Leggenda vuole che Pablo Neruda abbia scelto il suo nome in omaggio al maestro ceco Jan. Ma la verità potrebbe essere un’altra
Il 23 settembre del 1973 Pablo Neruda morì in circostanze misteriose, lasciando irrisolto l’enigma del nome
In una mattina d’estate la via Nerudova è piena di turisti che avanzano scomposti dalla Piazza di Malá Strana verso il castello di Praga. Una guida locale, con un marcato accento, spiega a un gruppo di spagnoli che il tragitto percorso è intitolato al poeta e scrittore ceco Jan Neruda, sottolineando che Ricardo Eliecer Neftalí Reyes Basoalto – poeta cileno tra i più influenti del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1971 – si è certamente ispirato al collega europeo all’atto di scegliere il suo nome d’arte, e più noto, Pablo Neruda.
Dal gruppetto di ispanici si leva qualche esclamazione di sorpresa, poi tutti continuano la lenta ascesa verso la collina di Hradčany.
Che Neftalí Reyes abbia preso il cognome dal letterato ceco vissuto nell’Ottocento è considerata da molti una certezza, ma a guardare bene appena sotto la superficie, si scopre che, in realtà, non c’è nessuna prova ad avvalorare questa tesi. Con molta probabilità, infatti, ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui un dato incerto, per il solo fatto di essere stato ripetuto a lungo, viene accettato come verità. Le cose, però, potrebbero stare molto diversamente.
Un caso, dunque, degno di Sherlock Holmes e, in effetti, proprio il detective frutto della fantasia di Arthur Conan Doyle, potrebbe essere la soluzione di quello che rimane ancora oggi un piccolo mistero letterario.
Ma andiamo con ordine.
Sappiamo che Pablo Neruda si firmò con questo pseudonimo per la prima volta nel 1920, all’età di 16 anni, quando pubblicò su un giornale locale una poesia dal titolo “Hombre”. La scelta di un nome fittizio fu motivata dal fatto che suo padre, operaio delle ferrovie, non vedeva di buon occhio le tendenze poetiche e artistiche del figlio adolescente. Ma come mai il giovane scelse proprio questo cognome di origine ceca?
Molti credono che Ricardo Neftalí abbia letto qualche opera del letterato ceco Jan Neruda e, rimastone colpito, abbia deciso di usarne il cognome. Ma questa spiegazione non regge a una semplice ricerca bibliografica, dalla quale emerge subito che la prima traduzione in lingua spagnola dello scrittore, e cioè “I racconti di Malá Strana”, risale solo al 1922, due anni dopo la scelta del giovane poeta. Prima di quella data è dunque quasi impossibile che il futuro premio Nobel abbia mai sentito anche solo parlare del poeta e scrittore praghese morto nel 1891.
In un interessante articolo del 2015 a firma del giornalista cileno Ernesto Bustos Garrido emergono particolari importanti che gettano luce sulla vicenda. Garrido sottolinea come Pablo Neruda fosse sempre molto vago nel rispondere a chi gli chiedeva in merito all’origine del suo nome d’arte, e non fornì mai a nessuno una spiegazione soddisfacente. Hernán Loyola, studioso esperto della vita del poeta cileno, ritiene che il nome “Pablo” sia un omaggio al francese Paul Verlaine, mentre non ha mai dato per certa la pista che porta al cognome di Jan Neruda.
Sebbene la tesi più diffusa e comunemente accettata sia proprio quella che vuole che il poeta cileno abbia letto per caso il cognome di Jan Neruda in qualche rivista e lo abbia adottato, in realtà la spiegazione non convince tutti.
Nella vicenda intorno a questo piccolo mistero giocò un ruolo fondamentale il giornalista e reporter cecoslovacco Egon Erwin Kisch. Kisch conobbe Pablo a Madrid e diventatone amico gli chiese per la prima volta l’origine del suo cognome d’arte nel 1937, riconoscendo in esso qualcosa di molto familiare. Ma Pablo non diede al giornalista nessuna risposta esauriente. Fu lo stesso Kisch, allora, a chiedere al cileno se per quel cognome non si fosse ispirato al suo compatriota Jan Neruda, ma Pablo non confermò né smentì questa tesi, e questo, come sostengono alcuni studiosi, perché prima di quell’incontro non aveva mai sentito parlare di Jan Neruda. Da allora tra i due amici nacque una specie di gioco in cui Kisch in varie occasioni ufficiali chiese al poeta spiegazioni sull’origine di quel cognome, e Pablo non solo non gliene diede mai, ma lo invitò sempre a sfruttare il suo fiuto e talento di giornalista investigativo per risolvere il mistero.
