FacebookTwitterLinkedIn

Intervista all’Ambasciatore d’Italia, Francesco Saverio Nisio: “Sono tornato a Praga con entusiasmo. Ultimare qui la carriera mi dà un senso di compiutezza legato alla circolarità degli eventi”.

Difficile immaginare una persona come l’Ambasciatore Francesco Saverio Nisio, con la sua innata capacità di gestire le relazioni sociali e interpersonali, in un ruolo diverso da quello del diplomatico. L’esempio sembrerà banale, ma basta osservare, durante i ricevimenti in Ambasciata, la maestria con la quale riesce a dedicarsi – con una domanda, con una semplice arguzia o magari offrendo un calice di prosecco – a tutti gli ospiti presenti, in modo particolare a quelli che per timidezza e impaccio rischierebbero altrimenti di fare la figura della tappezzeria.

A confermarcelo è egli stesso, ricevendoci per questa intervista negli eleganti saloni del Palazzo Thun-Hohenstein, la prestigiosa sede della Missione diplomatica italiana a Praga.

“Non sono autoreferenziale se affermo che la diplomazia costituisce uno degli elementi costitutivi del mio modo di essere. Mio padre era un diplomatico e ho sempre viaggiato, sin da piccolo. Da bambino osservavo mio padre, cercavo di penetrare il suo mondo sapendo che quella realtà, ricca di fascino e di insidie, un giorno sarebbe diventata la mia dimensione”.

Se non avesse intrapreso questa carriera, cosa pensa avrebbe fatto nella vita?

“Se fossi stato costretto a fare altro, avrei scelto un lavoro di movimento, in cui poter viaggiare”.

Va da sé che risulta impossibile sentirgli un benché minimo ripensamento.

Una posizione di prestigio, da tanti sognata, ma quali sono gli aspetti meno accattivanti di questa carriera?

“La percezione sbagliata che ne hanno gli altri”.

Come ama trascorrere il tempo libero?

“Improvviso, a seconda dei giorni e dell’umore. Leggo, passeggio, sento o scrivo ai figli o agli amici, qui a Praga giro molto a piedi alla scoperta di nuovi scorci e di spazi verdi nascosti dietro le mura cittadine”.

C’è un libro, un film dai quali in questi ultimi tempi è stato particolarmente colpito?

“Il film che mi ha maggiormente colpito nell’ultimo anno è senz’altro “Jan Palach”, di Robert Sedláček. All’inizio dell’anno abbiamo proiettato la pellicola all’Istituto Italiano di Cultura in occasione di un evento commemorativo promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi e sono rimasto impressionato dalla capacità del regista e degli attori di rappresentare gli aspetti umani dei vari protagonisti, di rendere centrale la visione delle persone nel drammatico contesto delle vicende. Tra gli ultimi libri ho letto con interesse “The ice cream makers” di Ernest van der Kwast, una storia ironica e commovente che ha come protagonista un poeta italiano, erede di una dinastia di gelatai, indeciso se seguire le proprie inclinazioni artistiche o gli interessi familiari”.

Come ha preso la notizia del nuovo incarico a Praga, in un’Ambasciata dove era già stato negli anni Novanta all’inizio della sua carriera?

“Con entusiasmo, poiché avevo richiesto questa sede con la più alta priorità. Dopo un’esperienza a Città del Capo, ho mosso i primi passi nella diplomazia proprio a Praga, all’inizio come Segretario di legazione, poi come Consigliere. Ultimare qui la mia carriera mi dà un senso di compiutezza legato alla circolarità degli eventi, un cerchio che si chiude tornando al proprio punto di origine, però arricchito dalle esperienze dell’intero percorso”.

Come ricorda la Praga dei primi anni Novanta? C’è qualcosa di quel periodo che le manca in questa città e in questo Paese?

“Di quel periodo mi mancano “i miei trent’anni”. Ai primi anni Novanta Praga era una città grigia, ancora segnata dagli anni del regime comunista, con un futuro incerto a cui guardare e un bagaglio di energie sopite da poter esprimere. I rapporti umani erano molto forti, ma per noi non era facile orientarci nella nuova realtà, tutto era in costante cambiamento, dalla toponomastica delle strade all’ubicazione degli uffici e dei negozi. Praga ha vinto la sua scommessa e la città cosmopolita che abbiamo modo di ammirare oggi è il frutto di una crescita ordinata e consapevole”.

Si ricorda, riferendoci ai primi anni Novanta, alcune personalità ceche, di spicco, non necessariamente del mondo politico, caratterizzate da un legame particolarmente forte con l’Italia?

“Alexander Dubček mi fece una notevole impressione, come uomo attento alle esigenze dei suoi connazionali e come politico capace di intercettare le componenti riformatrici della perestrojka nell’ottica dei cosiddetti “paesi satelliti”. Nel 1988, dopo vent’anni di permanenza forzata in Cecoslovacchia, gli fu concesso di recarsi in Italia per ritirare la laurea honoris causa che gli era stata conferita dall’università di Bologna. Al rientro in patria e dopo la Rivoluzione di velluto le visite nella nostra ambasciata si intensificarono. Veniva spesso per lavoro, ma anche in forma privata, per il particolare vincolo di amicizia che lo legava all’ambasciatore Castellani Pastoris”.

Il divorzio di velluto della Cecoslovacchia, oggi, col senno di poi, dal suo punto di vista.

“Si può definire senza esitazione un successo per entrambi i Paesi. All’epoca sembrava essere un salto nel buio, un azzardo potenzialmente rischioso per gli equilibri interni ed esterni dell’intera area. Oggi Praga e Bratislava sono due capitali perfettamente integrate nel tessuto economico e politico europeo, ciascuna con una propria identità che trae forza e alimento dai lunghi secoli di storia comune”.

