FacebookTwitterLinkedIn

La tragica e controversa parabola del Presidente che decise di dire sì a Hitler

Emil Hácha è uno dei personaggi più controversi e più tragici della storia di questo Paese. Traditore o patriota? Ripensando alla tragica parabola che lo ha consegnato alla storia, possiamo dire che probabilmente non fu né l’uno, né l’altro.

Necessariamente, per parlarne, occorre partire da lontano, vale a dire dagli “accordi” di Monaco del settembre 1938, quando Germania, Francia, Regno Unito e Italia decisero arbitrariamente la mutilazione dei confini occidentali della Cecoslovacchia. Il presidente Edvard Beneš non era stato neppure invitato e quello fu un errore fatale per Londra e Parigi, che in quel modo legittimarono la scellerata politica dell’appeasement hitleriano, lasciando campo libero a Berlino. Tant’è che Hitler pochi mesi dopo, nel marzo 1939, in barba ai trattati per cui aveva ottenuto il territorio dei Sudeti, invase l’intera regione.

La cessione dei territori al confine con la Germania nazista determinò, il primo ottobre 1938, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica Cecoslovacca. La cosa fu intollerabile per Beneš, che di lì a poco diede le dimissioni e in seguito espatriò a Londra.

A succedergli, il 30 novembre 1938, fu il cattolico conservatore Emil Hácha. Vedovo dal febbraio dello stesso anno, laureato in giurisprudenza a fine Ottocento all’Università Carlo IV (dove poi sarà professore associato), avvocato, giudice della Corte Suprema Amministrativa nella Vienna post-Grande Guerra, dunque giudice nell’analogo organo a Praga.

Era stato Tomáš Masaryk – primo Presidente della Repubblica Cecoslovacca – a nominarlo, nel 1925, Presidente della Corte Suprema Amministrativa. Specializzato in diritto internazionale, fine giurista, traduttore dall’inglese al ceco, l’anziano Hácha era sinceramente convinto dell’indipendenza del territorio cecoslovacco dalla Germania nazista dopo il diktat siglato in Baviera.

La tensione aumentò molto con il Reich fino alla primavera del 1939, quando il 13 marzo il fanatico e losco antisemita Jozef Tiso, leader del Partito Popolare Slovacco, venne convocato a Berlino da Adolf Hitler in persona, che lo convinse a far votare al Parlamento di Bratislava l’indipendenza dalla capitale boema, antico sogno slovacco che, nell’ottica hitleriana, serviva ad indebolire il governo di Praga.

Vestito con tight scuro, la sera del 14 marzo Hácha prese il treno per Berlino per scongiurare l’invasione tedesca di Boemia e Moravia del giorno dopo. Arrivato nella capitale del Reich a notte fonda, immediatamente incontrò il Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop. Era stato Hitler a convocare Hácha, che tuttavia attese il Führer per almeno due ore. Una strategia diabolica per frustrare ancora di più l’anziano Presidente, vecchio e in evidente tensione.

Mentre l’anziano aspettava, Hitler stava guardando un film. Il Führer era appassionato di cinema e andava a dormire molto tardi. Quando si palesò al vecchio Hácha, era oramai l’una e trenta di notte del 15 marzo. Hitler aveva fretta, ma ancora di più ce l’aveva Hermann Göring, l’onnipotente e corrottissimo numero due del Reich, presente ai colloqui con il Presidente ceco.

Ad Hácha venne formulato un aut aut: l’invasione tedesca si sarebbe svolta in ogni caso, ma l’anziano praghese poteva decidere se cooperare o meno. In caso di mancata collaborazione, l’aviazione tedesca avrebbe distrutto Praga tre ore dopo. Sentite le tremende intimidazioni del capo della Luftwaffe, Hácha ebbe un attacco di cuore, tanto è vero che il medico personale di Hitler dovette fargli un’iniezione per farlo rinsavire.

Con le spalle al muro, Hácha accettò di collaborare con il Terzo Reich; la Wehrmacht marciò sulla capitale cecoslovacca nelle prime ore del mattino. Francia e Gran Bretagna non riconobbero l’invasione di Boemia e Moravia dei nazisti, ma neppure si schierarono con l’“oppositore” Beneš. La cosa non aveva importanza oramai: la Germania non poteva più essere fermata; e meno di sei mesi dopo la guerra sarebbe tornata nel Vecchio Continente.

La Seconda Repubblica Cecoslovacca era morta; dal 15 marzo Hácha divenne formalmente “Presidente di Stato” del Protettorato di Boemia e Moravia, ma a tutti gli effetti era un (in)diretto collaboratore della rete nazista: “Per quello che ho fatto, la Nazione mi chiamerà traditore. Ma quale altra strada avrei potuto scegliere? Se non l’avessi fatto, ci avrebbero uccisi tutti”, confidò un tormentato Hácha ai suoi cari.

Sebbene disprezzasse la Gestapo, i rapporti con Konstantin von Neurath, governatore delle terre occupate dal 1939 al 1941, furono di forzata convivenza, ma non pessimi. Hácha tentò di denunciare l’opera di totale germanizzazione del suolo ceco ad opera dell’ex ambasciatore tedesco a Londra, così come chiese il rilascio di alcuni prigionieri e studenti finiti in campo di concentramento.

