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Le Nazioni Unite denunciano come inaccettabili le condizioni di detenzione di migranti irregolari e richiedenti asilo in Repubblica Ceca. La scintilla che porta ad una riflessione sul rapporto tra cechi e migranti
Nel mezzo dell’ex-Jugoslavia, lontano dai megafoni delle campagne d’odio, scopriamo che il gruppo più numeroso di volontari stranieri è proprio quello ceco, un “team” di oltre cento persone

Ginevra, 22 ottobre. Dal celebre Palais Wilson, lussuoso albergo che tra le due guerre fu il quartier generale della Società delle Nazioni, Zeid Ra’ad Al Hussein, l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, critica ufficialmente, e aspramente, le politiche di Praga su migranti irregolari e richiedenti asilo, e le connesse violazioni dei diritti dei minori. In un passaggio diretto ai vertici dello Stato, Zeid denuncia inoltre la preoccupante xenofobia del discorso pubblico. Il comunicato stampa del più importante difensore dei diritti umani è uno schiaffo morale; anche chi ha poca esperienza in campo diplomatico sa che un intervento volto ad un solo paese, senza sconti, non è certo comune. Il Premier Bohuslav Sobotka ha reagito però con flemma, invitando gli ufficiali ONU a recarsi di persona nel Paese; gli ha fatto eco il Ministro dell’Interno, Milan Chovanec, assicurando il rispetto dei diritti umani dei migranti. Più accesa la reazione del Presidente Miloš Zeman: “una campagna denigratoria contro la Repubblica Ceca”.

La difesa governativa appare piuttosto debole, per due motivi: il primo è che nel Paese gli ufficiali dell’Alto Commissariato si sono già recati; e senza possibilità di perdersi in traduzioni, dato che a capo della sezione europea è Jan Jařab, nato a Ostrava, cittadino ceco. Il secondo è che il report sul centro di Bělá-Jezová, su cui l’ONU ha basato la propria azione, viene dall’Ombudsman ceco (il “difensore civico”, organo istituzionale). La dottoressa Anna Šabatová, titolare del ruolo, ha inviato a Ginevra il dettagliato documento di 33 pagine il 13 ottobre: Bělá-Jezová, 80 km a nord di Praga, 700 migranti detenuti su una capienza prevista di 270. Più di cento bambini sono incarcerati al di fuori del diritto internazionale. I migranti sono trattenuti senza giustificazione fino a tre mesi, ed allo stesso tempo è chiesta loro una tassa giornaliera per una detenzione a cui non hanno scelta. Lo stesso Ministro della Giustizia, Robert Pelikán, ha descritto il centro come “peggio di una galera”.

Il cielo autunnale si fa sempre più cupo. Cosa è successo al Paese risorto nel 1989 grazie alla vittoria dei diritti umani? Dove è finito lo slogan di Václav Havel, “La verità e l’amore trionfano sempre contro le menzogne e l’odio”? Lo sguardo obliquo di un appassionato di storia ceca porta a giudizi affrettati. Parrebbe infatti che un mondo tradizionalmente anti-egemonico, tono su cui la vita culturale boema ha dato prova di sé in innumerevoli occasioni (dall’amore giovanile di Bohumil Hrabal per una zingarella senza nome agli incubi kafkiani dello straniero in lotta per i propri diritti all’ombra del Castello) sia stato sostituito da uno spirito nazionalista, arrogante ed autoritario. Ad un’analisi più attenta, però, si intuisce che il passato non è sempre stato benevolo verso gli stranieri, così come il presente non è così tetro come i proclami dei politicanti lasciano intendere.