La seconda volta che Kisch gli pose la domanda fu intorno al 1939, quando il giornalista dovette fuggire dall’Europa per ragioni politiche e si rifugiò in Messico. Anche questa volta, però, Pablo Neruda fu evasivo.
Robertson Álvarez, studioso del poeta, in una conferenza tenuta ad Alicante nel 1999 riferisce che l’unica cosa che Pablo rispose in quell’occasione fu di aver trovato il cognome “Neruda” in una rivista, ma senza specificare a Kisch se si trattasse di Jan Neruda oppure no. Lo stesso Kisch fece delle ricerche e iniziò a dubitare che potesse trattarsi del ceco, visto che il nome di Jan Neruda sembrava essere completamente sconosciuto in America Latina prima del 1923. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Neruda e Kisch si incontrarono nuovamente e, immancabile, la fatidica domanda fu ripresentata. È lo stesso Neruda a raccontare nel suo libro di memorie “Confesso che ho vissuto” di come anche in questa occasione il giornalista, già avanti negli anni, non si desse per vinto e gli chiedesse di rivelargli finalmente la verità. Ma Egon morì senza ottenere una risposta definitiva.
Pablo Neruda visitò Praga tra il 1950 e il 1951 e, in tale occasione, portò dei fiori sulla tomba di Jan Neruda, ma anche in quella circostanza non ammise mai a nessun giornalista di aver preso quel cognome da lui.
A memoria della visita del cileno in Cecoslovacchia, nella via U Vrchlického, a Praga 5, si trova un busto in bronzo del poeta “grande amico del popolo cecoslovacco”, realizzato nel 1980 dallo scultore Zdeněk Kolářský.
Il 23 settembre del 1973, Pablo Neruda morì in circostanze misteriose a Santiago del Cile, lasciando irrisolto l’enigma. Da allora, per un po’ di tempo, la cosa sembrò dimenticata finché, quasi un decennio dopo, venne fuori qualcosa di inatteso.
Nel 1981 il poeta cileno Miguel Arteche, sul numero 187 della rivista “Hoy”, intitolato “Sherlock Holmes ammira Neruda”, sostenne che il giovane Ricardo Reyes aveva letto il cognome “Neruda”, sì in una rivista, come ammesso dal poeta stesso, ma non in una rivista che parlava del ceco Jan Neruda, bensì di un racconto di Sherlock Holmes.
Le traduzioni dei racconti di Arthur Conan Doyle, infatti, erano facilmente reperibili in Cile, in lingua spagnola, quando il poeta era ancora un ragazzo.
Nell’opera “Uno studio in rosso”, pubblicata nel 1887 e tradotta in spagnolo con il titolo “Uno strano crimine”, Sherlock Holmes incontra la violinista Norman Neruda, un personaggio, tra l’altro, realmente vissuto. Si trattava della violinista Wilma Neruda (1839-1911), nata a Brno, figlia del musicista Josef Neruda e sposa del direttore d’orchestra svedese Ludwig Norman. Doyle conosceva bene e ammirava la musicista perché, oltre ad essere famosa al tempo, si era trasferita a Londra nel 1869 e aveva preso casa proprio a Baker Street, a poca distanza dal famoso domicilio 221-B. Sappiamo dai suoi biografi che il giovane Reyes era un appassionato di novelle poliziesche e, secondo Arteche e Robertson, aveva sicuramente letto il racconto di Doyle. È dunque molto probabile che il cileno abbia visto proprio lì per la prima volta quel nome e lo abbia usato per nascondere al padre la propria identità. Un nome che due decenni dopo avrebbe legalizzato come nome proprio.
È ovvio che davanti alla bellezza e alla potenza dei versi di Pablo Neruda ogni speculazione sull’origine del suo cognome passa in secondo piano, ma dovendo però scegliere tra una delle due tesi proposte potremmo avvalerci del famoso “Rasoio di Occam” (caro anche a Sherlock Holmes). Questo principio metodologico vuole che per risolvere un’incognita si debbano preferire, a parità di condizioni, le spiegazione più semplici e logiche rispetto a quelle più complicate. Così facendo, rispetto alla più nota ma astrusa teoria che vuole in Jan Neruda l’ispiratore del cognome poetico del cileno, la teoria più semplice della novella di Doyle non solo risulta più credibile, ma appare, è proprio il caso di dirlo, addirittura “elementare”.
di Mauro Ruggiero