La comunità italiana di Paga. Come la trova cambiata, venti anni dopo?

“Nei primi anni Novanta la presenza italiana a Praga non aveva dei connotati ben definiti. Ad imprenditori, commercianti e semplici turisti con ambizioni stanziali, si mescolavano affaristi e avventurieri di varia risma. Oggi quel flusso magmatico e spesso indistinto è stato superato. La comunità d’affari ha dato vita ad una Camera di commercio italo-ceca che è un fiore all’occhiello per il nostro Paese e che gode di un elevato apprezzamento, anche da parte ceca. L’Italia ha saputo ritagliarsi con gradualità, anche grazie al sostegno dell’Ambasciata e dell’Istituto Italiano di Cultura, un ruolo centrale in tutti i campi. Dalla ricerca clinica e scientifica al mondo accademico, dal design alla moda, passando per la cucina, le tecnologie aerospaziali, la musica e le arti applicate, la meccanica, l’industria del turismo e quant’altro il nostro Paese è riuscito a rinnovare e rinsaldare i secolari rapporti di collaborazione e amicizia che lo legano a Praga”.

Generalmente si sente dire che le relazioni bilaterali fra Italia e Repubblica Ceca sono ottimali. Le chiedo però se c’è qualche ambito nel quale sarebbe necessaria una marcia in più?

“Gli ultimi anni hanno effettivamente registrato un netto approfondimento dei rapporti bilaterali, a livello commerciale, culturale e in termini di mobilità tra i due Paesi. Un trend che si è immancabilmente riflesso anche in un’agenda più densa di contatti a livello istituzionale. Quello che noto è che più la relazione bilaterale si arricchisce di elementi e di occasioni di scambio, più emergono possibilità e campi inesplorati in cui lavorare per avvicinare ancora di più Italia e Repubblica Ceca. Non direi quindi che ci sia un settore particolarmente al di sotto del potenziale, al di là delle fisiologiche differenze che naturalmente esistono fra Paesi, che è nostro dovere cercare di appianare, ma sempre nella consapevolezza che l’amicizia è fatta anche di momenti di franco confronto”.

Tanti anni della sua vita all’estero. Tralasciando Praga, qual è la sede di servizio che ricorda più volentieri e il personaggio dal quale è rimasto più colpito?

“Ricordo con piacere tutte le sedi. In ciascuna di esse ho avuto modo di approfondire aspetti sempre nuovi del mio mestiere e di me stesso, entrando in contatto con usi e tradizioni lontani ed affascinanti. Come tutti i nomadi sono convinto che ogni luogo in cui ci si ferma sia degno di essere vissuto.

Quanto al secondo punto della domanda, Nelson Mandela è la persona che mi ha colpito di più, in assoluto. Nonostante le sofferenze e le vicissitudini accumulate nel corso di una vita, in lui tutto era orientato verso la comprensione, la tolleranza e il perdono”.

Più di trent’anni in diplomazia. Com’è cambiato in questo periodo, in generale, il lavoro delle Ambasciate e quali novità attendersi per il futuro?

“A mano a mano che le innovazioni tecnologiche hanno aumentato la velocità e la facilità della comunicazione, anche la diplomazia è diventata più rapida e progressivamente in grado di reagire all’attualità in tempo reale, e di tradurre sul terreno le indicazioni provenienti dalla Capitale. Inoltre, se fino a pochi decenni fa le relazioni internazionali erano dominio esclusivo del circuito diplomatico, assistiamo oggi all’entrata nell’arena internazionale di diversi attori, istituzionali e non, che dialogano a livello tecnico direttamente con i propri omologhi a livello bilaterale e multilaterale. Da 50 anni prosegue inoltre l’integrazione europea, che ha molto inciso sul lavoro delle Ambasciate dell’Unione, come questa di Praga. Da una parte, quindi, si sono ridotte le distanze e i tempi, a beneficio della “produttività”, se vogliamo usare una lettura industriale. Dall’altra, proprio la velocità di reazione che ormai viene richiesta riduce i tempi da dedicare agli approfondimenti e all’elaborazione di una visione che superi il breve periodo. Similarmente, anche l’affacciarsi di attori a proiezione internazionale rende necessario un progressivo sforzo di coordinamento nazionale che garantisca la coerenza della politica estera. Per il futuro mi aspetto che la diplomazia intra-UE sarà sempre più incardinata nei meccanismi comunitari e, più in generale, che le Ambasciate dei prossimi decenni saranno chiamate ad intensificare la “Public Diplomacy” e a supervisionare la proiezione esterna del proprio Paese negli Stati di accreditamento”.

Qual è il primo consiglio che si sente di dare a un giovane aspirante diplomatico?

“Studiare, studiare e perseverare. Il concorso per accedere alla carriera diplomatica è uno dei più complessi e impegnativi, anche per il prolungato sforzo fisico e mentale a cui i candidati sono sottoposti, sin dalle preselezioni. Per questo un qualificato corso di preparazione post laurea può costituire un utile strumento per mettersi alla prova e per colmare le inevitabili lacune che man mano verranno alla luce nell’affrontare un programma così vasto e articolato. Inoltre in caso di insuccesso non bisogna abbattersi. Una persona preparata e motivata può ripetere le prove o decidere di investire il proprio talento in altri percorsi lavorativi, ugualmente gratificanti, in seno al ministero degli Esteri, alle istituzioni europee, all’Onu o ad altre organizzazioni internazionali. E una volta entrati servono curiosità e spirito di adattamento oltre che passione”.

di Giovanni Piazzini Albani e Giovanni Usai