La località termale ceca è meta privilegiata di arrivi dalla Federazione. Cercano relax e possibilità di investimento. Numerosi i russi che vi si stabiliscono
Il cirillico dappertutto. Nelle insegne di negozi e ristoranti, nei manifesti rivolti ai turisti, il russo primeggia, spesso in forma esclusiva, con poco riguardo per l’inglese, il tedesco e persino per il ceco, la lingua locale.
Mentre si cammina fra eleganti palazzi liberty e imponenti colonnati neoclassici, Karlovy Vary si presenta come una enclave russa nel cuore dell’Europa centrale.
“In una città turistica come questa l’uso delle lingue straniere è necessario, ma non capiamo il perché di tutte queste scritte in cirillico, come se ci fossero solo loro” si lamenta quasi con sdegno una coppia di anziani cechi, pensionati, in villeggiatura per qualche giorno. Tutt’intorno, intanto, non si sente che parlare russo.
L’armonioso insieme di natura e architettura crea un panorama eccezionale e il sole primaverile fa splendere la cittadina in tutta la sua eleganza. Tutt’attorno la stretta valle del fiume Teplá, il cui nome significa “caldo” perché le sue acque non gelano mai, neanche durante gli inverni più freddi. Karlovy Vary, 50mila abitanti, deve il suo nome a Carlo IV, re di Boemia e imperatore del Sacro romano impero, che la fondò nel XIV secolo.
I russi che ufficialmente vi risiedono sono circa tremila, ma la cifra reale è di certo più elevata. La loro presenza si nota principalmente nel centro storico, dove sono di loro proprietà non solo la maggioranza delle case, ma anche molti negozi, alberghi e altre attività commerciali.
Nel piccolo scalo cittadino – l’International Airport Karlovy Vary – i voli di linea sono solo tre, con collegamenti per Mosca, San Pietroburgo ed Ekaterinburg. Gli arrivi sono quotidiani e gli aerei quasi sempre al completo. Portano i classici ospiti termali, che affollano i prestigiosi hotel e le case di cura per soggiorni benessere. Inconfondibili, passeggiano in prossimità delle fonti e sorseggiano dalle tipiche fiaschette l’acqua ad alto contenuto di minerali.
Prima di ripartire si riempiono le valigie di souvenir: cristalli e porcellane di produzione locale, poi i tipici wafer, i Karlovarské oplatky. A ruba le bottiglie di Becherovka, il liquore alle erbe, che fra i suoi principali mercati di esportazione ha proprio la Russia.
La città è poi invasa dai turisti russi che giungono per la classica visita di una giornata. Il campo base del loro soggiorno è Praga, ma una puntata a Karlovy Vary è d’obbligo. Procedono a grupponi, quasi ad ondate, accompagnati da guide che inevitabilmente dedicano buona parte dell’itinerario a ricordare gli antichi rapporti della città termale con la Russia.
“Il legame è di antica data e risale ai primi del XVIII secolo, quando lo zar Pietro I vi giunse in villeggiatura. Fu allora che gli aristocratici russi, scelsero Karlovy Vary come la loro destinazione preferita di soggiorno termale” spiega Tamara, guida turistica. Approfitta di una sosta per fumare una sigaretta, mentre alcuni suoi clienti sono raccolti in preghiera nella basilica ortodossa dei santi Pietro e Paolo, tappa obbligata del tour. La chiesa è uno degli edifici più preziosi di Karlovy Vary, con le sue cupole a cipolla dorate e gli interni adornati con icone riccamente decorate. “La costruzione risale al 1898 e fu realizzata grazie alle generose donazioni di ricchi pazienti russi, che già allora erano numerosissimi” spiega Tamara.
Appena poche centinaia di metri più in là, in una villa circondata da un parco, su una via intitolata a Pietro il Grande, si trova la sede del consolato generale della Federazione russa. Funzionava già durante il periodo pre ‘89, al tempo della Cecoslovacchia comunista, quando queste terme erano fra le destinazioni predilette dagli ufficiali e dalle alte gerarchie sovietiche. L’hotel preferito era anche allora il monumentale Imperial, in art déco, che svetta in posizione elevata. Oppure lo splendido Grandhotel Pupp, in stile neobarocco, considerato uno tra i più famosi alberghi d’Europa.
Dopo la rivoluzione del 1989 e la caduta del muro di Berlino, da queste parti sono arrivati i nuovi ricchi dell’ex Urss, pronti a investire e a fare incetta degli immobili più prestigiosi.
Oggi, dalle statistiche catastali, risulta che a Karlovy Vary buona parte degli edifici della zona storica sia di proprietà di cittadini russi, o comunque di società riconducibili a proprietari di tale provenienza. “Sono loro i migliori clienti e gli assoluti protagonisti di questo mercato immobiliare. Generalmente non si tratta di ricchissimi, di oligarchi che possono permettersi case a Parigi o a Londra. Piuttosto benestanti, attirati dal nome e dal prestigio di Karlovy Vary, che vogliono fare un buon investimento. Parlano russo, ma non tutti sono russi. Tanti quelli originari delle ex repubbliche sovietiche” spiega l’impiegato di una agenzia immobiliare. Le vetrine sono rivestite di annunci in cirillico. “Numerosi quelli che negli ultimi venti anni vi si sono stabiliti, lasciando definitivamente i loro paesi di origine, ma non mancano i proprietari che giungono solo per brevi soggiorni, durante la stagione termale”.
I cittadini locali assistono a questa invasione con una varietà di sensazioni. Alcuni storcono il naso, spesso avanzando dubbi su certo benessere. “Chissà da dove arrivano tutti questi soldi? Sono molto riservati e di integrazione neanche a parlarne” spiega una donna che dice di abitare in periferia.
“Personalmente mi condizionano le esperienze del passato e gli ultimi fatti dell’Ucraina rafforzano tale sensazione. Questa invasione non mi piace. I russi qui sono da sempre abituati a comportarsi da padroni. È un po’ come se fossimo ancora ai vecchi tempi, quando eravamo un paese occupato”. Con meno preconcetti il parere di Tomáš, che gestisce un piccolo ristorante appena al di fuori dalla zona più turistica: “Hanno portato tanti soldi e per la nostra città sono fonte di benessere e di sviluppo. Come clienti sono il meglio che si possa avere. Consumano e pagano senza stare troppo a pensarci. Tutto il contrario dei tedeschi, spesso addirittura taccagni”.
di Giovanni Usai