Nel 1967 il Cardinale si recò sull’isola sarda per pregare nel Sacrario che raccoglie i resti del fratello e di migliaia di prigionieri austroungarici uccisi dal colera nel 1915-16
Estremo lembo nord-occidentale della Sardegna, l’Asinara dista da capo Falcone, sull’isola madre, uno stretto braccio di mare con al centro un fazzoletto di terra, l’isola Piana. Stretta, lunga e adagiata ad arco, l’Asinara, con i suoi 52 chilometri quadrati, protegge l’ampio golfo che porta il suo nome. Questo è il regno dominato dal maestrale, il vento che nasce nelle acque della Francia, nel golfo del Leone, e spesso flagella le coste sarde con le tempeste più violente del Mediterraneo.
Vista da Porto Torres, la città al centro del golfo, l’Asinara sembra formare un tutt’uno con la Sardegna. In effetti, è molto vicina sul piano geografico ma, al tempo stesso, è stata a lungo lontana per via dell’inacessibilità, come uno sperduto atollo del Pacifico. Cayenna del Mediterraneo, Isola del Diavolo… è stata chiamata in tanti modi perché nel 1885 il giovane Regno d’Italia la espropriò a pastori e pescatori per trasformarla in Colonia penale agricola e in Stazione sanitaria marittima. Luogo di pena per detenuti incarcerati per gravi reati e luogo di disagiato soggiorno per equipaggi e passeggeri di navi in quarantena sanitaria, l’Asinara conquistò così una fama sinistra e scomparve dalla vita civile. Per gli abitanti del Golfo il suo profilo all’orizzonte era la rappresentazione di un luogo inesistente, quasi una quinta di teatro. La nascita del Parco Nazionale (1 gennaio 1998) era inimmaginabile.
A quest’isola “misteriosa” ero diretto una mattina di fine inverno del 1967, a bordo del lento battello che periodicamente portava rifornimenti alla colonia penale. Giovane giornalista – avevo 24 anni – del quotidiano di Sassari “La Nuova Sardegna”, avevo ricevuto l’incarico di seguire una breve visita sull’Asinara del cardinale cecoslovacco Giuseppe Beran, che doveva arrivare dal Vaticano per pregare sulla tomba del fratello Slavoj, morto giovanissimo all’inizio della Prima guerra mondiale.
Il mare piatto e grigio come una lama di acciaio rifletteva lo stesso colore del cielo. La primavera era ancora troppo timida per scoraggiare il vecchio inverno. Mentre ci avvicinavamo, l’Asinara appariva scura, ostile, e riempiva quasi tutto l’orizzonte con una serie di alture dominate da punta Scomunica. Per il mio primo sbarco mi accoglieva con una veste triste e pensai che fosse l’immagine più adatta a un appuntamento in un cimitero con migliaia di morti. Le prime notizie su questa sconvolgente strage le avevo raccolte dai due sacerdoti che mi accompagnavano. La visita di Beran era in forma assolutamente privata, direi segreta, e per suo volere l’arcivescovo non aveva lasciato Sassari. La Chiesa era quindi rappresentata da due semplici preti. Don Musina era stato mio professore di religione e nella sua veste di cappellano della colonia penale si era rivelato una preziosa fonte d’informazioni per il giovane cronista che all’epoca non poteva contare sull’universo di Internet.
Nel 1914, allo scoppio della Prima guerra mondiale – scaturita dall’uccisione dell’arciduca austriaco Francesco Ferdinando a Sarajevo – l’esercito austroungarico invase la Serbia che inizialmente riuscì a resistere. Nell’ottobre del 1915 la situazione precipitò con l’entrata in guerra della Bulgaria che attaccò da sud. Nel frattempo gli austriaci avevano conquistato anche la capitale, Belgrado. Il 25 novembre quel che restava dell’esercito serbo si diresse verso le montagne già innevate dell’Albania per raggiungere l’Adriatico, dove erano in attesa le navi della marina italiana e degli alleati. Trecentomila serbi, tra soldati e civili, e 25 mila prigionieri austroungarici attraversarono in colonna i passi montani ad alta quota pagando un tributo di centinaia di morti. Nel porto di Valona la salvezza. I serbi furono subito portati a Corfù e su altre isole greche. Per i prigionieri, ormai allo stremo, iniziava invece un altro calvario. La loro destinazione era un’isola lontana che nessuno aveva sentito nominare: l’Asinara. Pagine di storia dimenticate.
Il 18 dicembre calarono le ancore nella baia di Cala Reale i piroscafi “Dante Alighieri” e “America” con 3.700 prigionieri austroungarici. Durante la navigazione si erano verificati “soltanto” dieci decessi. Erano le prime navi di una flotta che in pochi giorni avrebbe sbarcato migliaia di disperati.
A Natale, ed esattamente il 24, il 25 ed il 27 altri tre piroscafi si ormeggiarono nelle acque dell’isola. Il “Valparaiso”, il “Duca di Genova” e il “Re Vittorio” avevano a bordo, in condizioni disumane, 5.000 prigionieri decimati dal colera. L’Asinara ospitava una stazione sanitaria marittima, ma era assolutamente impreparata ad affrontare un’emergenza di quelle dimensioni. Mentre la colonia penale s’impegnava a fornire viveri, a Sassari la prefettura e l’esercito si mobilitavano. Le navi, intanto, si allontanavano momentaneamente per calare in mare, al largo, i corpi dei deceduti.
