Storia del ponte del Negrelli, il secondo più antico di Praga, e del suo ideatore, l’ingegnere più famoso dell’Impero
L’architettura, scrive Aldo Rossi, “è la scena fissa delle vicende dell’uomo”. Imperturbabile, il viadotto Negrelli è per i praghesi una presenza famigliare. Riservato ma affabile sfondo proprio di quei “sentimenti di generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi e antichi” di rossiana memoria.
A differenza di altre ‘scene fisse’ che per loro natura anelano a primeggiare tra vie e piazze, contendendosi un fugace sguardo e agognando d’essere ricordate, il viadotto si adagia taciturno e sicuro ai piedi della collina di Vítkov, correndo verso le acque della Vltava a nord.
Ritmico e cadenzato accompagna il passante per gli isolati di Karlín fin oltre l’isola Štvanice, a Bubny – parte occidentale dell’odierna Holešovice – misurando e osservando il passaggio, ora indaffarato, ora ozioso, di praghesi e turisti la cui vita scorre accanto e attraverso le sue massicce pile di arenaria.
Certo la città ha un’esperienza notevole – per quanto recente – in fatto di ponti. Dal più celebre Karlův most – entrato in servizio nel 1402 per rimpiazzare il Juditin most distrutto sessanta anni prima da una piena, sino al giovanissimo Trojský most – ponte bow-string aperto al traffico nell’ottobre 2014, se ne contano quasi una ventina. Tuttavia, fino alla metà del XIX secolo attraversare la Vltava non era agevole come lo è oggi. Oltre al Karlův most solo il Franzensbrücke – inaugurato nel 1841 – collegava infatti le sponde del fiume. In virtù della sostituzione di quest’ultimo con il Most Legií nel 1901, il viadotto ferroviario costruito da Negrelli tra il 1846 e il 1850 può oggi vantare di essere il secondo ponte più antico della città, preceduto solo dal Karlův most.
Nonostante la variegata concorrenza – magica, monumentale o tecnologica che essa sia – l’eroico e severo viadotto Negrelli si ritaglia un ruolo speciale nel paesaggio urbano e nella vita della città, tanto da rimanere impresso a un turista d’eccezione. Apollinaire nel suo Le Passant de Prague ricorda infatti quanto gli fosse “caro il viadotto di Karlín”, in prossimità del quale aveva probabilmente soggiornato durante i suoi giorni praghesi. Forse proprio l’esser parte di quella porzione di tessuto sortogli attorno conferisce al viadotto il ruolo di muto confidente, sempre disposto ad ascoltare i pensieri di coloro che lo costeggiano per le vie di Karlín o lo percorrono entrando o lasciando la città.
Essere il secondo ponte più antico di Praga non è l’unica fra le sue virtù, infatti si tratta anche del più antico ponte ferroviario sull’intero corso della Vltava. Inoltre, all’epoca della sua costruzione vantava il record di lunghezza su scala europea, imbattuto fino al 1910. Supremazia tutt’ora mantenuta entro i confini nazionali. I suoi ottantasette archi coprono una distanza di mille e centoundici metri, dei quali poco più di un quinto impiegati per superare le acque del fiume.
Necessaria componente a completamento della prima linea ferroviaria Imperial-Regia Nördliche Staatsbahn Olomouc – Praga – Dresda, il viadotto è portato a termine dai fratelli Klein e Vojtěch Lanna al costo di un milione e mezzo di fiorini. Grazie a oltre tremila maestranze – molte delle quali italiane – e a innovative gru e idrovore a vapore l’altera struttura entra in servizio il 1 giugno 1850 dopo quattro anni di lavori.
Opera non comune per dimensioni né per risorse impiegate, all’epoca della sua costruzione si disse addirittura volgesse lo sguardo ai suoi illustri predecessori della Roma antica. Arenaria, granito e ghisa non erano consueti per opere di questo genere per lo più ancora affidate a tralicci e impalcati che facevano largo uso del legno.
