Muore a 86 anni il regista anti-autoritario per eccellenza, cineasta capace di esportare, con successo, i temi della Nová Vlna ceca a Hollywood
Miloš Forman se n’è andato in uno sfortunato venerdì 13 di aprile. Vincitore di due premi Oscar alla miglior regia, per Qualcuno volò sul nido del cuculo nel 1976 e Amadeus nel 1985, per i quali vinse anche due dei suoi tre Golden Globe – l’ultimo nel 1996 con Larry Flynt – Oltre lo scandalo. Oltre alla marea di premi ricevuti in tutte le fasi della sua carriera, va ricordato per temi come la celebrazione dell’individuo e della libertà di espressione, per i suoi eroi stravaganti, spesso in contrasto col potere. Ma cosa distingueva Forman, qual era il segreto del suo successo? E ancora, cos’era rimasto di ceco nei suoi film americani? Per rispondere a queste domande bisogna analizzarne la carriera e la sua evoluzione come regista, una storia caratterizzata da due fasi ben distinte.Riguardo ai suoi primissimi film cecoslovacchi, tra cui vanno citati L’asso di Picche (1963), Gli Amori di una Bionda (1965) e Al fuoco, pompieri! (1967), il fascino universale risiede nella semplice osservazione della quotidianità e la vita di gente comune, tutto raccontato con un tocco di umorismo sottile e satira sociale. Peter Hames, il ricercatore britannico autore di “The Czechoslovak New Wave”, in una intervista rilasciata alla Radio ceca ha affermato che sebbene il fenomeno della “Nouvelle vague ceca” avesse prodotto innumerevoli registi come Jiří Menzel, Juraj Herz, Věra Chytilová e tanti altri, egli capì cosa rendeva Forman unico solo quando visitò la Cecoslovacchia all’inizio degli anni ‘70. “Ovunque guardassi c’erano scene e personaggi dei film di Forman”, una cosa che a suo parere non riguardava altri cineasti del movimento, aggiungendo che il regista di Čáslav (nato nel 1932), era molto più reattivo all’ambiente circostante rispetto ai colleghi suoi coetanei. Queste prime opere, particolarmente L’asso di Picche, mettevano in luce l’originalità del regista, dotato di un umorismo tipicamente ceco ma nel quale era facile distinguere anche il suo inconfondibile tratto individuale. Hames non ha esitato a fare anche riferimento alla forte influenza del neorealismo italiano, paragonando L’asso di Picche al capolavoro di Ermanno Olmi Il Posto (1961), in cui un giovane cerca lavoro in città, proprio come nel film del boemo.
Fu un altro celebre italiano, tuttavia, a spingere il regista verso gli Stati Uniti: era il momento in cui il cineasta si trovava ai ferri corti con Carlo Ponti, il produttore di “Al fuoco, pompieri!”. A Ponti non piaceva il risultato finale, e sosteneva che Forman non avesse rispettato gli obblighi contrattuali; di conseguenza decise di ritirare i suoi fondi. Mentre i carri armati sovietici entravano a Praga nell’agosto 1968, Forman era a Parigi per un meeting con produttori francesi allo scopo di risolvere le grane finanziarie del film. Così, invece di tornare a casa, il regista decise di mandare amici francesi a recuperare moglie e figli, per poi fuggire negli Stati Uniti. Ma erano in tanti quelli che si posero la domanda: sarebbe stato possibile replicare il successo riscosso in Cecoslovacchia in un contesto così diverso? I suoi film sino ad allora erano una osservazione scaltra dell’ambiente socialista, frutto di conoscenza profonda di un luogo e di un popolo. Qualità difficili da trasportare ad un’altra realtà. Per capire quanto fosse difficile basta dare uno sguardo alle prime pellicole “americane” del suo compatriota Ivan Passer come Il mio uomo è una canaglia (1971) e Legge e disordine (1974), i quali fino a un certo punto funzionano, ma sembrano meno autentici quando cercano di essere film “cechi” cioè quando si focalizzavano su gente ordinaria come negozianti o tassisti, proprio perché erano ambienti di cui Passer non aveva le stesse conoscenze. Una simile accusa fu rivolta anche a Michelangelo Antonioni con il suo debutto americano Zabriskie Point, secondo i critici a stelle e strisce caratterizzato da tanti stereotipi superficiali.
