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Intellettuale, archeologo, collezionista d’arte. Storia di Ludwig Pollak: ignoto a Praga, leggenda a Roma

Amava firmarsi Ludovicus Romanus, e dire che la Città Eterna era per lui l’alfa e l’omega. Roma, la sua luce, la sua arte, la sua storia, sono state per Ludwig Pollak l’orizzonte di una vita consacrata al bello, all’antico. Lui che nella sua Praga natale rimane un nome senza eco, praticamente uno sconosciuto, è stato per il mondo culturale capitolino, a cavallo tra otto e novecento, un personaggio decisivo.

La vita di questo grande archeologo, collezionista e mercante d’arte disegna una traiettoria culturale e umana a raggio largo. Prototipo dell’intellettuale cosmopolita e colto della Belle Époque, il suo destino è nobile e crudele ad un tempo, sospeso tra il mondo praghese e l’orrore di Auschwitz. Una vita fuori dal comune, quella di Pollak: radicata nella Città d’Oro, imperiale ed ebraica. Pare fosse imparentato per via materna con il famoso rabbino Jehuda Löw, quello della leggenda del Golem.

Nato nella città boema nel 1868, si trasferisce presto a Vienna per frequentare il famoso seminario archeologico-epigrafico di Alexander Conze, lo scopritore di Samotracia e Pergamo. Nel mondo mitteleuropeo di fine secolo, l’arte classica ed ellenistica suscitano grande fervore. La capitale imperiale è un importante centro culturale, all’avanguardia nelle arti, nella letteratura, nella scienza. È qui che il giovane Pollak entra in contatto con i più grandi studiosi dell’antichistica di scuola tedesca, tra cui Emanuel Löwy, che sarebbe stato il primo professore di archeologia classica all’università di Roma. Sempre a Vienna, Pollak si laurea in archeologia e ottiene una borsa di studio per perfezionarsi a Roma: è la svolta di una vita, e una grazia per la storia dell’arte. Perché è alla capitale italiana che Pollak legherà a filo doppio tutt’una vita. La lascerà solo due volte, durante la prima guerra mondiale, la prima, e di forza la seconda, ormai anziano di settantacinque anni, su un treno per un campo di sterminio.

Ma riavvolgiamo il nastro per tornare agli anni giovanili, quelli praghesi. Su questi, abbiamo informazioni di prima mano: il racconto in prima persona fatto da Pollak nei suoi diari. Da queste pagine apprendiamo che si era formato nel mondo ebraico askenazita della Città d’Oro, nato da Abraham Pollak e Karoline Schlosser in una via borghese del centro: Bergmansgasse, l’attuale Havířská a Staré město. E alla città, come alle sue radici giudaiche, resterà sempre legato. Durante tutta la sua vita continuò sempre a tornarvi con regolarità per le festività religiose, vi soggiornò anche durante l’esilio forzato da Roma durate gli anni della prima guerra mondiale.