L’avveduta lungimiranza dell’ingegner Alois Negrelli ha portato a una costruzione eccezionalmente robusta. Gli impalcati prevedono dall’origine il transito di convogli decisamente più pesanti di quelli in circolazione a metà del XIX secolo. Il dimensionamento degli archi e la saldezza delle pile sembrano parimenti non temere neppure le piene millenarie della Vltava, come hanno dimostrato in occasione dell’alluvione che ha colpito duramente la città nell’agosto 2002.
Solidità inconsueta insomma per un viadotto ferroviario che all’epoca della costruzione ha imposto il posizionamento strategico di due camere di mina da circa 130 kilogrammi di esplosivo ciascuna, pronte a reciderlo qualora fosse irrimediabilmente caduto in mano nemica.
D’altra parte, in quegli anni Negrelli – vero dominus dell’operazione – non era solo l’ingegnere più conteso dell’Impero, ma vantava incarichi oltre i confini della sua amata Vaterland austriaca. La ferrovia avviava il suo vorticoso sviluppo pronto a mutare i connotati dell’Europa. In quello scenario in costante evoluzione l’ingegnere trentino – di padre genovese e madre tedesca – si inseriva da vero protagonista. Quasi non si contano le opere pionieristiche – non solo ferroviarie – che grazie alle sue capacità tecniche e alla duttilità con la quale affrontava le sfide più ardue punteggiano il territorio imperiale, il Liechtenstein e i cantoni nord orientali della Svizzera.
La conclusione del viadotto coincide con l’apice del suo successo. Centoquarantuno giorni dopo la sua apertura al traffico l’imperatore Franz Joseph firmerà infatti il cavalierato di Negrelli. Consapevole che a valergli l’ingresso tra la nobiltà austriaca fossero i successi tecnici raggiunti con la ferrovia Ferdinandea del Lombardo-Veneto, lo stesso Negrelli chiederà di potervi entrare con il predicato ‘von Moldelbe’, poiché proprio sui progetti tra Vltava (Moldava) e Labe (Elba) egli crede di “puntare il suo orgoglio come ingegnere”. Oltre alle innumerevoli infrastrutture ferroviarie tra le valli dei due grandi fiumi boemi, Negrelli aveva progettato anche un canale navigabile che unisse le loro acque. Il canale non vedrà mai la luce.
Scherzo del destino, l’Ingenieur en Chef non farà in tempo a vedere neppure il canale che ha definitivamente consegnato il suo nome alla storia: quello di Suez. Sul progetto di taglio dell’istmo di Suez che avrebbe permesso la navigazione diretta tra Mediterraneo e Oceano Indiano senza dover circumnavigare l’Africa, Negrelli lavorerà per oltre vent’anni, ma dell’epocale infrastruttura che tanto lo aveva impegnato vedrà solo l’apertura del cantiere. Secondo nella sua carriera solo a questa ciclopica opera di ‘dimensioni geografiche’, il ponte sulla Vltava lo ricorda portando tutt’oggi il suo nome.
Il viadotto che nei dipinti e nelle incisioni solca le campagne di Karlín entrando a Praga si è trovato immerso nel tessuto urbano che gli è progressivamente sorto attorno, assimilandolo. Certo questo lo ha trasformato in una presenza famigliare, integrandolo culturalmente nel paesaggio e nella vita della città che ne ha, però, anche pragmaticamente tratto spontaneamente vantaggio. Tante piccole facciate parassite diverse una dall’altra acciecano i fòrnici del ponte – talvolta addirittura impalcandoli – per dare spazio a magazzini, garage, piccole attività artigiane e micro birrerie che trovano riparo sotto le sue robuste arcate. Inevitabilmente questo uso spontaneo progressivamente regolarizzato ha dato luogo a scontenti e polemiche.
Da circa sei anni la Ong Centre for Central European Architecture ha preso a cuore il viadotto, tentando con importanti partner istituzionali e privati di includere con un ruolo più attivo questa rilevante costruzione nella vita della città. Sostenuto anche dall’estero, questo progetto auspica che, a seguito dei restauri in corso a opera di Sudop, in partnership con l’inglese Mott MacDonald, il Negrelli possa diventare uno strumento per la rivitalizzazione commerciale e culturale di quest’area della città, trasformando, insomma, uno di famiglia in un vero protagonista.
di Alessandro Canevari