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Le pagelle internazionali sulla competitività danno la Repubblica Ceca in calo su molti fattori. Pesano instabilità politica, burocrazia e poca flessibilità del mercato del lavoro

Mesi di incertezza politica, governi dimissionari, governi tecnici, elezioni anticipate, la recessione più lunga mai affrontata dalla Repubblica Ceca, scandali legati alla corruzione e la mancanza di una politica attuale sull’immigrazione. Tutti questi fattori hanno contribuito e continuano a contribuire a un lento ma evidente declino della competitività della Repubblica Ceca. Non è una strada senza uscita, ma il tempo e il terreno persi saranno difficili da recuperare.

A dirlo non sono catastrofisti e pessimisti, ma semplici numeri che analizzati danno un quadro negativo. Le flessioni per l’economia ceca sono arrivate in questi anni di trimestre in trimestre. L’ultima tegola, proprio quando sembrava che la luce in fondo al tunnel si stesse avvicinando, è giunta con i dati del terzo trimestre 2013 in cui è stato registrato un calo del Pil dello 0,1% (su base annua la flessione è stata dell’1,3%), uno dei peggiori risultati dei Paesi dell’Europa centrale. Percentuali negative che unite agli indici internazionali sulla competitività non fanno dormire sogni tranquilli a investitori internazionali e industriali locali. Secondo il “Report mondiale sulla competitività” stilato dal World Economic Forum, infatti, la Repubblica Ceca ha subito il peggior crollo nell’indice da quando questo strumento di misurazione esiste. Nell’ultimo anno ha perso sette posizioni, piazzandosi al 46esimo posto.

PIL competitività

Per la classifica “Doing business” della Banca Mondiale Praga è addirittura 75esima, contro il 45esimo posto della Polonia e il 49esimo della vicina cugina Slovacchia. Dati che fanno male e che rendono la necessità di una strategia chiara e di stabilità politica ancora più ineludibili. Non basterà il padre-padrone Miloš Zeman a tenere dritta la barra, il nuovo governo, se sarà stabile, dovrà rimboccarsi le maniche e mettere a frutto le idee inserite nella “Strategia per la competitività internazionale” 2012-2020 stilata dal precedente esecutivo e che ha l’obiettivo dichiarato di far entrare la Repubblica Ceca nella top twenty della competività mondiale.

Ma cosa danneggia Praga? Secondo diversi economisti i principali problemi che inchiodano al palo il Paese sono l’instabilità e la poca credibilità della politica ceca, coniugata con le difficoltà di fare impresa. Pavel Mertlík, ex ministro delle Finanze e rettore della università privata Bankovní institut, ha spiegato così il crollo nell’indice del Wef: “La classifica si basa su 12 indicatori separati. Siamo all’86esimo posto per quanto riguarda la competitività in generale, ma sul piano della credibilità politica siamo addirittura 146esimi, fanno peggio solo Libano e Argentina. La credibilità è qualcosa che puoi perdere in una sola notte ma che è difficile recuperare”.

A parte le difficoltà legate alla politica e alla sua credibilità, la Repubblica Ceca, però, potrebbe subire un danno diretto dall’andamento degli indicatori che molte delle classifiche internazionali monitorano: prima di tutto la perdita di investimenti esteri diretti. A preoccupare gli investitori, infatti, sono le procedure per la costituzione di un’impresa in Repubblica Ceca, considerate ancora troppo farraginose, e la mancanza di una politica sull’immigrazione che faciliti l’ingresso della manodopera estera. Su questi punti il presidente della Confindustria ceca, Jaroslav Hanák, anche di recente non ha lesinato bacchettate agli ultimi governi: “Come è possibile che nell’era di Internet, della automatizzazione della pubblica amministrazione, per costituire una società commerciale, per avviare un business, qui si debbano attendere settimane persino mesi”. Gli ha fatto eco il suo vicepresidente Radek Špicar: “Far lavorare nel nostro paese un manager straniero, per esempio indiano, significa per una azienda ceca avviare una procedura che può durare anche mesi, persino anni, mentre in un paese come la Germania tutto si risolve nel giro di qualche settimana”.

Posizioni condivise anche dagli economisti che hanno rilevato debolezza della domanda interna, flessione degli investimenti e mancanza di stabilità. Secondo il quotidiano economico Hospodářské noviny a differenza di Polonia e Germania, “la Repubblica Ceca non riesce a dimostrarsi un’isola di stabilità, ma di frustrazione, e questo non è normale se si pensa alle tradizioni economiche e al potenziale che questo Paese può avere”. La Repubblica Ceca, oltre alla prolungata recessione, soffre anche di un “male” comune alle economie occidentali: l’invecchiamento della popolazione e quindi della forza lavoro. Intanto si riduce l’impulso dei cosiddetti “figli di Husák”, le generazioni nate durante gli anni Settanta e Ottanta. Secondo Tomáš Fiala, esperto di demografia della Scuola superiore di economia di Praga, nei prossimi 15 anni si ridurrà del 10% il numero dei cittadini di mezza età che lavorano. E si torna al nodo dell’immigrazione: una politica più elastica potrebbe aiutare il mercato del lavoro ceco.

Ma cosa può fare veramente Praga per uscire da questo circolo vizioso? Forse basterà mettere in pratica gli strumenti a disposizione. Una buona base di partenza l’ha lasciata in eredità proprio il precedente governo con la “Strategia sulla competitività” che detta semplici regole e avverte sui pericoli di deviare da questa strada obbligata. “I potenziali rischi di una mancata ricostruzione della competitività nel campo delle istituzioni – recita il documento – potrebbero essere l’aumento di fenomeni come la corruzione e la riduzione della produttività. Questo si rifletterebbe in un peggioramento dei servizi e della spesa pubblica. Per quanto riguarda le infrastrutture, un approccio passivo annienterebbe i vantaggi competitivi di cui gode la Repubblica Ceca grazie alla sua posizione geografica al centro dell’Europa: se il Paese non sarà collegato con infrastrutture adatte all’Europa, commercio e investimenti ci passeranno accanto”. La Strategia mette i puntini sulle “I” anche sull’istruzione e sui possibili danni a lungo termine se non saranno fatti gli investimenti necessari. “L’obiettivo – prosegue il testo – è di preparare le nuove generazioni al lavoro in un mondo globalizzato e dinamico. L’Istruzione dovrà concentrarsi sull’educazione alla flessibilità”.

di Daniela Mogavero