In memoria dell’autore recentemente scomparso: testimone per caso dell’invasione del 1968, premiato da Havel nel 2000, snobbato dall’Università Carolina nel 2013
“Non chiedetemi come mai Praga mi piaccia così tanto; quando un uomo si innamora, non sa dare spiegazioni”
Sì, è vero, “Il cimitero di Praga” è un indizio decisamente trascurabile per raccontare gli intrecci tra Umberto Eco e la capitale boema. Il titolo per il libro del 2010 fu da lui scelto come avrebbero potuto fare in tanti: per via di quell’aura gotica di mistero ed esoterismo che a Praga è divenuta ormai un brand riconosciuto. Bisogna invece partire da molti anni prima, quasi mezzo secolo, quando la Cecoslovacchia divenne, per sua sfortuna, nodo cruciale della storia.
“Ero a Praga di passaggio, puntavo in macchina verso Varsavia per un congresso, un viaggio culturale, io, mia moglie e due amici” scriveva lo scrittore sulle pagine dell’Espresso il 1 settembre 1968, nella quiete dopo la tempesta dell’intervento armato da parte delle truppe del Patto di Varsavia. “Sosta a Marienbad e a Karlovy Vary, per ritrovare il sapore dei fasti asburgici conditi con la salsa del turismo popolare, e poi Praga, a incontrare gli amici dell’Associazione Scrittori”. Giunti il 19 agosto, i quattro soggiornarono nel quartiere operaio di Libeň e da lì videro sfilare gli invasori la mattina del 21, sorpresi, loro come il resto del paese.
Eco, filosofo e letterato, per quanto giornalista non aveva la minima voglia di diventare reporter di guerra – soprattutto con moglie al seguito – sicché la prima idea fu quella di saltare in macchina e fuggire in Austria: il serbatoio, però, era scarico. Si incamminò dunque verso la città alla ricerca di carburante, per una passeggiata di qualche chilometro in cui divenne testimone oculare delle prime ore dell’occupazione. Vi trovò le lunghe file di carri armati, le discussioni in russo tra occupanti e occupati, la rabbia dei praghesi, la confusione dei soldati invasori. Nel pomeriggio, sotto il castello di Hradčany, un caffè con l’amico “K”. (quale nome fittizio se non K., sotto il castello di Praga?), “tre ore di una tristezza infinita” in cui l’amico non trattiene le lacrime. Tornato al suo alloggio, Eco si trovò di fronte l’ostessa con in mano una tanica di benzina da 20 litri: il giorno dopo era in fila verso sud, con altre macchine italiane.
Pochi anni fa, al quarantennale dell’invasione, il suo collega Enzo Bettiza, giornalista e scrittore, ha aperto una querelle proprio su quel resoconto, e su una discussione che i due ebbero all’hotel Sacher di Vienna in quei giorni. “A lui non importava niente degli studenti, dei lavoratori di Praga; a lui importava solo che il blocco sovietico rimanesse compatto”, l’accusa è stata ripresa da alcune testate italiane, soprattutto dalla stampa di destra, rilanciando i servizi fotografici di Josef Koudelka sulle violenze che Eco, si dice, non aveva voluto vedere per cieca ideologia comunista. Rileggendo l’articolo dell’Espresso risulta però chiaro – per chi ha una certa esperienza con gli eventi del ‘68 – come la testimonianza sia attendibile e non cerchi di sminuire l’irrimediabile errore sovietico. Per le violenze nascoste, basta una mappa della città: il filosofo a passeggio tra i cingolati non avrebbe potuto vedere gli scontri a fuoco, dato che l’assalto alla sede della radio nazionale, anticipato dalla mitraglia e quindici cadaveri davanti alla sua porta, avveniva nel quartiere opposto, Vinohrady, a quello da cui lui arrivava. Gli stravaganti racconti di danze e discussioni sui cingolati furono poi confermati dagli altri testimoni oculari. Quanto alla confusione degli occupanti, venne raccontata nel dettaglio per i lettori di Le Monde dalla giornalista francese Isabelle Vichniac. La resistenza nonviolenta praghese è stato anche quanto raccontato su quelle pagine; una storia incompleta, ma non scorretta.
Il dubbio è che Eco sia finito nella trappola della Praga strattonata, nella storia artefatta per partito preso da destra a sinistra, incompresa e nonostante questo sulla bocca di tutti. Quasi ad annusare polemiche future, l’articolo terminava con queste parole: “Siamo in Austria. Cessato pericolo. In un certo senso siamo a casa. Che devo fare? Suonare la marcia dei marines? Ma i socialisti traditi che ho lasciato a Praga, questo non lo vorrebbero”.