Le cose cambiarono il 27 settembre 1941 con l’arrivo di Reinhard Heydrich che sostituiva l’anziano barone von Neurath, accusato di non essere abbastanza duro nei confronti della Resistenza ceca. Heydrich impose nel Protettorato, dove era temutissimo, un clima di terrore. Visto che la Bestia Bionda voleva piazzare i suoi uomini nei gangli dello Stato, Hácha, impotente, minacciò di dimettersi (senza poi farlo).

L’arrivo dell’artefice della Soluzione finale a Praga scombussolò l’intera regione, che – in ossequio al noto astio nazista nei confronti degli “inferiori” cechi – divenne, per la sua conformazione industriale, la “fabbrica” del grande Reich, nonché uno dei luoghi prediletti dai nazisti per il rastrellamento di ebrei e altri “indesiderabili”. Il 4 dicembre 1941 Hácha fece un discorso per radio al popolo ceco dove denunciava Beneš, cosa che venne percepita da molti come un enorme tradimento.

Dopo l’attentato e la morte di Heydrich, la Germania sapeva di aver perso uno dei suoi pezzi migliori nello scacchiere del nuovo Lebensraum. Per ingraziarsi i nazisti furibondi, nel tardo maggio 1942 Hácha optò per attaccare nuovamente Beneš via radio, descrivendolo come il nemico numero uno del Paese e responsabile del malessere dei cechi. Se l’ex Presidente non fosse andato all’estero, disse Hácha, “la nostra patria sarebbe il luogo più benedetto e pacifico in Europa”.

Con l’arteriosclerosi dei vasi sanguigni cerebrali che degenerava sempre di più, Hácha si recò nuovamente a Berlino per negoziare con Hitler, ma le inaspettate difficoltà sul fronte russo e l’entrata in guerra negli Stati Uniti resero il Führer completamente isterico. Solo e nuovamente umiliato, Hácha tornò a Praga e tentò di non peggiorare la situazione pesante che gravava sul popolo ceco rifugiandosi nella politica… dell’appeasement!

Hácha cercò di compiacere passivamente i nazisti che, nel frattempo, avevano polverizzato il villaggio di Lidice e sterminato i suoi abitanti dopo la morte di Heydrich. Se già non godeva di popolarità quando fu eletto nel novembre 1938 Presidente della Repubblica, durante la guerra i partigiani cecoslovacchi e molti cittadini videro Hácha come un bieco collaboratore dei nazisti.

Hácha sopravvisse alla fine della guerra in Europa, l’8 maggio 1945, ma cinque giorni dopo le truppe sovietiche occuparono l’oramai ex governatorato e il giurista – prigioniero numero 3844 – finì nel carcere-ospedale di Pankrác, dove morì il 27 giugno 1945. Il funerale ebbe luogo tre giorni dopo; le sue spoglie si trovano a Vinohrady. Alcuni sostennero che si trattasse di un omicidio, ma la salute di Hácha era precaria da anni.

È difficile formulare un giudizio storico unanime sulla figura di Hácha: ritenuto collaborazionista da alcuni e patriota da altri, è certamente un personaggio controverso. In un’opera del 1995 sul Presidente, gli scrittori Dušan Tomášek e Robert Kvaček spiegarono che egli anzitutto era un uomo sfortunato che divenne presidente di uno pseudo-stato vassallo dopo un lungo corteggiamento tedesco.

Di certo, di alternative, Hácha non ne aveva molte. Per salvare la sua vita ed evitare il bombardamento tedesco di Praga parteggiò per i nazisti, anche se è giusto riconoscere che egli non solo doveva gestire il ricatto della micidiale Luftwaffe nei cieli praghesi, ma nel frattempo doveva gestire le notevoli ed estenuanti pressioni indipendentistiche della Slovacchia, gli attacchi di Beneš da Londra e la gestione corrente dello Stato.

Tormentato, malato e sofferente, Hácha sinceramente credeva di non aver nulla a che fare con l’operato dei nazisti: si dimostrava – o si voleva dimostrare – riluttante nel controfirmare i provvedimenti che gli venivano sottoposti dagli occupanti. Al contempo, era convinto che una collaborazione temporale e parziale con i nazisti avrebbe lenito l’aggressività tedesca nei confronti dei cechi. Si sbagliava di grosso.

Egli giocò la parte del temporeggiatore che per forza maggiore si è prestato ad essere capo di un governo fantoccio, il che non lo esime dalle responsabilità politiche e storiche che inevitabilmente porta con sé. Nel governatorato boemo e moravo, non comandava neppure tanto de jure; men che meno de facto.

Vecchio e malato, non aveva la forza di scegliere l’esilio-resistenza da Londra che scelsero tra gli altri proprio Beneš, Charles De Gaulle e Re Haakon VII di Norvegia; non fu strumento attivo e collaborazionista con il regime nazista come Tiso in Slovacchia o Philippe Pétain al governo di Vichy; non fu eroico come Cristiano X di Danimarca che restò nella Copenaghen occupata e sfidava apertamente il regime nazista.

Riluttante e debole per il ruolo che gli era stato affidato, Hácha – che comunque poteva dimettersi – è ricordato per essere stato una figura malinconica sottoposta a scelte difficili. Certamente, aveva un grave peso sulle spalle: non fu il solo nell’Europa dell’epoca. Tormentato e malandato, è da considerare un traditore o un patriota? In realtà nessuno dei due: come molti sovrani, primi ministri, dirigenti dell’Europa degli anni Trenta, non solo si trovò implicato in qualcosa di più grande di lui, ma non si dimostrò all’altezza delle circostanze oggettivamente complesse.

di Amedeo Gasparini