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Viaggio nel borgo di Rixdorf, dove anche la birra ha un sapore diverso

Berlín “česká vesnice”? Berlino come villaggio boemo? Fra le pieghe della Storia, è noto, si supera la fantasia. Gli artigiani del ferro cechi erano apprezzati in tutta l’Europa già dal Medioevo per la loro abilità e il loro valore: figurarsi allora se in una città, che oggi conta quattro milioni di abitanti, non possa esistere anche una colonia boemo-morava. Proprio così: erano sparsi un po’ ovunque nella Europa del Secolo di Ferro e arrivarono anche qui.

I nostri scelsero Berlino sin dalla prima metà del XVII secolo, per continuare a professare la loro fede, e svolgere la loro attività lontano dalle persecuzioni cattoliche e dalla spada del feroce Wallenstein. Nel secolo successivo, intorno al 1720/1724, si svolse una nuova ondata migratoria di alcune centinaia di boemi e moravi che, protetti dal re prussiano Federico Guglielmo I, andarono a occupare il borgo di Rixdorf, in quella che oggi è la Groß-Berlin, la Grande Berlino. Un “quartiere” che seppure piccolo, esiste ancora oggi.

Cechi “tedeschizzati” insomma, mantenendo per lungo tempo, almeno sino agli anni ‘60 di questo secolo, con estrema determinazione, la propria lingua e le proprie abitudini. Una enclave, Rixdorf, il “boemische Viertel”, dove ancora oggi la birra ha un sapore un po’ diverso e dove Jan Hus e Comenio sono nomi che esigono un estremo rispetto.

L’abbiamo trovata facilmente, questa “colonia ceca” dentro la metropoli tedesca. Ironia del destino di un paese che ha sempre rosicchiato i confini dei propri vicini.

Allora, andiamo sul campo. Addentrandoci proprio al confine fra la vecchia Berlino Ovest e l’area un tempo definita “comunista”, si arriva al quartiere di Neukölln.

Prima considerato come zona disagiata, privo di grandi risorse economiche ma allo stesso tempo caratteristico nella sua unicità, Neukölln mantiene un’attrattiva particolare. Tanto che il regista Detlev Buck ha deciso di ambientarci il suo “Knallhart”, film che descrive il sofferto rapporto fra una famiglia tedesca e i nuovi immigrati asiatici.

Si può arrivare qui nella “piccola Praga” a piedi, camminando leggeri, una volta scesi alla fermata Rathaus Neukölln della S-Bahn, oppure procedere lungo Karl Marx Strasse. Come altre zone, anche Neukölln ha diverse anime: quella turca, forse oggi prevalente nei suoi “doner kebab” e nei suoi caffè, quella proletaria testimoniata da diverse lapidi che ancora inneggiano agli “spartachisti”, quella degli studenti di provenienza cosmopolita, che scelgono il quartiere per i suoi affitti ancora relativamente bassi, quella della atmosfera dei tempi della guerra fredda… E infine quella ceca, che cerchiamo noi.

Inattesa, imprevista, impensabile, discreta, ecco la Berlino di Rixdorf. Talmente discreta che potreste passarci accanto senza accorgervene. Ci sono però alcuni segnali inequivocabili, per occhi più attenti. Lasciandoci alle spalle la Karl Marx Strasse e fatte poche centinaia di metri, ci si inoltra in stradine di case basse a un solo piano, dal tetto spiovente e tutte circondate da un giardino. Muta anche l’aspetto delle indicazioni stradali e delle vie, le strade sono di acciottolato, cambia gradualmente l’atmosfera, che non è solo architettonica, ma anche estetica, aumentano gli alberi, quasi tutti tigli ma anche meli, c’è un prato con attrezzi e giochi per i bambini.

Improvvisamente quindi, quasi senza rendersene conto, si è finiti in un villaggetto che potrebbe trovarsi senza problemi in Vysočina oppure Šumava. Terra tedesca permeata di temperamento ceco. Ecco Jan Hus ulice, ecco Comenius ulice. C’è, proprio al centro di Richardplatz, il cuore del borgo, un monumento a Federico Guglielmo I di Hohenzollern, (1688 – 1740), conosciuto come il Re Soldato.