Torniamo indietro di vent’anni, per un viaggio di andata e ritorno tra i Balcani e Praga. Il primo esame d’empatia arrivò per la Repubblica Ceca post-comunista ad inizio anni ‘90, con l’ondata di rifugiati jugoslavi in fuga dalla guerra. La maggior parte dei richiedenti asilo andò in Austria e Germania (che da sola ospitò 400mila bosniaci tra 1992 e 1996), ma diverse centinaia di rifugiati giunsero in Boemia, grazie anche a legami storici tra i due paesi (Praga come meta culturale per il mondo socialista) e una lingua più comprensibile per gli slavi del sud. In uno degli ultimi convogli umanitari a lasciare la Sarajevo assediata, con la madre e la sorella maggiore, viaggiava Ena: aveva sette anni. Il padre era dovuto rimanere indietro, non era consentito agli uomini di lasciare la città. Il convoglio le portò in Croazia, un aereo per Praga, un nuovo autobus per Doksy, 70km a nord della capitale, nel campo profughi di Poslův Mlýn. Un campeggio abitato da bambini e dalle loro madri, donne di città, istruite, “europee”. Tuttavia il trattamento che le autorità riservarono loro è descritto da Ena senza mezzi termini: “ci trattavano come animali”. L’amarezza resta, nella trentenne di oggi. “In capanne di legno, condividevamo una stanza con un’altra famiglia. I bagni erano in comune, non ci era consentito usare la cucina – ricordo un guardiano del campo gridare contro mia madre che aveva preso un cucchiaio, un giorno che ero malata. Non ci permettevano di andare a scuola, ci tenevano in quarantena per chissà quali malattie. Solo a febbraio ‘93 diedero il permesso a chi parlava un po’ di ceco, tra cui io e mia sorella. E comunque”, sorriso orgoglioso “alla fine dell’anno ottenemmo tutte A in pagella”. Fuori dal campo, la gente al paese, i compagni di scuola, gli insegnanti, li trattarono come amici, “si comportavano semplicemente bene”. Ma dentro le condizioni erano talmente insostenibili da portare sua madre ad una decisione folle: tornare a Sarajevo ancora in guerra, due anni dopo, con entrambe le figlie. Oggi Ena è di nuovo a Praga, è una musicista (suona ed insegna pianoforte), e alla domanda sulle politiche odierne sui migranti ci risponde di trovarle molto simili al 1992; “Abbiamo sempre pensato ci trattassero così perché anche loro erano poveri a quei tempi. Ora penso che potrebbero semplicemente essere sempre così, e basta”. Rifugiati arrivarono da tutte le parti in conflitto jugoslavo, a gruppi o isolati, anche dalla Serbia più lontana dal fronte, dove le famiglie temevano l’arruolamento forzato dei giovani. Alcuni ripartirono nel ‘96, molti rimasero perché non c’era più un posto dove tornare. Il tratto comune dei racconti è nel giudizio sereno verso le popolazioni locali, durissimo contro le autorità.

Da quei tempi la gestione dei confini è molto cambiata – in primo luogo con l’ingresso nella UE. Dal 2004, la Repubblica Ceca ha adottato politiche più ferree; in quell’anno i richiedenti asilo passarono da 11.400 a 5.400. Il numero è stato sotto le mille unità per anni, nonostante il continuo afflusso di fuggitivi in Europa; nel 2014 ci sono state 1145 richieste d’asilo (nulla rispetto alle 202.645 in Germania). Da dieci anni, il numero maggiore di richieste è arrivato sempre da cittadini ucraini; l’anno passato le domande dalla Siria sono state in tutto un centinaio. Eppure il sentimento che avanza è fortemente ostile verso chi viene dal Medio Oriente, ed un’ipocondriaca paura di un’invasione: mix tra stereotipi anti-islam e populismo nazionalista che non aveva mai preso piede con tale forza. Colpevole è la politica, sia per la diffusione dello “hate speech”, il discorso d’odio che trova una sua precisa collocazione nel diritto internazionale, sia per l’assenza quasi totale in Parlamento di voci in difesa di migranti – dato sconcertante per il Paese, visto che tra 1948 e 1989 hanno trovato rifugio all’estero più di 420 mila cecoslovacchi (in media 10 mila all’anno!). Non può non destare stupore come il Presidente Zeman, in barba alle critiche ONU, abbia annunciato la sua partecipazione il prossimo 17 novembre – festa nazionale in memoria dell’89 – ad una manifestazione dichiaratamente “anti-islam”.

Una politica ostile che trova alleati: ultimo esempio, ad inizio novembre, il proclama congiunto dei ministri dell’interno di Repubblica Ceca e Slovacchia, Milan Chovanec e Robert Kaliňák i quali hanno annunciato che i due paesi non accetteranno nessun rifugiato in quota UE sino al prossimo anno.

Time-out. Abbiamo detto che il passato non è stato sempre positivo, come il presente non è del tutto negativo. Timbriamo dunque il biglietto e torniamo nei Balcani. A pochi metri dal confine croato, in territorio serbo, dalla scorsa estate diverse centinaia di migranti (soprattutto siriani), cercano una via che li porti a nord, verso l’Europa settentrionale. Siamo nel campo di Berkasovo, vicino alla cittadina di Šid. Ad aiutarli, dal fornire coperte e tè caldo al difendere i loro diritti, tanti volontari da mezza Europa, ed una sorpresa inattesa. Qui, nel mezzo dell’ex-Jugoslavia, lontano dai megafoni delle campagne d’odio, scopriamo che il gruppo più numeroso di volontari stranieri è proprio quello boemo, un “team” di oltre cento persone, coordinati dall’Ong Člověk v tísni. È da questa dicotomia tra indirizzo politico dello Stato ed empatia dei suoi abitanti, che il popolo ceco interroga se stesso. Molti volontari sono attivi anche in patria, nel tentativo di bloccare la xenofobia crescente; un esempio, la campagna Česko vítá uprchlíky (La Boemia accoglie i rifugiati), attiva tra Facebook ed eventi di sensibilizzazione sul territorio. Riuscirà questo contraltare della società civile a fermare l’ondata illiberale che scuote il Paese? Non è certo semplice: un recente sondaggio ha rivelato che più di due terzi del paese si dice ormai impaurito dall’arrivo dei profughi, mentre l’80% teme l’espansione dell’Islam nei propri confini. Confini che tornano, inaspettatamente, sotto i riflettori.

di Giuseppe Picheca