Intervista a Giorgio Radicati, ex Ambasciatore d’Italia a Praga, sul leader ceco dell’euroscetticismo
È innegabile che ci sia sfiducia dei cechi verso la Ue, ma da qui a parlare di “Czexit” ce ne passa…
“Io sin da ragazzo mi sono abbeverato alla fontana dell’europeismo. Sono nato durante la guerra e appartengo quindi a una generazione che ha vissuto sulla propria pelle le motivazioni ideologiche più profonde che portarono alla nascita della Unione. Per la mia formazione sono state imprescindibili figure come Alcide De Gasperi e Gualtiero Spinelli. Durante tutta la carriera diplomatica e girando per il mondo ho creduto fermamente nell’Europa unita. Certamente però, dopo quanto accaduto negli ultimi dieci anni credo – e come me sono in tanti – che i meccanismi di integrazione europea siano da rivedere e correggere”.
È questa la premessa con la quale esordisce Giorgio Radicati – già ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca, dal 2003 alla fine del 2006 – che abbiamo incontrato a marzo, all’indomani della pubblicazione del suo ultimo libro, “Europa sì, Europa no. L’Euroscetticismo è nato a Praga”.
Il volume racconta la nascita – “in tempi non sospetti, perché allora la crisi economica doveva ancora arrivare” – del movimento euroscettico ceco e soprattutto del ruolo assunto sin da allora da Václav Klaus, insediatosi al Castello nel 2003, fiero oppositore del processo di integrazione.
“Questo mio libro intende essere un atto di onestà, di rispetto dovuto nei confronti di un uomo come Klaus, all’epoca isolato dal punto di vista della politica internazionale e che, nonostante tutte le critiche, continua a dire oggi le stesse cose che diceva allora. Non ha mai cambiato di una virgola, anzi semmai ha rafforzato queste opinioni. La differenza è che oggi sono in tanti ad essere d’accordo con lui”.
Che ricordo ha del Klaus di quel periodo?
Il personaggio lo conosciamo. È un uomo che crede molto in se stesso, con una certa tendenza alla autoreferenzialità, al sarcasmo. Posso dire di aver vissuto in prima persona, in quegli anni, il clima di contrapposizione che si era creato fra il Castello e la comunità diplomatica dei paesi europei. Nelle riunioni che noi ambasciatori Ue avevamo periodicamente con lui e nelle quali noi riflettevamo le posizioni filo europee delle nostre cancellerie, i momenti di tensione non mancavano e devo dire che Klaus, solo contro tutti, le cose non ce le mandava a dire. Per il resto è anche una persona con una conversazione intelligente, interessante e molto brillante. Nelle serate di jazz che organizzava al Castello e nelle quali non mancava di invitarmi, era sempre un piacere incontrarlo e parlare con lui.
Non pensa che Klaus, messo in ombra in campo internazionale da Václav Havel, compì quella scelta euroscettica anche per distinguersi dal suo storico rivale?
Pur ammettendo il forte ego di Klaus, non credo che si possa ridurre la sua campagna anti-europeista al semplice desiderio di ritagliarsi un ruolo e distinguersi rispetto al suo predecessore. Se rimaniamo ai fatti, a quello che Klaus ha più volte detto e scritto, la sua posizione euroscettica parte invece da considerazioni puramente economiche, trattandosi di un economista di formazione. E furono forse queste considerazioni a spingerlo a ritenere che non fosse nell’interesse della Repubblica Ceca far parte di una comunità europea integrata, capace di redigere regole nei campi del commercio, delle politiche di bilancio, fiscali e monetarie. Ma Klaus ha sempre detto anche di più, vale a dire che non fosse nell’interesse neanche degli altri paesi d’Europa.
Havel, intellettuale e uomo di cultura, contro l’economista Klaus. È possibile che questa differenza spieghi anche la loro contrapposizione rispetto alla Ue?
