Le ultime difficoltà ceche per assumere posizioni univoche nei rapporti internazionali, tra un governo che guarda ad Ovest e un presidente che guarda ad Est
La politica estera negli ultimi mesi non ha lasciato dormire sonni tranquilli in nessun Paese occidentale e molti degli avvenimenti delle recenti settimane hanno scoperchiato dissapori e divergenze di vedute in buona parte d’Europa, tra cui anche la Repubblica Ceca. L’episodio che ha fatto più rumore è stato di certo quello dei raid di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in Siria, in risposta al presunto attacco chimico da parte del regime di Damasco a Douma. Un evento che ha fatto venire a galla le divisioni della politica estera ceca, già presenti su altri temi (come il caso Skripal o la vicenda dell’hacker russo estradato negli Usa), e che ha messo in luce come il filo diretto tra la presidenza e il governo sia molto meno robusto di quanto possa sembrare.
Immediatamente dopo i raid in Siria, infatti, i ministri di Esteri e Difesa, rispettivamente Martin Stropnický e Karla Šlechtová – entrambi esponenti del Movimento dei cittadini scontenti (Ano), guidato dal tycoon Andrej Babiš – hanno espresso il sostegno di Praga verso gli alleati Nato e hanno definito l’azione “legittima” anche in assenza di una risoluzione Onu. “Questi bombardamenti sono un chiaro avvertimento. Chiunque intende ricorrere all’uso di armi chimiche contro i civili, deve sapere che si tratta di qualcosa di inaccettabile e che non sarà tollerato. È stato cruciale segnare una linea che non deve essere oltrepassata”, ha dichiarato Stropnický, aggiungendo che gli Usa hanno ringraziato Praga per il sostegno. Anche il premier Babiš ha reagito inizialmente alla notizia commentando su Twitter con convinzione e sottolineando che l’obiettivo dell’operazione era stato raggiunto. Il capo del governo ha inoltre ribadito che la Repubblica Ceca è contraria all’uso di armi chimiche.
E fino a qui tutto nella norma, almeno così era sembrato a un primo sguardo tra le reazioni internazionali. Poco dopo, però, è giunta la doccia gelata. Il presidente Miloš Zeman ha invece condannato i raid di Washington, Parigi e Londra, definendoli un’azione da “cowboy”, destinati a minare quasi certamente gli sviluppi positivi per i rifugiati siriani che lentamente stavano rientrando nelle loro aree di provenienza.
Zeman non le ha mandate a dire neanche a Babiš. Il presidente ha dichiarato che le dichiarazioni del premier sono state “miopi” e, senza lasciare nessuno da parte, ha ricordato ai ministri degli Esteri e della Difesa che il loro compito è di rappresentare la Repubblica Ceca, non gli Usa, la Francia o il Regno Unito. Lo stesso Babiš dopo un meeting al Castello ha rivisto la propria posizione iniziale, dichiarando che “l’azione armata non è mai una soluzione” soprattutto prima di una risoluzione Onu a riguardo.
Il dietrofront del premier, dopo la lavata di capo ricevuta dal Castello, è stato subito criticato, persino con ironia, dalle forze che compongono l’opposizione di centrodestra, vale a dire i Civici-democratici dell’Ods, i Cristiano-democratici del Kdu-Čsl, i liberali del Top 09 e i Sindaci e indipendenti di Stan. Tutti e quattro questi partiti, pur con diverse sfumature, hanno invece manifestato sostegno all’azione alleata in Siria.
Meno remissivo di Babiš si è mostrato invece il ministro degli Esteri, Stropnický, il quale ha difeso la sua posizione iniziale: “Se la comunità internazionale avesse aspettato i tempi del Consiglio di sicurezza Onu, sarebbe diventata testimone passiva e persino complice dell’attacco chimico”. Una presa di posizione che con ogni probabilità lo ha reso definitivamente sgradito al Castello, tant’è che, secondo voci ricorrenti, Stropnický si sarebbe ormai orientato verso la decisione di lasciare Palazzo Černín e tornare alla sua vecchia professione di ambasciatore, a capo di una sede diplomatica di prestigio.
Contro i raid anche i Comunisti di Vojtěch Filip, i quali li hanno definiti “un atto di aggressione”, mentre Tomio Okamura, leader dei populisti dell’Spd (Libertà e democrazia diretta) ha dichiarato che gli Usa hanno attaccato perché “non riescono a darsi pace del fatto che Russia e Siria abbiano sconfitto gli estremisti islamici”.
