Milan Kundera compie 90 anni: la vita movimentata di un figlio di Brno.
Piuttosto che le storie, a rimanere impresse sono le sue considerazioni sparpagliate qua e là nel testo
Se a un profano – con la passione della lettura – si chiede il nome di uno scrittore ceco, in nove casi su dieci farà quello di Milan Kundera. Qualcuno particolarmente appassionato del paese potrebbe citare Bohumil Hrabal. Forse qualcun altro, magari perché appassionato di poesia o perché memore del Nobel ricevuto nel 1986, nominerà Jaroslav Seifert. Qualcuno infine, soprattutto se proveniente da oltreoceano, potrebbe estrarre dal cilindro Josef Škvorecký, in virtù della sua vita da esule in Canada. Perché? La risposta cercheremo di trovarla oggi, anche per celebrare i 90 anni che Kundera ha compiuto lo scorso primo aprile.
Nato a Brno (che non è in Boemia come erroneamente si leggeva sulla biografia dell’Adelphi), Kundera ha avuto una vita relativamente movimentata (anche se meno di altri scrittori cechi). Tra il 1948 e il 1974, anno della sua fuga in Francia, è stato espulso dal partito comunista cecoslovacco due volte – la prima delle quali a causa di una lettera, e questo sarà lo spunto per il suo primo romanzo “Lo scherzo”. Nella sua lunga carriera, però, ha scritto appena dieci romanzi. A questi si aggiungono quattro opere teatrali, tre raccolte di poesia, una di racconti e uno sproposito di saggi. Tra questi ultimi possiamo citare “L’Arte del romanzo”, ma non alludiamo a “L’arte del romanzo” scritta negli anni ‘80 e edita in italiano dall’Adelphi. Parliamo infatti della sua tesi di laurea, scritta al tramonto degli anni ‘50. Un meraviglioso saggio di critica letteraria marxista dedicata allo scrittore ceco Vladislav Vančura (1891-1942, ne risentiremo parlare). Un testo che Kundera ha provato a distruggere con tutte le forze, anche pubblicando l’altra “Arte del romanzo” 30 anni dopo per confondere le tracce. Perché all’autore moravo le polemiche piacciono solo finché non lo danneggiano.
C’è poco da fare, in effetti, a Kundera piace far parlare di sé, e basta leggere un qualsiasi testo dei suoi per rendersene conto. Lo scrittore in effetti spezza volentieri le sue narrazioni piazzandoci le sue riflessioni sul mondo o con episodi della sua vita o di altri personaggi. Alle volte resti sorpreso e divertito, ad esempio quando dice che il figlio di Stalin è stato ucciso per una discussione su “la merda” (parola espressamente usata da lui stesso), due pagine dopo estrae una banalità che fa cadere le braccia. La polemica tira, da prima di Oscar Wilde. A questo si aggiunga che Kundera tratta spesso di amore e di sesso, ma presenta la tematica sempre in maniera piuttosto sordida, un po’ come faceva il Vančura di cui sopra nei suoi primi romanzi, anche se con altro fine. Eh sì, anche il pettegolezzo tira, e questi due elementi potrebbero aver contribuito al successo dello scrittore moravo in occidente.
Ciò che va riconosciuto all’autore è in ogni caso la straordinaria maestria con cui costruisce i romanzi e i vari scritti. Una forma un po’ cerebrale ed elegante. Si tratta di uno dei migliori prosatori dal punto di vista formale che il XX secolo ci abbia lasciato. Tutto, negli scritti di Kundera, sta in un preciso luogo per uno specifico motivo. Lui stesso, figlio di pianista e con una grande passione per la musica, sostiene di costruire il suo testo come una grande sinfonia. Anche se i suoi romanzi sono divisi in sette parti ma non si sono mai viste sinfonie di sette movimenti. Tutte le sinfonie tranne la Pastorale di Beethoven ne hanno quattro. Ma i paralleli tra musica e scrittura vanno oltre. La lunghezza delle frasi e il rapporto tra le lunghezze delle frasi, sta a rappresentare i rapporti delle lunghezze tra le note. Non è che sia l’unico tra i cechi, anche Škvorecký lo fa, pur ispirandosi al jazz più che alla classica. Ma delle differenze tra i due parleremo ancora.