Il debutto del regista boemo invece fu molto più fortunato, nonostante l’insuccesso commerciale. Vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, Taking Off segue due genitori borghesi che s’iscrivono allora a una “Società Genitori Figli Scappati”, e per comprendere meglio i giovani, si danno alla marijuana e allo strip poker. Si tratta di una transizione liscia dal cinema europeo, con scene iniziali di provini per giovani musicisti che rievocano scene simili di Al fuoco, pompieri!, e al suo documentario cecoslovacco Konkurs. Ma se da un lato Forman non abbandona la sua gran capacità di improvvisare, e l’uso di attori non-professionisti come nei suoi primi film, dall’altro si tratta di un tentativo di fare un film sull’America, una analisi sul paese – sulla stessa riga di quanto fatto in patria, film come analisi della Cecoslovacchia.
Ad uno sguardo attento, si nota come, rispetto alle opere successive, Taking Off rimanga quella più ceca, e benché il risultato sia ottimo, la narrativa non è uno dei suoi punti forti. Con Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) lo sforzo di americanizzare il suo stile diventa evidente, ma senza sacrificare temi onnipresenti nel suo mondo narrativo, come il trionfo dello spirito umano di fronte all’oppressione del potere. In questo caso si trattò di Randle Patrick McMurphy, interpretato magistralmente da Jack Nicholson, un pregiudicato che si fa internare in una clinica psichiatrica per sfuggire a guai maggiori. La sua ribellione contro il sistema porterà anche gli altri ricoverati a protestare. La clinica del film vuol rappresentare un po’ il mondo intero, laddove la linea di divisione tra normalità e pazzia non è sempre così chiara, e dove le regole, a volte, sono solo un pretesto di discriminazione. In breve, temi universali. Così anche nel suo paese d’adozione Forman non smette di esercitare il suo sguardo critico, e continua ad attaccare sistemi di potere nel musical Hair (1979):in questo caso si trattava direttamente del sistema capitalista e del governo guerrafondaio degli Stati Uniti. In sintesi, i richiami di libertà che venivano da Praga si intonavano perfettamente con il vento liberale che soffiava in America in quell’epoca.
I temi della Primavera di Praga erano visibili anche nel suo capolavoro Amadeus (1984), e il rapporto fra l’arte e le autorità rispecchiava quello che Forman aveva vissuto nel suo Paese negli anni 60: in breve, il modo in cui il potere finge di sponsorizzare e promuovere l’arte al solo scopo di sopprimere e controllare gli artisti, finendo solo per promuovere il conformismo. Ancora una volta il protagonista è un genio sregolato, uno spirito libero: Wolfgang Amadeus Mozart. L’antagonista, il compositore Antonio Salieri, invidia il leggendario austriaco, e ricorrerà ad ogni mezzo pur di liberarsi per sempre del suo rivale. Si suppone che il regista abbia voluto descrivere paralleli con la propria carriera in patria, dove trovò simili ostacoli alla sua realizzazione artistica.
Alla vigilia dell’uscita di Larry Flynt – Oltre lo scandalo (1996), film biografico sull’eccentrico imprenditore e fondatore del periodico pornografico Hustler, il produttore Oliver Stone riassunse in poche parole il motivo della scelta di Forman dietro la macchina da presa, affermando che questi era conosciuto “per aver fatto film su persone i cui comportamenti non sono ritenuti accettabili da standard normali”. Da Randle Patrick McMurphy a Larry Flynt, da Mozart a Andy Kaufman, il comico anticonformista interpretato da Jim Carrey in Man on the Moon (1999), gli eroi formaniani sono tipicamente geni e ribelli. In seguito alla sua scomparsa, il quotidiano britannico “The Guardian” lo ha descritto come “il regista che ha portato lo spirito di ribellione antisovietica a Hollywood”. Oltre a Forman, solo Roman Polanski è riuscito ad emigrare dall’altra parte della Cortina di ferro ed adattarsi al sistema hollywoodiano così brillantemente. Ma a differenza del polacco, Forman ha continuato a fare film “dissidenti” che solo un emigrato con le sue origini poteva realizzare.
di Lawrence Formisano