Jan Letzel, l’architetto boemo, innamorato del Giappone, che progettò nel 1915 il palazzo diventato simbolo della tragedia nucleare. Ideato in stile viennese, l’edificio resistette all’atomica perché all’epoca era uno dei pochissimi a essere costruito con una solida struttura di cemento
È rimasto come settant’anni fa: le pareti disfatte ridotte a un’armatura di cemento spoglio, la cupola vuota, uno scheletro di metallo. Quando il sei agosto 1945 alle 8 e 15 del mattino il bombardiere americano Enola Gay sgancia la prima bomba atomica sul Giappone la città di Hiroshima è polverizzata in una catastrofe di macerie e corpi. Solo un palazzo resiste alla forza dell’impatto, il padiglione che ospita la fiera commerciale della prefettura cittadina. Quest’anno alle celebrazioni del settantesimo anniversario del disastro giapponese quei muri sono passati su tutte le televisioni del mondo, l’edificio commerciale è ormai un simbolo mondiale della pace, ribattezzato Atomic Bomb Dome, è entrato a fare parte nel 1996 dei patrimoni dell’umanità protetti dall’Unesco. Ma la storia, questa storia, ha trent’anni di ritardo su chi quell’edificio l’ha immaginato, disegnato, realizzato: un architetto ceco nato a Náchod, una cittadina della Boemia nord-orientale, nel 1880.
In pochi oggi ricordano ancora chi è stato Jan Letzel, un uomo che ha diviso la propria vita tra l’allora impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia, e la terra del Sol Levante.
Figlio d’albergatori, completa i suoi studi superiori in provincia per poi occupare il posto di assistente al Dipartimento d’ingegneria civile alla scuola industriale di Pardubice. Ma a cambiare la sua vita sarà una borsa di studio vinta nel 1901 che gli permette di studiare architettura alla prestigiosa scuola d’arte di Praga. Qui, per tre anni, si distingue per essere uno dei migliori studenti dell’istituto, un “protetto” di Jan Kotěra, uno dei padri dell’architettura ceca moderna. Se da una parte apprende il modernismo, nel disegno e nei materiali, all’accademia, dall’altra Letzel manifesta, ancora studente, la necessità di viaggiare per imparare la sua arte sul campo. È così che tra il 1902 e il 1903 il giovane architetto boemo fa diversi viaggi studio, in particolare nei Balcani: Dalmazia, Erzegovina e Montenegro. Rientrato in patria, lavora per lo studio d’architetti Quido Bělský di Praga, tra il 1904 e il 1905. Di questo periodo è uno dei pochi edifici che Letzel ha progettato e costruito nel suo paese d’origine, un padiglione in stile Art-Nouveau nella città termale di Mšené-lázně. In questo edificio è evidente l’impronta ricevuta da Kotěra all’accademia. Sempre a quegli anni (1904-1905) risale una sua collaborazione nella realizzazione dell’Hotel Europa di Praga.
Ma la fortuna personale e professionale di Letzel non aveva da farsi nella sua terra natale: nel 1905 è ancora in partenza, questa volta per Il Cairo in Egitto, dove passa quasi due anni. Rientra in patria nel 1907, non prima di avere fatto un “grand tour” delle più importanti città italiane: tra queste Roma, Milano e Venezia. Ma Letzel doveva, voleva andare più lontano. Così l’anno del suo rientro a Praga è anche l’anno della sua partenza per l’Oriente, per il Giappone. Forte delle sue esperienze all’estero e delle competenze avanguardistiche respirate nell’allora Impero Austro-Ungarico, l’architetto ceco sbarca nella capitale giapponese con in testa e nelle mani uno stile moderno e occidentale. In Giappone si costruisce, allora, in maniera tradizionale. I materiali più diffusi sono legno e carta, mentre Letzel ha imparato a lavorare con pietra, cemento e gesso. Al suo arrivo a Tokyo il suo primo impiego è per uno studio d’architettura francese. Lì lavorerà fino al 1910. In questi primi anni una importante collaborazione professionale si forma con un altro architetto ceco sbarcato in Oriente, Karel Hora: i due decidono di mettersi in proprio aprendo il loro studio d’architettura. La loro maniera di costruire è totalmente estranea a quella locale, i due cechi propongono infatti grandi edifici in cemento capaci di resistere ai terremoti che colpiscono ciclicamente quest’isola ad altissimo rischio sismico. Questo contribuisce al successo del loro studio finché la strada dei due non si divide qualche anno più tardi. Letzel continuerà il percorso da solo, per altri dieci anni in terra giapponese, costruendo residenze, scuole, padiglioni universitari, ospedali e hotel. Ma tra tutti, la sua creazione più famosa, anche all’epoca della sua costruzione, è il padiglione che ospita la fiera commerciale della prefettura di Hiroshima: inaugurato il 5 agosto 1915, l’edificio conserverà la sua maestosità esattamente per trent’anni e un giorno. Progettato in stile viennese, l’edificio resistette all’esplosione atomica proprio perché all’epoca era uno dei pochissimi ad essere costruito con una solida struttura di cemento. Diversi anni prima della guerra il padiglione era già molto famoso in città, tutti sapevano che era l’opera di un architetto boemo. Più tardi, il simbolo ha oscurato il suo creatore. Per l’architetto ceco invece, questo padiglione rappresenta l’apice della carriera. Nel 1914 infatti, con lo scoppio della prima guerra mondiale, Letzel è costretto a rientrare in patria. Tre anni più tardi, alla fondazione della Cecoslovacchia, il nuovo Stato gli offrirà un posto di attaché commerciale all’ambasciata ceca a Tokyo. Il suo soggiorno nella terra del Sol Lavante sarebbe durato ancora qualche anno, ma i giorni delle migliori creazioni erano ormai dietro di lui. Nel 1923 il Giappone è scosso dal terribile terremoto del Kanto: la distruzione è immensa, molti degli edifici di Letzel sono distrutti dalla violenza della scossa. È allora che l’architetto e diplomatico decide definitivamente di rientrare in Patria. Di questi ultimi anni cechi resta poco o nulla. Dopo due anni di malattia e di oblio quello che era stato un faro dell’architettura occidentale in Oriente si spegne solo, dimenticato, in una casa di cura per malattie mentali di Praga, sulla Kateřinská ulice, e sepolto in modo anonimo nella sua Náchod.
Letzel non sapeva, non poteva sapere allora, che una delle sue creazioni sarebbe diventata il simbolo di un’epoca. Ma questo è spesso il destino ingrato dei grandi artisti.
di Edoardo Malvenuti