Ma in tutto questo, di che parlano le storie di Kundera? A dire la verità, non rimangono granché impresse, ottenebrate dalle considerazioni dell’autore e dall’incredibile bellezza formale. “Lo scherzo” è forse il romanzo che si ricorda meglio, anche grazie agli elementi autobiografici: un giovane comunista che negli anni ‘50 vede cadere le proprie illusioni nell’ideologia, viene mandato in carcere e quando ne esce prova a vendicarsi del suo vecchio rivale amoroso, salvo poi scoprire che la Primavera di Praga ha cambiato tutto. “L’insostenibile leggerezza dell’essere” parla di una coppia che fugge dalla Cecoslovacchia dopo il 1968 e poi decide di tornare. Questo va ribadito, piuttosto che le storie, a rimanere impresse sono le sue considerazioni sparpagliate qua e là nel testo. Kundera narra il tutto con un freddo distacco Tolstojano, salvo poi metterci qualche termine scurrile. Ed anche in questo si rifà a Vančura. Ciò vale tanto per i romanzi in ceco che per quelli in francese.
Già, i romanzi in francese, croce della critica letteraria ceca e delizia dell’autore che, non autorizzando le traduzioni nella sua lingua, continua a far parlare di sé in patria. Sarebbe bello però se i cechi, invece di scornarsi su questa polemica, si rendessero conto che i romanzi francesi non aggiungono molto a quelli precedenti. Anzi, dato che scrivere in un’altra lingua non è la cosa più semplice del mondo, risultano limitati, quasi delle caricature dei romanzi cechi.
Va comunque riconosciuto che i romanzi francesi sono in tutto identici ai precedenti dal punto di vista formale, e questa è una cosa buona. Sono al suo cento per cento. Ciò si spiega facilmente, ed è forse il vero motivo per cui è proprio Milan Kundera il più famoso tra gli scrittori cechi: è il meno ceco tra gli scrittori cechi. Facciamo un confronto con Škvorecký, altro esule della letteratura ceca. Questi scrive spesso e volentieri le sue esperienze romanzate durante l’occupazione tedesca. Un tema a noi noto e di facile comprensione. Però Škvořecký lo scrive per cechi, con interi dialoghi in tedesco, parole ceche tipiche del periodo come mešersmitka, con riferimenti alla cultura ebraica. Questo per dare un maggior senso di mondo “ceco”, anche all’estero. Kundera lo fa un pochino in “Lo scherzo”, poi progressivamente abbandona. In Kundera non c’è molta vita quotidiana marcatamente ceca (o cecoslovacca). O meglio, c’è ed è filtrata dalle sue considerazioni. Anche quando nel “Libro del riso dell’oblio” la mena per delle pagine con la Lítost (che di suo non ha una sfera semantica diversissima rispetto al nostro dispiacersi), apparecchia tutto il discorso per chi ceco non è, sfruttando la psicanalisi freudiana, ben nota a tutti ma nient’affatto ceca. È quasi come se scrivesse in ceco per dei non cechi, e ciò è molto affascinante. E anche quando cita dei personaggi storici, preferisce sempre figure internazionali. Hemingway anziché Vrchlický (L’immortalità), Stravinskij anziché Smetana (L’Ignoranza) e così via. Ecco dunque che Kundera è a un tempo il più elaborato tra gli scrittori cechi dal punto di vista compositivo, ma il più vicino a noi da quello contenutistico. Ciò conferisce alla sua prosa un respiro internazionale che nessuno dei suoi colleghi ha. E non è affatto una critica, piuttosto un complimento, soprattutto in ragione dei numerosi discorsi sul fatto che le nuove leve letterarie non sono al livello dei dissidenti e non riescono a farsi conoscere all’estero. Come i cechi sono fieri di parlare una lingua incomprensibile, anche gli scrittori sono molto attaccati alla loro dimensione nazionale, e questo li rende ostici a chi del loro paese non sa nulla. Seguire l’esempio internazionalista di Kundera – senza necessariamente giungere ai suoi livelli – potrebbe però ridare un po’ di visibilità alla letteratura ceca a livello internazionale.
di Tiziano Marasco