale del Comitato centrale della Sed, il partito socialista della Ddr – offrì la possibilità ai suoi concittadini di emigrare verso la Germania occidentale entro sei mesi a patto che fossero immediatamente tornati in patria. Quasi nessuno credette alle sue parole temendo fosse un tranello.
Quella crisi costituiva un duplice imbarazzo per Berlino est: da un lato, non voleva dimostrarsi debole agli occhi dell’Unione Sovietica, guidata da Michail Gorbačëv, in un momento così importante quale il 40° anniversario della fondazione della Repubblica Democratica Tedesca; dall’altro, quella fuga avrebbe spinto tanti altri tedeschi dell’Est a scegliere la medesima strada e fuggire verso Ovest.
La Cecoslovacchia aveva deciso di non intervenire, se non in casi estremamente urgenti o gravi. Il Castello di Praga, guidato dal Presidente Gustav Husák, non poteva schierarsi, in quanto il paese era indubbiamente appartenente al blocco sovietico e legato agli altri stati dell’Europa orientale, ma allo stesso tempo la propria economia era alimentata soprattutto grazie agli scambi commerciali con la Repubblica Federale di Germania, ovvero quella occidentale. Il Ksč, il partito comunista cecoslovacco decise, quindi, di non intervenire e di lasciare la risoluzione della crisi alle due Germanie.
“Il cielo era tinto di un azzurro particolare in quei giorni a Praga. Il tempo cambiava continuamente come se volesse preannunciare un cambiamento epocale imminente. Donne e bambini piangevano. Gli uomini urlavano affinché l’ambasciata della Germania federale aprisse il grande portone di legno” racconta un altro anziano praghese. All’inizio di settembre, il governo di Bonn decise finalmente di aprire il portone del Palazzo Lobkowicz e i profughi cominciarono ad ammassarsi nel giardino. Si mobilitò la Croce Rossa per allestire tende e fornire assistenza, coperte e cibo. Altri continuarono ad arrivare nei giorni seguenti. In molti cercarono di scavalcare il muro di recinzione nel tentativo di mettersi al sicuro. Emblematico il caso di una giovane donna incinta che, appena scavalcato il muro di cinta, urlò alla folla che suo figlio sarebbe nato in un mondo libero. Parole alle quali seguì l’emozionante applauso degli altri rifugiati.
Le piogge autunnali intanto trasformarono il terreno del parco in un acquitrino di fango. Più di 4000 tedeschi, tra cui 300 bambini, erano stipati al suo interno, con servizi igienici del tutto inadeguati. Alto il rischio di una epidemia. Le ampie scalinate di Palazzo Lobkowicz, vennero trasformate in dormitori, un giaciglio di rifugiato per ogni gradino. La situazione andava aggravandosi di giorno in giorno, rendendo necessario un dialogo aperto con Berlino Est.
Il momento liberatorio il 30 settembre 1989. Il ministro degli esteri Hans Dietrich Genscher giunse a Praga e alle sette di sera si affacciò al balcone di Palazzo Lobkowicz per annunciare l’accordo raggiunto. Lo stesso ministro, anche se in circostanze diverse, era fuggito dalla Ddr nel 1952 e probabilmente nessuno meglio di lui poteva comprendere la tragedia di quei disperati. “Siamo venuti per farvi sapere che oggi potete partire”. Quelle poche parole vennero accolte da lacrime di gioia e respiri di sollievo.
La sera stessa, il primo treno blindato partì dalla stazione di Praga-Libeň in direzione Hof, cittadina bavarese al confine tra i due stati tedeschi. L’unico inconveniente fu la richiesta da parte della Ddr di far transitare i treni attraverso il proprio territorio in modo da poterli formalmente espatriare dalla Germania Est. In pochi giorni svariati treni della libertà, così come vennero denominati, trasportarono migliaia di tedeschi alla frontiera.
“Le Trabant e le Wartburg rimasero a lungo parcheggiate senza più alcun proprietario nelle vie di Malá Strana. Ma ricordo come un’unica automobile rimase per svariate settimane a Malostranské Náměstí, dietro la Chiesa di San Nicola, quasi ad ammonire il popolo cecoslovacco che anche per loro era giunto il momento di una rivoluzione” sostiene un ex commerciante del quartiere. Rivoluzione che portò, il 17 novembre di quello stesso anno, alla caduta del regime comunista e all’elezione, a fine dicembre, di Václav Havel, primo Presidente democraticamente eletto in Cecoslovacchia.
Grazie a questo episodio, spesso non sufficientemente ricordato, il sogno di libertà di molti uomini iniziò a realizzarsi. Il muro di Berlino, emblema della Guerra Fredda e della divisione in due blocchi contrapposti del Vecchio Continente, vacillò e iniziò a sgretolarsi proprio a Praga, per infine cadere, meno di 40 giorni dopo, sotto gli occhi del mondo intero, segnando l’inizio di una nuova era.
di Alberto Lora