Con ogni probabilità sì. Havel è stato un uomo che ha concepito la fine del regime comunista e l’avvento della democrazia quasi come una costruzione culturale nuova. Il Paese ai suoi occhi, con la cacciata dei comunisti, riabbracciava quella vocazione culturale europea che risaliva a secoli prima e che ebbe come massimo sviluppo quel favoloso ventennio della Prima repubblica cecoslovacca. Un periodo nel quale la neonata Cecoslovacchia dimostrò al mondo l’evoluzione che era in grado di raggiungere, nei campi della letteratura, della pittura, dell’arte, della fotografia, del cinema e non solo. Havel, uomo di cultura, era affascinato dall’idea di Europa e della sua unione. Klaus invece, con la sua formazione economica, era piuttosto impaurito da questa nuova entità sovranazionale e dalle conseguenze pratiche che ne sarebbero derivate.
Rimanendo comunque all’aspetto economico, pare azzardato sostenere che la Repubblica Ceca non si sia avvantaggiata di questi 13 anni in Ue. Solo per quanto riguarda il 2015, il saldo fra quanto Praga ha versato alla Ue e quanto ha riscosso, è stato di quasi sei miliardi di euro.
La risposta può essere affermativa se si elencano pedissequamente i valori numerici di quanto si è dato e di quanto si è ricevuto, ma non credo che operare in questo modo possa costituire la risposta migliore. Lo stesso Klaus dice che non è determinabile questo vantaggio. Personalmente penso che esistano delle partite invisibili non rappresentabili con dei semplici numeri, ma che influiscono sensibilmente sui numeri stessi. E sempre a proposito di questioni economiche, mi sembra semplicistico sostenere che l’esistenza della Ue abbia salvato molti paesi membri dalla crisi scoppiata negli Usa nel 2008. La crisi nei paesi europei in realtà preesisteva a quella americana, come lo stesso Klaus ha sottolineato in un colloquio che abbiamo avuto alla vigilia della pubblicazione del mio libro e che cito in prefazione. È vero piuttosto che la crisi americana può avere messo a nudo la crisi europea.
Il premier Bohuslav Sobotka, di recente in visita in Baviera, ha visitato il palazzo dove venne firmato il Patto di Monaco e ha detto: “La Ue è criticabile per molti motivi, ma è la garanzia che non si ripeterà mai più in Europa quanto accadde in questo luogo nel 1938”.
Questo è un riferimento allo stato di pace di cui l’Europa ha potuto godere per 60 anni e che chiaramente si contrappone ai conflitti nei quali, nel secolo scorso, i popoli del Vecchio continente si sono impegnati fra di loro. Chiaramente è una osservazione condivisibile. Ma possiamo anche fare una osservazione a latere: oggi assistiamo a conflitti regionali rispetto ai quali la Ue, proprio per mancanza di una politica comune, non riesce a influire. E all’interno dell’Unione ci sono paesi – come Gran Bretagna e Francia – che assumono la leadership di iniziative non condivise e talvolta persino avversate. Quanto accaduto con la Libia di Gheddafi ne costituisce una dimostrazione.
Oggi la Gran Bretagna è alla vigilia del referendum sulla permanenza in Ue. Un eventuale Brexit potrebbe innescare un effetto domino in Europa e alcuni osservatori parlano persino di rischio Czexit, visto il tasso record di sfiducia verso la Ue che si registra a Praga.
Non vedo alcun collegamento, su questo piano, fra Gran Bretagna e Repubblica Ceca e, comunque, ritengo difficile una uscita dalla Ue della Gran Bretagna. Londra continuerà ad avere il suo tradizionale status di “membro speciale della Ue” e chiaramente si terrà ben stretta la sua sterlina.
Quanto al grado di sfiducia dei cechi verso la Ue, è innegabile che ci sia, ma da qui a parlare di Czexit ce ne passa. Mi sia consentita una battuta: anche molte mogli non hanno fiducia nel proprio marito, ma questo non significa che siano pronte a chiedere il divorzio.
di Giovanni Usai