Scettici nei confronti dell’azione promossa da Washington anche i socialdemocratici della Čssd, i quali hanno espresso il timore che questa azione possa soltanto creare un’escalation di tensione nella regione.
Ma la questione siriana appare solo la punta dell’iceberg del mancato allineamento, in tema di politica estera, che si nota in Repubblica Ceca.
L’altro caso è stato quello dell’avvelenamento dell’ex spia russa Sergey Skripal e della figlia Yulia in Gran Bretagna ad opera, secondo Londra, di un agente nervino usato dalla Russia. Sul caso, oltre al braccio di ferro tra la Gran Bretagna e il Cremlino, con l’espulsione a specchio di centinaia di diplomatici russi e dei Paesi occidentali alleati dei britannici, si sono susseguite accuse e controaccuse. Dentro alla querelle è entrata anche Praga, dopo che Mosca ha indicato la Repubblica Ceca nella rosa dei paesi probabili produttori della sostanza chimica Novichok utilizzata per avvelenare Skripal.
Babiš – il quale in precedenza aveva manifestato la solidarietà della Repubblica Ceca a Londra espellendo tre membri del personale dell’ambasciata russa di Praga, tra cui i rappresentanti a Praga dell’Svr e del Gru, rispettivamente il servizio d’intelligence estero e il servizio segreto militare della Russia – ha definito “una assoluta falsità” l’opinione di Mosca, negando nella maniera più assoluta la provenienza ceca del Novichok.
Anche in questo caso il presidente Zeman, da sempre noto per le sue posizioni vicine a Mosca, ha reagito con una iniziativa clamorosa, incaricando il capo dei servizi segreti del Bis, Michal Koudelka, di verificare se nel territorio ceco sia stato prodotto o conservato gas nervino. Il capo dello Stato – criticatissimo per questa sua pensata, apparsa a molti osservatori come un modo per accreditare le congetture di Mosca – si è limitato a spiegare: “Non credo neanche io che produciamo Novichok, ma meglio toglierci ogni dubbio”.
Altro tema, che ha visto da una parte il governo Babiš e dall’altra Zeman, è stato il caso dell’hacker russo Yevgeniy Nikulin arrestato a Praga e reclamato per mesi da Washington e Mosca, che alla fine è stato estradato negli Stati Uniti, su decisione del ministro della Giustizia Pelikán. Una decisione contestata dal Cremlino, ma anche dal presidente Zeman, il quale avrebbe preferito che l’hacker venisse rimandato in Russia.
Qui entrano in gioco anche i rapporti fra Washington e il Castello di Praga, da tempo non del tutto distesi. Zeman appare offeso perché da un anno e mezzo attende invano di essere invitato alla Casa Bianca, un ritardo che considera uno sgarbo, a maggior ragione dopo il sostegno manifestato a Donald Trump durante la campagna elettorale presidenziale di quest’ultimo. L’ipotesi più probabile è che il comandante in capo della superpotenza americana, in considerazione anche dei sospetti riguardanti i suoi vecchi rapporti con la Russia, ci tenga a tenere le distanze rispetto a un amico del Cremlino come Zeman.
Nonostante tutto, c’è però un tema di politica estera sul quale Zeman appare in perfetta sintonia con una decisione analoga annunciata da Trump: lo spostamento dell’ambasciata ceca in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, seguendo l’esempio americano. Una intenzione controversa per i delicati equilibri mediorientali, che si fonda sugli storici rapporti di amicizia fra Praga e lo Stato di Israele, sulla quale il premier Babiš si è detto in linea di principio d’accordo – “è assurdo che la nostra Ambasciata non si trovi nella città capitale di Israele, un qualcosa di contrario alla prassi diplomatica” –, ma in pratica frenando la questione e annunciando che per adesso a Gerusalemme ci sarà quest’anno, in primavera, solo un consolato onorario ceco e nei prossimi mesi un České centrum, che sarà aperto in occasione della visita di Miloš Zeman di fine anno. Per quanto riguarda il passo ulteriore, appare difficile, se davvero il prossimo governo Babiš dovesse nascere grazie all’appoggio esterno del partito Comunista, che possa veramente realizzarsi il trasferimento dell’Ambasciata a Gerusalemme, ipotesi rispetto alla quale il Ksčm è assolutamente contrario.
di Daniela Mogavero