In pochi giorni furono allestiti i primi accampamenti e i prigionieri sbarcarono. Ma l’ormeggio di una nave che partiva era subito occupato da un altro piroscafo. In rapida successione arrivarono il “Natal”, l’“Indiana”, il “Sinai”, l’“Armenia”, il “Regina Elena”. Ai primi di gennaio il numero dei prigionieri era salito a 18 mila. I corpi dei primi 1.270 morti furono sepolti in una fossa comune. L’estensione del colera a tutti gli accampamenti disseminati sull’isola e le condizioni di estremo degrado fisico e mentale di persone ridotte a scheletri, avevano creato una situazione pressoché ingovernabile. Incredibilmente nel giro di un paio di mesi si superò la fase critica e ad aprile l’epidemia cessò. Il comando militare si era anche adoperato per restituire dignità ai prigionieri, favorendo il loro impegno nei lavori di manutenzione o in iniziative personali. Una chiesetta in stile “alpino” da loro costruita esiste ancora. In giugno e luglio 24 mila uomini lasciarono l’Asinara diretti in Francia. Sull’isola rimasero i corpi di 5.700 soldati. Nel 1936 i resti di tutti i militari furono esumati e raccolti in un grande sacrario costruito su una collinetta a Campo Perdu, un’area che ospita uno dei complessi carcerari esistenti sull’isola.
Era questa la destinazione di Giuseppe Beran. L’ex arcivescovo di Praga viveva in esilio in Vaticano dal 1965, anno in cui papa Paolo VI lo elevò alla porpora cardinalizia. Le vicende che avevano travagliato la vita di questo sacerdote boemo avevano commosso tutto il mondo. Nel 1942 i nazisti – che avevano annesso una parte della Cecoslovacchia alla Germania – lo deportarono nel campo di concentramento di Dachau fino all’arrivo degli alleati. Nel 1946 papa Pio XII lo designò arcivescovo di Praga e primate della Chiesa cecoslovacca. Il periodo di serenità fu breve. Nel 1948 i comunisti conquistarono il potere e cancellarono ogni attività non in sintonia col regime. La Chiesa fu ridotta al silenzio e Beran fu rinchiuso in totale isolamento in diverse residenze lontane dalla capitale. Infine – dopo lunghe trattative con il Vaticano – nel 1965 all’arcivescovo fu concesso di partecipare al concilio Vaticano II ma gli fu vietato il rientro in patria.
Il pontile di Cala Reale distava pochi metri e le manovre di attracco erano già in corso. Fra breve avrei avvicinato quest’uomo straordinario che a Roma conduceva una vita estremamente riservata. Sulla banchina ci attendeva un’auto dell’amministrazione penitenziaria per il trasferimento a Campo Perdu, distante un paio di chilometri. La strada costiera lambiva spiaggette e cale rocciose bagnate da acque azzurre e verdi, colori che neppure il grigiore della giornata riusciva a mortificare. Nei campi pecore al libero pascolo, qualche cavallo e lontani, sui rocciai, capre e mufloni. Fra i cespugli, seminascosti come fantasmi, i detenuti in semilibertà che sarebbero rientrati nelle celle al tramonto.
Quando il sacrario era in vista, avvertimmo il rombo lontano di un potente motore. L’elicottero militare che aveva a bordo il cardinale era un puntino all’orizzonte verso sud, in direzione del vicino aeroporto di Alghero. Poi ci sorvolò e si allontanò verso Cala d’Oliva, l’unico villaggio dell’isola, e Punta Scorno, l’ultimo scoglio segnalato da un gigantesco faro. Il pilota aveva voluto offrire all’anziano cardinale una rapida visione dell’intera Asinara. Tutto era stato studiato per una visita-lampo. L’unico giornalista, casualmente informato, ero io.
L’apparecchio atterrò in un grande spiazzo, senza sollevare polvere dal terreno reso umido dalle piogge invernali. Il frastuono assordante ruppe per alcuni minuti il silenzio millenario dell’isola, mettendo in fuga perfino i cinghiali svegliati dal loro sonno diurno.
Il direttore della Colonia e un picchetto di guardie resero gli onori al cardinale, che subito salì su un’auto per raggiungere il vicino sacrario. Ai piedi della collinetta lo attendevamo noi, diverse guardie fuori servizio e qualche civile. Notai subito che era basso e pensai: è piccolo come i sardi. Beran ci salutò sollevando una mano e, da solo, si incamminò sulla stradina che porta alla grande cappella. Pregò a lungo, inginocchiato davanti al minuscolo altare circondato dalle altissime vetrine che custodiscono migliaia di teschi. Parlò col fratello e alla sua voce si unì il coro delle anime dei giovani che, invece della salvezza, avevano trovato la morte in quest’isola lontanissima dalla patria. Prima di ripartire ringraziò tutti e ci salutò, uno per uno.
Quando mi strinse la mano lessi nei suoi occhi chiarissimi coraggio, determinazione e una serenità assoluta. Lo sguardo degli eroi e dei santi.
di Bruno Merella