John Madden, Praga e la storia di una rivoluzione calcistica mitteleuropea
Tutti, nel 1905, quando John Madden riapparve all’improvviso dopo aver fatto perdere le sue tracce per quasi dieci anni, si chiesero quale buon vento avesse spinto proprio a Praga questo signore scozzese col baffo da moschettiere. Di versioni se ne formularono tante, ma secondo una delle storielle più accreditate dietro all’arrivo di Madden nell’odierna Repubblica Ceca c’era una questione sentimentale. In molti, infatti, erano convinti che si fosse invaghito di una ragazza del posto, durante una tournée con il Celtic Glasgow: probabilmente si trattava proprio della sua futura moglie Františka, da cui avrebbe avuto il suo unico figlio, Harry, promettente centrocampista suicidatosi giovanissimo gettandosi sotto un treno dopo una delusione d’amore.
Di lui, in generale, si sapevano solo poche cose, ma tanto era bastato per avvolgerlo in una sorta di aura leggendaria. In un calcio di pionieri come quello, lontano dallo sguardo indiscreto di una cinepresa e dalla mondanità di oggi, bastava un soprannome per costruirci sopra una reputazione. Un uomo, in sostanza, era la sua nomea. Sin da quando era un giovane ma prestante attaccante del Celtic Glasgow, come la maggior parte dei suoi colleghi anche Madden se ne portava appresso uno: lo chiamavano “The Rooter”, il “Devastatore”, perché dai suoi piedi partivano tiri terrificanti, di una violenza inaudita, talmente travolgenti da lasciare per qualche secondo la sensazione di poter abbattere addirittura la porta. Con i Bhoys vinse tre campionati di Scozia sul finire dell’Ottocento, segnò valanghe di reti, ma soprattutto trovò le chiavi per entrare nel cuore della gente, rifiutando più volte il trasferimento nelle più ricche compagini inglesi.
Una decina di anni dopo e qualche capello brizzolato in più, non si sa bene come, si ritrovò in Boemia. A metterlo in contatto con lo Slavia Praga era stato un suo amico, l’ex giocatore dei Rangers Jacky Robertson. Anche Robertson era stato contattato dai praghesi, ma non aveva alcuna intenzione di trasferirsi in Boemia, così ne aveva parlato a Madden. Casomai, magari, si sarebbero ricongiunti in futuro. C’era, però, un problema: lo Slavia Praga stava facendo la corte a Robertson, mica a Madden. E, soprattutto, più che un abile calciatore stava cercando una guida carismatica, un maestro di calcio, un profeta in grado di inculcare una nuova e innovativa filosofia calcistica ai propri discepoli. Allora a Robertson venne in mente un’idea geniale: spacciare Madden per sé. All’epoca circolavano poche foto, le notizie viaggiavano lentamente, e praticamente nessuno conosceva i calciatori: chi se ne sarebbe accorto? Poteva essere uno stratagemma credibile e infatti funzionò, ma solo per un certo periodo, fino a quando Madden scelse di uscire allo scoperto: “I’m Madden”, si presentò finalmente un giorno, gettando definitivamente la maschera. Lo Slavia Praga, ma in generale il calcio ceco, in futuro lo avrebbero ringraziato. Se, ad esempio, oggi parliamo di “calcio danubiano” il merito è suo.
A quel tempo, nei primi anni del Novecento, in quel nord dell’Impero austro-ungarico da cui nel 1918 sarebbe nata la Cecoslovacchia, il seme del calcio non aveva ancora attecchito e Madden si diede subito da fare per trapiantare i concetti basilari, lavorando parallelamente alla parte atletica e a quella tattica. Trapiantò sulle rive della Moldava una sorta di concetto del professionismo ante litteram, incoraggiando l’esercizio fisico e introducendo tutta una serie di innovazioni all’avanguardia per l’epoca: per curare le lesioni muscolari, ad esempio, utilizzava alcuni unguenti speciali preparati meticolosamente con un metodo fai da te. Madden non parlava ceco, e non lo avrebbe mai fatto fluentemente per tutto il corso della sua esistenza, ma sapeva come farsi capire. Una volta spuntò improvvisamente nello spogliatoio e, sbattendo la porta, mise tutti sull’attenti: “I giocatori cechi non si comportano seriamente. Si allenano poco e pensano solo alle ragazze e a sbronzarsi”, ammonì con tono perentorio, mentre lo sguardo dei giocatori si abbassava rapidamente alla ricerca di un altro punto di riferimento. Oltre a quella nei confronti dell’alcool, il “nonno del calcio ceco” combatteva fieramente anche un’altra crociata, quella al tabacco. Un paradosso, a ben vedere. Lui, infatti, oltre ad essere un gran bevitore di whisky, poi sostituito dalla più economica birra, non si separava mai dalla sua pipa fumante, ma con i suoi ragazzi era intransigente: “Se un giocatore beve e fuma non è più un calciatore”.