Una chiesa protestante dalle guglie gotiche, bandiera di una fede indoma, ha il nome di Bethlehemskirche, una bottega artigianale mostra il lavoro del fabbro, un deposito di arnesi, un cimitero sempre con le solite scritte in ceco.

Superata una salutare diffidenza, sguardi furtivi che vi inseguono dalle finestre, si capisce di essere arrivati al centro di Rixdorf. Un piccolo museo, cui si accede da un cancelletto verde, e circondato ancora da un giardino, racconta la storia della antica comunità morava. Fu poi Federico il Grande a dare a Rixdorf una sorta di ufficialità, elevandolo a villaggio, anzi a borgo.

Ma chi erano, quanti furono questi profughi boemi che quasi quattro secoli fa scelsero proprio la capitale prussiana per inventarsi una nuova vita? “In massima parte artigiani ma anche minatori – spiega Saabine , che abita nel posto ma è tedesca anche d’origine. – Molti di loro hanno mantenuto i cognomi e sino a pochi decenni fa anche la lingua. Pacifici, è certo, ma li riconosci subito per un non so che…” chiarisce prima di andarsene. Misteri della Berlino multietnica?

Tentiamo di entrare nel piccolo museo, ma un signore, dai tratti burberi, ci dice non vi sia “niente di interessante da vedere”… facendo intendere che non siamo graditi.

Resta l’antica bottega del fabbro. Qui un artigiano sta ancora battendo il ferro sull’incudine, si vedono scritte bilingui, le testimonianze di una comunità ancora attiva. Va bene, siamo autorizzati a un giro panoramico tra ferri per cavalli e mantici accesi. La testimonianza “classica” e ufficiale è però la birreria con terrazza. Elegante, frequentatissima, deve risalire probabilmente agli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, e presenta nel suo menu anche piatti di ispirazione boema. Non è una “Kneipe” berlinese, potrebbe forse essere una vinárna aggiornata… un occhio al menu: è vero, lo stinco si mangia anche qui, ma i canederli, oppure le carpe marinate denotano altre origini. Dalle dimensioni e dal tipo di architettura, doveva essere un’altra fattoria trasformata in ristorante. Si alternano muri bianchi di cemento ai mattoni rossi che in questa capitale sono ancora frequenti. Arriva una ragazza in bicicletta. È una studentessa: “Sì, i cechi ci sono, sono arrivati anche dei giornalisti per intervistarli, ma non tutti gradiscono la pubblicità…” spiega lapidaria. In compenso, fra un ristorante sardo e un alberghetto dedicato a “Kafka”, qui è molto attiva la chiesa evangelica, con centri sociali e un’area che è un Kindergarten. “Non si tratta solo della cosiddetta “minoranza boema” – spiega padre Jorg. – Rixdorf ha molte anime, noi cerchiamo di tenerle insieme, di evitare tensioni, di fornire servizi sociali”. Ecco una biblioteca per i libri in prestito, testi religiosi e manuali di meccanica insieme, un “servizio di ascolto”, un centro di recupero non meglio specificato.

In un caffè, dal nome morbido di “Zuckerbaby” ci spiegano forse una parte di verità: “Rixdorf è sempre stata un’area di confine, già da quando la città era divisa – spiega il proprietario. – È un microcosmo fermo nel tempo. Bisogna dimenticarsi di essere in una metropoli di quattro milioni di abitanti. Qui c’è solo un piccolo villaggio, dove tutti sanno tutto di tutti. Puoi parlare in tedesco, ceco, italiano, turco persino. L’importante è non fare chiasso, rompere quest’atmosfera che ha mantenuto il villaggio intatto nei secoli”.

Armonie inattese, fucine di fabbri e lampi hussiti nella città che non si ferma mai.

di Ernesto Massimetti