Ma se Praga rappresenta l’identità e la tradizione, Roma è la città della consacrazione e degli anni splendidi. Arrivato nella capitale nel 1893, Pollak ci trova subito una Mecca per le sue ricerche e collezioni. È così che frugando nel retrobottega di un rigattiere, nel 1903, fa la scoperta di una vita, di quelle da romanzo d’avventura. Ma qui è tutto vero: quando un braccio di marmo cattura la sua attenzione l’istinto e la conoscenza dell’arte greca gli fanno spalancare gli occhi. Sì, è di fronte al braccio mancante di Laocoonte, dell’omonimo maestoso gruppo statuario ellenistico custodito ai Musei Vaticani. Oggi quel braccio è il “braccio di Pollak”, capace di riconoscerlo e di averne intuito la posizione ritratta, contro un’opinione generale che l’immaginava proteso verso l’alto. E sarà proprio grazie a questa scoperta straordinaria che Pollak fu il primo israelita a ricevere, nel 1905, una onorificenza da un Pontefice. La croce di commendatore conferitagli da Pio X voleva ribadire l’importanza di un gran dono ricevuto, vale a dire la tessera mancante dello splendido gruppo statuario. Ma questa non sarà la sola scoperta folgorante di questo fine connaisseur. Un altro colpo di Pollak è la scoperta dell’autenticità di un’Atena di Mirone che il collezionista russo Stroganoff diceva essere un falso e teneva in un locale di servizio del proprio palazzo romano. Così, anche grazie a questi exploit, Pollak diventa un nome imprescindibile nel mondo dei salotti romani e dei collezionisti d’arte. Offre i suoi servizi ai più grandi (e facoltosi): diventa consulente e mediatore del conte Stroganoff, del danese Carl Jacobsen, proprietario delle birrerie Carlsberg e del banchiere americano J.P. Morgan, a cui Pollak si riferiva scherzosamente come “Sua Maestà il Dollaro”. Presto il suo mercato e i suoi contatti sono mondiali, ma Pollak è anche un uomo legato alle radici, alla sua terra, e alle relazioni intellettuali forti. Come quella che vive con Sigmund Freud, con cui il praghese di Roma condivide una religione, una lingua e una cultura. Lo psicanalista del secolo è anche un grande appassionato di archeologia e diventa un interlocutore privilegiato di Pollak. Nel 1917 il grande mercante d’arte cataloga le antichità che Freud tiene nel suo appartamento viennese.

Tornato in Italia dopo la fine della Grande guerra, l’erudito praghese diventa il braccio destro del senatore e collezionista Giovanni Barracco, per poi succedergli nella direzione del suo museo. Poi gli anni passano, e il prologo della tragedia s’annuncia. Negli anni trenta l’antisemitismo si fa più aspro, il direttore tedesco della Biblioteca Hertziana gli chiude le porte. Sempre più solo ed isolato dopo il voto delle leggi razziali del 1938, Pollak capisce la gravità della situazione: comincia allora a vendere le sue collezioni. Difficile immaginare cosa significasse per lui separarsi dagli oggetti d’arte che aveva messo insieme in una vita di ricerca e negozio.

Poi la situazione precipita, guerra mondiale, barbarie nazista. Il 16 ottobre 1943, il sabato nero del rastrellamento degli ebrei romani, è preso nella retata romana della Gestapo. Finirà nell’anonimato disumano delle camere a gas di Auschwitz, insieme alla moglie Giulia e ai figli Susanna e Volfango, dopo avere rifiutato l’ospitalità in Vaticano di un monsignore amico suo. Diceva di volere «portare su di sé il destino del suo popolo»: la sua fine tragica non lo ha smentito. Il suo legame con l’ebraismo, profondo, l’ha vissuto fino alle estreme conseguenze. Allo sterminio della famiglia è sopravvissuta soltanto la cognata di Pollak, che ha donato le collezioni, i cimeli, l’archivio, e i diari al museo Barracco.

Una cosa è certa: l’anonimato barbaro della morte di Pollak non ne ha cancellato la vita straordinaria: la sua storia e i suoi oggetti restano nella sua Roma. Così a 150 anni dalla sua nascita e a 80 dalla promulgazione delle odiose leggi razziali, la sua città d’adozione lo ha celebrato e ricordato con una grande mostra che si è chiusa il 5 maggio scorso: “Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte”. L’esposizione, curata da Olga Melasecchi, raccoglie tanti dei suoi tesori in due luoghi simbolo: al Museo Barracco, di cui egli fu primo direttore onorario e dove sono custoditi la sua biblioteca e il suo archivio, e al Museo Ebraico. Qui un percorso di foto di viaggio, di ricche dimore romane che Pollak ha abitato, e ancora dipinti, sculture antiche, vasi greci, acquerelli, libri rari, inediti documenti d’archivio, srotolano le pieghe di un destino multiforme, eco delle tante storie che accompagnarono la vita del grande collezionista. Si disegna così una linea rossa, che va da Praga all’Asia minore e ha come fulcro Roma: il percorso unico e affascinante di un praghese capitolino, firmato Ludovicus Romanus.

di Edoardo Malvenuti