Sul piano squisitamente tattico mise la propria firma sul 4-3-3, un modulo inconsueto per l’epoca, ma da lui disegnato in campo per la prima volta nel 1911, durante una gara amichevole tra la nazionale ceca e quella inglese amateurs vinta dai suoi uomini per 2-1. La scintilla scoccò quando i britannici, desiderosi di rimontare, misero in soffitta il tradizionale modulo a piramide (2-3-5), il più gettonato dell’epoca, e aggiunsero terminali offensivi fino ad avere la bellezza di sette bocche da fuoco pronte a colpire i cechi: per reazione, preoccupato dal moltiplicarsi dei pericoli e determinato a condurre in porto una storica vittoria, l’allenatore scozzese spostò due dei suoi attaccanti in difesa, passando astutamente dal 2-3-5 iniziale ad un più abbottonato 4-3-3. Fu un’impresa storica, celebrata come tale per le strade di Praga: tra sventolii di fazzoletti bianchi e grida di giubilo, infatti, al rientro da Parigi la nazionale di Madden venne accolta da una folla festante radunatasi alla stazione Francesco Giuseppe della capitale, l’odierna Stazione Centrale.
Oltre a valorizzare le qualità dei suoi ragazzi con questo tipo di illuminazioni tattiche degne di un visionario, da loro Madden pretese anche ordine e disciplina, ma senza mai però ingabbiarne la fantasia, coniugando i tratti tipici del calcio britannico allo stilema tipico dei boemi: forse inconsapevolmente, seppur sulle rive di un altro fiume, la Moldava, aveva messo a punto l’impasto primordiale del calcio danubiano, quello con il quale qualche decennio più tardi la Grande Ungheria di Ferenc Puskás avrebbe incantato il mondo, pur senza raccogliere quasi nulla a livello di trofei. Una sorta di ibrido tra i due moduli di gioco più in voga dell’epoca: il “Sistema WM”, architettato e sperimentato con successo all’Huddersfield Town e all’Arsenal dal leggendario allenatore inglese Herbert Chapman, e il “Metodo” tanto caro a Vittorio Pozzo, l’allenatore più vincente della storia della nazionale italiana.
Senza retorica, Madden aveva riempito un vuoto, ed era stato a suo modo un rivoluzionario, il “papà del calcio cecoslovacco” come giustamente sarebbe stato ricordato in futuro. I progressi, del resto, erano sotto gli occhi di tutti e si rincorrevano ad un ritmo frenetico. Alla sua guida, nel 1920, la Cecoslovacchia raggiunse addirittura le semifinali del torneo olimpico di Anversa, arrendendosi tra le polemiche solo ai padroni di casa del Belgio, ma il meglio di sé lo diede con lo Slavia Praga, di cui fu allenatore per ben venticinque anni. Con lui a tirare le fila i Červenobílí, fondati nel 1892, si erano trasformati in un’autentica corazzata e non incutevano timore solo alle altre squadre cecoslovacche, ma facevano parlare di sé tutta Europa per il gioco effervescente e redditizio che mettevano in mostra. Lo Slavia di quel periodo era una squadra irresistibile in patria, ma anche all’estero, quando sistematicamente asfaltava alcune delle più celebri esponenti della nobiltà europea: i biancorossi di Praga, ad esempio, tra il 1926 e il 1927 umiliarono prima 6-1 la Juventus e poi per non farsi mancare nulla rifilarono una cinquina all’Inter.
In quel momento nulla, più dello Slavia Praga, poteva essere la rappresentazione della nuova Cecoslovacchia, la miniatura calcistica di uno dei Paesi più avanzati e prosperi del Vecchio Continente. Lo strapotere esercitato sul campionato era assoluto e inscalfibile. Fino al 1930, quando Madden decise di ritirarsi dalle scene, lo Slavia Praga riempì la bacheca con tre titoli nazionali (il primo campionato ufficiale cecoslovacco si giocò solo nel 1925), ma soprattutto arrivò a vincere la bellezza di 304 partite sulle 429 disputate con lo scozzese in plancia di comando. Il bello, però, doveva ancora venire. Quattro anni più tardi la Cecoslovacchia avrebbe affrontato l’Italia fascista nella finale del Campionato del Mondo, capitolando solo nei minuti finali dopo essere passata anche in vantaggio. Quel giorno, anche se ormai ridotto in sedia a rotelle non poteva più stare vicino alla sua creatura, la mano di Madden era più visibile che mai: ben otto giocatori di quella nazionale, dal leggendario portiere-capitano František Plánička allo sgusciante Antonín Puč, erano dello Slavia Praga, formati alla scuola di John Madden.
Il padre del calcio ceco sarebbe morto qualche anno più tardi, nel 1948, a pochi mesi dal colpo di Stato con cui si sarebbe insediato il regime comunista, che avrebbe sempre osteggiato lo Slavia Praga, percependolo come una squadra nemica per via di un retaggio culturale che affondava le radici nell’Impero austro-ungarico e nella Prima repubblica cecoslovacca. E molti di quei calciatori, vicecampioni del Mondo nel 1934, avrebbero trasportato il feretro di Madden in spalla, accompagnandolo nell’ultimo viaggio sino al cimitero di Olšany. Dove ancora oggi riposa.
di Vincenzo Lacerenza