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La conferenza del maggio 1963 sull’autore praghese che mise in moto la rivoluzione culturale degli anni Sessanta

Franz Kafka oggi è un nome che fa parte di Praga: musei, souvenir, statue, vie, ristoranti, riferimenti in ogni dove, Kafka è ovunque, compagno di viaggio a sua insaputa di ogni turista. Nulla sorprenderebbe meno un passante di leggere sul giornale la notizia di alcuni intellettuali che si incontrano per parlare delle opere dello scrittore praghese, in un anniversario della sua nascita.

Eppure, quando questo accadde nel 1963 (Franz era morto già da quasi quarant’anni), un intero sistema si sentì vacillare. Nel primo decennio della Cecoslovacchia socialista infatti, il suo nome andava sussurrato. Niente casa, niente museo, il vecchio presidente Klement Gottwald, preso il potere nel ‘48, avrebbe voluto cancellarne il nome, mentre in Europa si pubblicava freneticamente.

Kafka era infatti divenuto uno scrittore di fama internazionale parecchi anni dopo la sua morte, negli anni della seconda guerra mondiale. Nei paesi dell’est però era ritenuto dai vari gotha di partito uno scrittore borghese, da evitare, non in sintonia con l’edificazione del socialismo. I temi al centro della sua produzione, come la decadenza, l’alienazione, erano al di fuori della perfezione comunista.

Introduciamo ora un altro personaggio: Eduard Goldstücker. Professore di letteratura tedesca, scappato dai nazisti nel ‘39 per le sue origini ebraiche, comunista della prim’ora, finito nel tritacarne delle purghe staliniane nel 1951. Quattro anni in un campo di lavoro, poi la destalinizzazione, la lenta riabilitazione. In breve, uno che ne aveva passate parecchie. Ormai cinquantenne, con le spalle irrigidite dal passato, nel 1962 propone all’Unione degli Scrittori una conferenza su Kafka per l’anno successivo, ad ottant’anni dalla sua nascita. Dice loro che Kafka era un figlio di Praga, vi aveva vissuto e scritto, tutto il mondo discuteva delle sue opere e sempre più appassionati arrivavano nella Città d’Oro per tentare di seguirne le tracce. Perché dunque proprio a Praga doveva rimanere un tabù? Nel comitato politico rimangono dei malumori, dei tentennamenti: dall’alto non arrivano da tempo più direttive in merito, il Partito è spiazzato, ma non rifiuta. Si apre un piccolo spazio, e il professor Goldstücker ci si lancia. A marzo 1963 annuncia la conferenza in un dibattito organizzato nello Slovanský dům: la sala è gremita e gli studenti universitari sono entusiasti. Un funzionario dal nome di Ladislav Stoll, un piccolo stereotipo del burocrate attaccabrighe, messo lì per minare l’atmosfera, tenta di minimizzare l’autore con un lungo discorso pieno di strafalcioni: l’audience praghese conferma il suo celebre humour non facendolo parlare con la tecnica (sopraffina!) dell’applauso ritmato, ovvero: applaudire ogni parola, finché l’oratore non esce sbattendo la porta.

Con questo buonumore e, forse, un accenno di rivalsa, Eduard Goldstücker apre la conferenza nel castello di Liblice, una delle tante sedi dell’Accademia della Scienza Cecoslovacca. È lunedì 27 maggio 1963, il meeting dura due giorni, raccogliendo interventi di scrittori e intellettuali marxisti, cechi ed internazionali sulla figura di Franz Kafka. Una breccia viene aperta. Gli editori riprendono a pubblicare le sue opere in Cecoslovacchia, poi di seguito in Polonia, in Ungheria, anche in Unione Sovietica (dove, in un buffo ma peculiare esempio dell’era sovietica, l’autore viene ora sì tradotto in russo, ma ne è vietata la vendita nel Paese: solo per l’export) e per ultimi nella Germania dell’Est, dove il ritardo non può essere attribuito alla traduzione (Kafka, si sa, scriveva in tedesco), quanto ai timori non sopiti che qualcuno a Mosca non si sia accorto dell’abbaglio. Proprio in Germania Est il Partito tenta addirittura una contro-conferenza per denunciare il “revanscismo borghese degli intellettuali praghesi”: inutile dire, ne viene fuori un fiasco.

Roger Garaudy, intellettuale comunista che partecipa per il partito francese alla conferenza, al rientro in patria pubblica sul mensile “Les Lettres Françaises” un editoriale dal titolo “La primavera di Praga”: ecco da dove arriva l’epiteto originale, tanto azzeccato che sarà poi ripreso dai media occidentali per descrivere gli eventi del 1968. Non a caso: il mondo della cultura, negli anni Sessanta cecoslovacchi, è fondamentale. Privi di una Chiesa che, sottobanco, indirizzi il senso morale del popolo (come succedeva pochi chilometri più a nord, in Polonia), da Praga a Bratislava sono gli intellettuali i referenti della gente comune. Il settimanale degli scrittori, il Literární noviny, aveva una tiratura di oltre 100 mila copie (fino a 150 mila nel 1968). Così succede che lo schivo, pudico Franz, quarant’anni dopo la sua morte diviene la famosa “penna che ferisce più della spada”. Testa d’ariete per il rinnovamento culturale, che come una valanga cresce veloce e cambia il Paese. Dopo Kafka è il tempo dell’economia, cambiano i vertici dell’Accademia delle Scienze, cambiano i vertici del Partito nelle segreterie ceche e slovacche (un nome su tutti comincia la sua carriera in quel ‘63: Alexander Dubček diventa primo segretario del Partito Comunista Slovacco).

Poi, i carri armati sovietici, la normalizzazione, il silenzio. Leonid Brežněv si chiede incredulo come abbiano fatto i cecoslovacchi ad andare così lontano. I suoi cercano un capro espiatorio, oltre i politici, oltre gli intellettuali, finché dalla Ddr il responsabile culturale comunista, Alfred Kurella, può finalmente far l’occhiolino a Mosca con un articolo sul Neues Deutschland: “Franz Kafka, il padre spirituale della controrivoluzione cecoslovacca”.

Il povero Franz, strattonato da una parte e dall’altra, non trova pace nel suo cimitero ebraico di Žižkov.

Eduard Goldstücker, da parte sua, trova rifugio in Italia, come molti politici del nuovo corso. È qui che racconta la sua storia, nel 1981, in un libro edito da Editori Riuniti (il titolo “da Praga a Danzica”, tentava un parallelismo con la dissidenza civile di Solidarność).

Questa storia continua con la Rivoluzione di Velluto, il benvenuto all’economia di mercato. Il nome di Kafka torna in città da eroe, ma in un mondo che non gli appartiene. Meno cultura, tutto marketing. Cartoline, magneti, portachiavi, set di carte da gioco, magliette, cuscini, accendini.

Così arriviamo ad oggi, cinquant’anni dopo la conferenza di Liblice, centotrent’anni dopo la sua nascita. Lui, Franz, viene portato in giro nelle buste di plastica di ogni turista, silenzioso tra gli acquisti, nessun messaggio, nessuno scandalo.

Eppure un tempo, il suo nome, faceva saltar giù dalla sedia i dittatori.

di Giuseppe Picheca