Incontro con Antonio Conte, il giornalista pioniere anche a Karlovy Vary dei festival del cortometraggio turistico
A prima vista, non lo diresti un “pioniere”, uno di quei “brasseurs” tutti idee e voglia di fare che spesso hanno salvato il nostro paese nei momenti difficili. Dal portamento, dall’aria compassata, dal parlare pacato e riflessivo, ricorda piuttosto un vecchio signore aristocratico, magari di nobiltà morava o austriaca, che incontri talvolta vagabondando fra Italia e Mitteleuropa. Non è così: a 84 anni il pugliese Antonio Conte vanta un curriculum “turistico” di tutto rispetto.
Dire curriculum è in effetti espressione riduttiva, impiegatizia quasi, che mal si adatta al personaggio. Forse, la parola più adatta è semplicemente “animatore culturale”, uomo di pubbliche relazioni internazionali, giornalista…
Da quasi mezzo secolo, per dirla tutta, Conte organizza eventi. Fin qui, nulla di strano… I “public relations man” come si chiamano oggi, crescono come funghi in ogni angolo del Continente. La differenza (e che differenza!) è che Conte questo mestiere lo faceva già mezzo secolo fa, in un territorio e in un momento non proprio facili.
Già: per molti anni, più che le nostre ambasciate sparse fra Praga, Bucarest o Varsavia, il vero ponte con l’Europa dell’Est, quella che allora si chiamava “l’Europa oltre Cortina” è stato lui. Lui e i suoi “Festival del Film Turistico”, uno dei pochi momenti di incontro (e dialogo) fra le due parti del continente diviso.
“Il Festival fu un’idea che spuntò per caso, nel 1962. Un’intuizione che presi da Confindustria – minimizza adesso il giornalista, di ritorno da Belgrado, dove ha ritirato l’ennesimo “Premio alla carriera”. – Tramite il Cit, la Compagnia Italiana Turismo, l’organizzazione degli industriali promuoveva un “festival del film geografico”, ma lo faceva senza troppa convinzione. Si teneva ogni primavera a Venezia, presidente della giuria era il professor Mario Verdone, sì, proprio il padre del comico Carlo. Mario era un grande critico cinematografico, grande esperto tra l’altro del cinema cecoslovacco”.
- E quale fu la chiave del rilancio di quel Festival?
“Mi accorsi che, al contrario di quel che si pensava, i paesi dell’Europa dell’Est, i governi, erano molto interessati agli scambi. Si era in piena destalinizzazione, c’era una voglia sincera di aprirsi, di confrontarsi. Io avevo già qualche contatto a Est come giornalista del “Tempo”, della “Associated Press” e di altre testate. Visto lo scarso interesse di Confindustria, decisi di tentare di persona questa strada. Posso dire, dopo qualche decennio, che mi è andata bene…”
- Scorrendo gli elenchi dei partecipanti alle diverse edizioni del Festival, si rimane stupiti dal numero di ministri, scrittori, registi dei diversi paesi orientali, Cecoslovacchia in primis… Come faceva a convincerli?
“Seguivo una regola elementare. Avevo capito su quali tasti puntare, e su quali argomenti tacere. Il primo degli argomenti da non toccare era naturalmente la politica. Così, spostato il festival da Venezia a Montecatini, gli diedi una connotazione turistica, quasi da documentario promozionale, diremmo oggi. In altre parole, volevo raccogliere dei “documentari” delle nazioni, costruire dei rotocalchi filmati. Niente politica, niente ideologia, è naturale. Detta così, poteva passare. Spedivo gli inviti a Praga, Vienna, Berlino est, ma soprattutto andavo di persona nelle sedi romane dei loro uffici del Turismo. Il rapporto diretto era quasi sempre vincente”.
- Come si accorse che l’idea funzionava?
“I primi anni c’era una certa diffidenza. Alcuni paesi, ricordo per esempio la Bulgaria, si rifiutavano sistematicamente di mandare i loro lavori e i registi non rispondevano neppure agli inviti. Poi, come succede sempre in questi casi, la sorte ci mise lo zampino: arrivò una delegazione sovietica, guidata dalla ministra del Turismo in persona. Parliamo degli anni ‘60. I sovietici proiettarono i loro cortometraggi, poi si aprì il dibattito e si mise al lavoro la giuria. Fra le riviste accreditate al festival, c’era la celebre “Benvenuti in Cecoslovacchia”, che oggi naturalmente non esiste più. Bene, com’è come non è, i cechi mi fotografarono insieme alla ministra russa e misero la foto sulla prima pagina del rotocalco. Evidentemente, la cosa deve avere un po’ impressionato i sovietici. Qualche settimana dopo il festival, mi chiamò il rappresentante dell’Ufficio turistico russo, proponendomi un viaggio “da solo” di dieci giorni, “per scoprire la vera faccia dell’Urss… Accettai, è naturale”.
- Quindi?