Il racconto personale tra il professore di semiotica e la Primavera ha un epilogo particolare. Vent’anni dopo gli eventi di cui sopra, il leader di quei socialisti traditi arrivava nella sua casa accademica, l’Università di Bologna. Era il 1988, il 13 di novembre, quando Alexander Dubček veniva insignito della laurea honoris causa in Scienze Politiche – per lo slovacco, quasi una resurrezione. “Tornerò, dovessi saltare il filo spinato” scrisse Dubček a un amico prima di quel suo viaggio storico, prima di trovarsi una marea di giornalisti da mezzo mondo a chiamare il suo nome. L’entusiasmo per l’ex segretario del Partito Comunista Cecoslovacco sorprese anche l’allora preside della Facoltà di Scienze Politiche, il professor Guido Gambetta, che lo aveva voluto a Bologna. Lo ha raccontato egli stesso all’agenzia di stampa ceca, Čtk, che tre anni fa (ovvero 25 anni dopo) ha pubblicato un articolo con questo incipit: “Si sono mai incontrati Umberto Eco e Alexander Dubček?”. L’agenzia ne darà poi risposta positiva, dato che con Eco, star dell’ateneo, ci fu il primo di una serie di incontri bolognesi (tra gli altri lo slovacco incontrò il futuro premier italiano e commissario europeo Romano Prodi e l’esule Jiři Pelikán, direttore della televisione cecoslovacca durante la Primavera).
Al tempo il semiologo era conosciuto in Cecoslovacchia, più che i suoi scritti accademici, per il suo primo romanzo, Il nome della rosa. Scritto nel 1980, fu tradotto da Zdeněk Frýbort e pubblicato a Praga nel 1985 dalla casa editrice Odeon. Con “Jméno růže” Frýbort iniziava un rapporto a distanza con l’italiano, sodalizio autore-traduttore durato più di vent’anni, sul quale torneremo tra poco. Nel frattempo gli anni Novanta e gli anni “Zero” condussero il professor Eco verso la fama di luminare mondiale. Non è una facile generalizzazione, basti prendere ad esempio la pagina wikipedia a lui dedicata, presente in 88 lingue: globalizzato, alla lettera. Nel mezzo un nuovo passaggio praghese, nel 2000, a ricevere il premio Vision 97 della fondazione di Dagmar e Václav Havel (all’epoca Presidente della Repubblica Ceca) – un riconoscimento indirizzato agli uomini di scienza capaci di influire “sulle domande fondamentali dell’esistenza umana”. Eco ne approfittò per dichiarare la sua passione verso la città, che vedeva finalmente rifiorire (passione parimenti indirizzata, da ghiottone qual era, per i knedlíky, cardine della cucina boema). Aggiunse: “non chiedetemi come mai Praga mi piaccia così tanto; quando un uomo si innamora, non sa dare spiegazioni”. Havel, dal canto suo, si dichiarò affascinato dall’erudizione dello scrittore, descrivendolo senza mezzi termini “uno straordinario fenomeno letterario e un semiologo il cui lavoro ispirerà molte generazioni”.
È questo personaggio, ormai enorme, che nel 2010 l’ottantenne Frýbort, dopo averne tradotto i primi quattro romanzi (al primo seguono “Il pendolo di Foucault” nel 1991, “L’isola del giorno prima” nel 1995 e “Baudolino” nel 2001), ha descritto con la somma schiettezza di chi non si fa impressionare dagli allori: “Umberto Eco sa scrivere, ma niente di geniale”. Si tratta di un’intervista per Progetto Repubblica Ceca, in vista dell’arrivo del nuovo romanzo “Il cimitero di Praga” (per l’appunto) e Frýbort, da amante della lingua italiana, sottolinea come la narrativa del semiologo sia efficace, ma la poetica non raggiunga le vette dei maestri dello stile nostrano (cita il suo amico Edoardo Sanguineti, come i classici Pasolini, Gadda, Morante). La notizia fu ripresa da varie testate italiane in odore di stroncatura, ma in effetti Frýbort, con cui Eco aveva un rapporto cordiale, nulla tolse alla capacità dello scrittore di orientarsi nel “labirinto dell’umana conoscenza”, come scritto dall’accademica italo-statunitense Cinzia Donatelli Noble.
L’ultima connessione praghese è nuovamente su un tono polemico: siamo ormai a fine 2013, quando il Consiglio Accademico dell’Università Carolina di Praga mette ai voti la nomina per una laurea honoris causa per il celeberrimo – che ormai di questi titoli, ne conta più di una trentina. La notizia non è nella nomina, che non sorprende più nessuno, bensì nell’esito negativo della votazione: i professori dell’Università fondata da Carlo IV non ritengono lo scrittore un candidato ideale. Certo la pratica di lauree ad honorem è ormai un’operazione di marketing per le università, che facendo leva sull’inesauribile vanità degli accademici, usano le lauree come banner pubblicitari. Purtroppo per il prestigioso ateneo in questione, la decisione non è stata presa per integrità morale ma a quanto pare, per un proverbiale granchio, dato che il comunicato del consiglio dichiarava la sua attività di romanziere e drammaturgo come non sufficientemente accademica né interdisciplinare; ma Umberto Eco, drammaturgo, non lo è mai stato…
Alle polemiche di Bettiza, alla schiettezza di Frýbort, allo smacco della laurea honoris causa – Eco è passato oltre col minimo danno: in parte perché sulle polemiche non era nel torto, in parte per una boria da barone universitario a cui certo non era immune: spocchia sì, ma d’altra parte, come si sarebbe potuto evitare d’esser superbi, quando si era Umberto Eco?
di Giuseppe Picheca