“Beh, quel viaggio fu una specie di pass, di salvacondotto… nella logica dei “paesi fratelli”, se mi invitava Mosca, voleva dire che il giornalista Conte era affidabile… I cechi furono tra i primi a raccogliere il messaggio, e gemellarono subito il Festival di Montecatini con il Tourfilm di Karlovy Vary, Festival internazionale del film turistico inaugurato nel 1967. Fui inserito nella giuria della selezione, e vi rimasi per 30 anni, anche dopo la caduta del Muro. Quella foto, insomma, mi aveva portato fortuna…”
- Com’era la “Cecoslovacchia” degli anni Sessanta?
“C’era una voglia di confronto fortissima. Alle proiezioni dei film non venivano solo gli addetti ai lavori, arrivavano anche i giovani, i registi alle prime armi. Si respirava l’aria della “nová vlna”, la nuova corrente del cinema ceco, Roma e l’Italia mantenevano un’attrazione irresistibile, si faceva a gara per essere invitati al festival gemello di Montecatini. Lì, la sede centrale del Festival era acquartierata all’hotel Pupp (allora si chiamava ancora “Moskva-Pupp”), ma alcune manifestazioni si tenevano anche al “Thermal” oppure nei teatri della città. Ben presto, Karlovy Vary divenne l’appuntamento più importante del circuito dei festival, insieme a Montecatini e Vienna”.
- Molta apertura, molta voglia di confronto. Ma ci sarà stato pure qualche incidente, qualche pressione politica…
“Mah… l’atmosfera era molto ovattata, dovevi cogliere il minimo segnale per capire l’aria che tirava. Per dire, una volta ricordo che intendevo premiare, come presidente, un film jugoslavo… e la Jugoslavia di Tito non era esattamente un ospite prediletto… I delegati dell’Europa orientale mi fecero capire con eleganza che non era il caso…”
- Cinema e turismo come strumento di dialogo e di pace. Ma, inutile negarlo, anche di politica. Chi vi finanziava?
“Sostanzialmente, le amministrazioni pubbliche e le città che ci ospitavano. L’Enit ci guardava come marziani: in quegli anni, promuovere il turismo italiano all’Est sembrava una follia. Invece il tempo ci ha dato ragione, a quanto pare. Dopo Montecatini, il festival si spostò a Varese, Napoli, Olbia, Palermo. Lo slogan era: “Una sola Europa dall’Atlantico agli Urali” e funzionò molto bene…”
- Insomma, un canale di scambio quasi ufficiale e ben visto. Ma come avete fatto a resistere nel periodo del cambio e della perestrojka?
“Ho già detto dei messaggi “indiretti” che dovevi captare al volo per sopravvivere. Dopo l’occupazione del ‘68 e la fine della “Primavera” di Dubček, fui molto prudente nelle selezioni. L’idea portante diventò quella di creare una “catena di festival”, uno per ogni paese interessato, limitandoci allo scambio puramente turistico. Insieme all’Italia, naturalmente, c’era anche l’Austria che manteneva una posizione “neutrale”. Dieci anni pesanti, non c’è dubbio, fino all’80. Poi, le cose cambiarono. L’atmosfera di disgelo si poteva percepire ben prima dell’arrivo di Gorbaciov al potere. Per dire, nell’85, a Karlovy Vary arrivò all’esame della giuria un film coraggioso, intitolato “Dialogo fra città: New York e Praga”. Il paragone poteva risultare eversivo, e infatti i giurati si affrettarono a bocciare il lavoro. Ma in una pausa dei lavori, convinsi i delegati a cambiare idea. Morale: il film vinse il primo premio e fu addirittura proposto alla Československá televize. Questo per dire che si percepiva un’apertura. Graduale e prudente, ma costante”.
- Dopo il festival vero e proprio, i delegati effettuavano un tour del paese…
“Sì. Ricordo fra le altre memorie una splendida Český Krumlov primaverile. Un’altra volta invece ci portarono a nord, fra Pardubice e Hradec Králové… zona poco battuta dagli stranieri. E poi ancora più a nord: i Sudeti evocavano memorie guerresche. Invece, a modo loro, furono una rivelazione. A Jablonec, visitammo un’azienda che lavorava le pietre preziose, il castello di Ploskovice costruito dall’italiano Ottavio Broggio ci fece sentire un po’ a casa…”
- Son passati più di vent’anni dalla divisione, ma noto che continua a chiamare il paese “Cecoslovacchia”: nostalgìe dei “bei tempi andati”?
“Lavoro e collaboro benissimo anche con gli slovacchi. Un piccolo festival si è tenuto per anni a Poprad, per promuovere i monti Tatra. Ho però la sensazione che la divisione Cechia/Slovacchia fu una scelta esclusivamente politica, che tagliò fuori la volontà vera della gente. Se si votasse, probabilmente anche oggi la gente sceglierebbe la riunione dei due Paesi”.
di Ernesto Massimetti